Riconciliarsi con Dio e i modi straordinari di celebrare il Sacramento della confessione

336 500 Francesco Romano
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41oXURgkDaLdi Francesco Romano • Grande risalto è stato dato dai media all’omelia di Papa Francesco, tenuta lo scorso 20 marzo durante la consueta celebrazione della Messa nella Casa Santa Marta, a proposito del perdono di Dio che in determinate circostanze e condizioni è possibile ricevere anche senza confessione e assoluzione sacramentale.

Purtroppo questa emergenza dovuta alla pandemia da coronavirus, che ormai ha toccato diffusamente tutti i Continenti, ha comportato da parte dei governi nazionali la necessità di adottare misure restrittive della libertà personale, che includono anche il normale esercizio della libertà religiosa e di culto, accolte e sostenute dalla Chiesa in vista della salvaguardia del bene primario della comunità.

Il Papa ha inteso sottolineare nella sua omelia che l’isolamento dovuto al Covid-19 rappresenta un caso di gravissimo impedimento tale da giustificare i fedeli che si trovassero in questa situazione a sostituire la confessione sacramentale con un atto di contrizione perfetta, impegnandosi a tempo debito a rivolgersi a un sacerdote per ricevere l’assoluzione individuale nel sacramento della confessione.

In realtà il Papa ha fatto con semplici parole una vera lezione di catechismo in modo da raggiungere la comprensione di tutti, mosso da quella particolare sollecitudine che gli deriva dal ministero petrino per la salvezza delle anime, quale suprema legge della Chiesa. Infatti, il “Catechismo della Chiesa Cattolica”, citando il Concilio di Trento (cf. Denz.-Schönm, 1677), dichiara: “Quando proviene dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta perfetta (contrizione di carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1452).

I due requisiti indicati dal Catechismo come condizione per ottenere il perdono di Dio sono la contrizione perfetta e il votum sacramenti. Per “contrizione perfetta” si intende il dolore per i peccati commessi suscitato principalmente dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, prima ancora che dal timore del castigo eterno. Il dolore per i peccati commessi include sempre, anche il proposito “attuale” di non commetterli più e, non essendoci la possibilità immediata di confessarsi davanti al sacerdote, anche l’impegno (votum) assunto davanti a Dio di ricorrere appena possibile al sacramento della riconciliazione.

Questa modalità di invocare il perdono di Dio riguarda situazioni in cui, anche senza un probabile e immediato pericolo di morte, esiste l’impossibilità di accostarsi alla confessione sacramentale. Infatti, il can. 960 afferma in modo tassativo che “la confessione individuale e completa e l’assoluzione costituiscono l’unico modo ordinario con il quale il fedele, consapevole di essere in peccato grave, si riconcilia con Dio e con la Chiesa”. Tale modo ordinario viene definito di “diritto divino” dal Concilio di Trento (cf. Denz.-Schönm, 1707). Il can. 960 prosegue, non escludendo che il fedele possa trovarsi in una particolare situazione per cui “solo una impossibilità fisica o morale scusa da una tale confessione nel qual caso la riconciliazione si può ottenere anche in altri modi”.

L’obbligo della confessione individuale sancito dal can. 960 come “unico mezzo ordinario” per la riconciliazione, è stato riaffermato nella Esortazione Apostolica post-sinodale “Reconciliatio et Paenitentia: “la confessione individuale e integra dei peccati con l’assoluzione egualmente individuale costituisce l’unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa”(AAS, LXX–VII, 1985, n. 33).

Pertanto, a fronte dell’unico modo ordinario dato dalla confessione individuale e integra per riconciliarsi con Dio e con la Chiesa, possono esserci eccezioni dovute a circostanze esimenti che scusano dal fare una tale confessione. Si tratta di “impossibilità” fisiche o morali, dove il termine “impossibilità” indica una situazione che, in forza di una interpretazione rigorosamente stretta che il caso richiede, costituisce una circostanza del tutto diversa dalla mera “difficoltà”.

L’interpretazione stretta della norma è richiesta dalla eccezionalità del modo straordinario di riconciliarsi con Dio sancita dal can. 961, in quanto l’unico modo ordinario, come si è visto, è dato dalla confessione individuale e integra (can. 960), e per questo la norma in via eccezionale resta soggetta al dettato del can. 18: “Le leggi che […] contengono una eccezione alla legge sono soggette a interpretazione stretta”. Pertanto, l’impossibilità deve essere realmente tale riguardo a circostanze di ordine fisico (infermità grave, pericolo di naufragio, bombardamento, terremoto ecc.) e di ordine morale (grave infamia per il penitente, pericolo di scandalo o gravi danni per il fedele, pericolo di violare il sigillo sacramentale ecc.). L’eccezionalità rispetto all’unico modo ordinario è ancora una volta confermata da Giovanni Paolo II nella Esortazione Ap. “Reconciliatio et Paenitentia”: “La riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale – riveste un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un’apposita disciplina” (AAS, LXX-VII, 1985, n. 32).unnamed (1)

