Quanto è vero Dio. Il contributo di Sergio Givone

Assessore-Sergio-Givone-3di Alessandro Clemenzia “Perché non possiamo fare a meno della religione”. Questo è il sottotitolo dell’ultimo saggio di Sergio Givone, Quant’è vero Dio (Solferino, 2018): un interessante itinerario filosofico circa la necessità dell’esperienza religiosa per ogni uomo.

Più che presentare il volume, vorrei prendere in considerazione due aspetti su cui Givone sofferma l’attenzione, di particolare interesse anche per l’attuale riflessione teologica: la “religione” come forma di conoscenza e l’assunzione in Dio della contrapposizione e del negativo.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è l’autore stesso a spiegarne il significato: la religione è «quella forma di intelligenza del nostro essere al mondo» (p. 19). Non si tratta, quindi, di capire che senso abbia la religione per l’uomo, ma quale senso la religione offre al mio, al «nostro essere al mondo, anzi (al)l’essere in quanto tale» (p. 23). La scoperta di un senso di sé e della realtà in cui si vive, spiega ancora Givone, appartiene al desiderio di ogni uomo, così come «la ricerca della verità o il perseguimento del bene comune» (p. 22). In questa accezione, dunque, la religione è una modalità di sguardo radicalmente nuova su ciò che già esiste. Per questo, afferma l’autore, «credere in Dio significa credere che il mondo abbia un senso» (p. 24); e ciò, per l’esperienza cristiana, in virtù del farsi carne del Verbo divino, del suo aver assunto la materia (e cioè il non-Dio). E farsi una domanda sul senso del mondo significa contemporaneamente affermare l’essere del mondo; la questione è di natura ontologica: «che la questione del senso sia una questione ontologica e non soltanto logica sembra implicito già nel fatto che l’essere del mondo è in gioco ogniqualvolta qualcuno si chiede che senso abbia il mondo» (p. 25). La misura, tuttavia, di questo senso è la verità escatologica, vale a dire non una verità contestuale e provvisoria, ma una che è da sempre e per sempre.

Una prima risposta che la religione offre sul senso della realtà è la seguente: «Tutto, in una prospettiva religiosa, ha senso. Tutto: anche ciò che ripugna la coscienza morale, anche ciò che urta più profondamente la ragione, anche ciò che appare assolutamente scandaloso» (pp. 25-26). E questo «perché tutto rinvia a una verità nascosta ma che vuole essere rivelata» (p. 26). Una verità nascosta e che vuole essere rivelata spiega chiaramente di che tipo di verità stiamo parlando: «La verità di cui si tratta non è attuale, non fotografa la realtà, ma viene a noi dal futuro anteriore. Non si impone a noi, ma semmai siamo noi a evocarla e a supporla. Non è una verità ontologica, bensì una verità escatologica» (p. 29). Da queste parole di Givone scopriamo fondamentalmente due caratteristiche di questa “verità”. In primo luogo, della verità non si dispone, come se fosse qualcosa che l’uomo raggiunge dal passato; al tempo stesso non si dispone di essa neanche come un “futurum” costruibile dalla ricerca di senso dell’uomo (nel qui ed ora). In secondo luogo, la verità si rivela all’uomo che la evoca per ciò che realmente essa è, proprio nel modo del suo darsi all’uomo. O meglio, dal modo del suo darsi e non darsi all’uomo: la verità si dice in quel darsi/non darsi, come affermazione della libertà, «non solo come il tratto peculiare dell’essere umano, ma come il cuore stesso della realtà» (p. 30).

Un secondo elemento degno di nota riguarda il principio della contrapposizione. Givone introduce il contributo di Hegel, secondo il quale la religione è re-ligio, vale a dire «rilegamento di ciò che è opposto e contrapposto, a opera di un principio unificatore» (p. 36). Nella religione, infatti, si raggiunge una ricomposizione armonica di tutto ciò che è lacerato nella realtà. Eppure, «ci può essere nella religione una contrapposizione che non può essere tolta?» (p. 38), vale a dire una contrapposizione assoluta. Quest’ultima, secondo Givone, «riguarda non soltanto il rapporto che c’è fra Dio e il mondo, ma raggiunge Dio stesso, si pone in Dio, e in Dio opera la scissione più grande e spaventosa: fra il Vivente e la morte. Al punto che a morire è Dio» (p. 44).

Entriamo più a fondo in questa contrapposizione che c’è “in Dio”. Affermare che Dio è Amore significa riconoscere una relazionalità eterna che si allontana radicalmente dalla staticità del dio metafisico di Aristotele. Questa vita divina, che è Trinità, è capace di accogliere in sé la morte: «Dio ama di fronte alla morte e nella morte, cui dice sì come ha detto sì alla vita. Quasi che solo dicendo sì alla morte, la vita potesse essere tratta fuori e salvata dal suo stesso annientamento» (p. 52). Qui si intravede il tipico movimento divino: Dio assume la realtà più altra-da-sé per risemantizzarla ontologicamente dal di sotto e dal di dentro; al tempo stesso, però, da quell’eternizzazione della morte, «l’amore divino è intimamente lacerato, per sempre. La morte diventa il contenuto stesso dell’amore […]. La lacerazione non conosce superamento. È assoluta» (p. 52). La contrapposizione assoluta e la lacerazione assoluta sono, per il cristiano, il luogo attraverso cui si è raggiunti dalla verità dell’Amore di Dio. Non solo; come sottolinea Givone, la sofferenza può divenire per l’uomo origine di conoscenza e ri-conoscenza. E qui la creatura può vivere la medesima dinamica divina: «Nel momento in cui questa assolutezza diventa oggetto di conoscenza, come nel tragico, allora quella contrapposizione cessa di essere assoluta, così come cessa di essere assoluta quella lacerazione» (p. 57). L’uomo, così, partecipa esperienzialmente di quell’amore che Dio è; e Dio stesso, in ogni espressione di questo amore umano, ritrova se stesso (cf. p. 48).