Il Dicastero vaticano della Penitenzieria Apostolica ha promulgato il 19 marzo 2020 una “Nota” circa il Sacramento della riconciliazione, in allegato al Decreto che concede l’indulgenza plenaria ai malati affetti da Covid-19, ai medici e ai paramedici e volontari che li assistono, anche solo con la preghiera, nonché ai loro familiari. È da notare che il Decreto, tenendo conto della grave situazione, non sottopone la concessione dell’indulgenza alle solite condizioni da soddisfare al momento, bensì alla “volontà di adempierle (confessione sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre), non appena sarà loro possibile.

Scopo della “Nota” della Penitenzieria è di chiarire in quali forme ed in quali modalità è possibile amministrare l’assoluzione collettiva, detta anche assoluzione generale, per evitare che si insinuino abusi già conosciuti nel passato più o meno recente, anche con una certa frequenza. Tale preoccupazione è stata ricorrente da parte dei Pontefici. Si ricordi l’ammonizione di Paolo VI in un discorso ai Vescovi statunitensi in visita ad limina nell’aprile del 1978 indicando l’assoluzione generale da “non usare come normale opzione pastorale, o come mezzo per affrontare qualsiasi situazione pastorale difficile. Essa è permessa solamente nelle situazioni straordinarie di grave necessità. Proprio l’anno scorso richiamammo pubblicamente l’attenzione del carattere del tutto eccezionale dell’assoluzione generale” (Insegnamenti di Paolo VI, vol. XVI, p. 293). Anche Giovanni Paolo II in un suo discorso ammoniva: “Quanto al problema dell’assoluzione impartita in forma generale a più penitenti senza la previa confessione individuale, rincresce innanzi tutto constatare che, nonostante le precise indicazioni del Codice di Diritto Canonico e ribadite dall’Esort. Ap. Reconciliatio et Paenitentia, in non poche Chiese particolari si registrano casi di abuso. Al riguardo, sento il dovere di riaffermare che questa forma di celebrazione del Sacramento riveste un carattere di eccezionalità e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un’apposita disciplina” (Discorso alla Plenaria della Congregazione per i Sacramenti, 17 aprile 1986, in Communicationes, a. 1986, p. 41, n. 5).

È ormai chiaro, a questo punto, che anche per l’assoluzione generale, sancita dal can. 961 vale la regola della stretta eccezionalità rispetto al dettato del can. 960 che prevede l’unica via ordinaria della confessione individuale completa per ricevere l’assoluzione. Pertanto, tutto quanto si riferisce al can. 961 che regola l’assoluzione generale è sottoposto a interpretazione stretta (can. 18).

Per l’interpretazione del can. 961 e la retta applicazione dell’assoluzione in forma generale, oltre alla recente “Nota” della Penitenzieria Apostolica, è necessario fare riferimento, innanzitutto e soprattutto, alla “Nota esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi pubblicata l’8 novembre 1996, dal titolo “Assoluzione generale senza previa confessione individuale, circa il can. 961 CIC” (Communicationes, 28 [1996] 177–181). Infatti, spetta a questo Dicastero pontificio la facoltà concessa dal Legislatore universale di interpretare autenticamente le leggi (can. 16 §1).

L’assoluzione generale senza previa confessione individuale è contemplata dal can. 961 che, dettagliatamente nei due paragrafi, ne elenca le condizioni per essere celebrata. Ricordiamo che la forma straordinaria dell’assoluzione generale trovò applicazione nel periodo bellico delle due guerre mondiali.

Il can. 961 presenta due situazioni in cui può venire a trovarsi il fedele penitente: a) “imminente pericolo di morte” (can. 961 §1); b) “una grave necessità” (can. 961 §2). Mentre, in riferimento ai sacerdoti: a) a fronte dell’imminente pericolo di morte “manca il tempo di ascoltare le confessioni dei singoli penitenti” (can. 961 §1); oppure, nel ricorrere di una “grave necessità”, senza che ci sia un incombente pericolo di morte, b) “non si abbiano a disposizione confessori sufficienti per ascoltare convenientemente le confessioni dei singoli entro un congruo spazio di tempo, sicché i penitenti, senza loro colpa, sarebbero costretti a rimanere a lungo privi della grazia sacramentale” (can. 961 §2).

Se di per sé può essere chiara la situazione dell’imminente pericolo di morte contemplata dal can. 961 §1, la “Nota esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi intende rendere chiaro il senso relativo alla situazione che si riferisce alla “grave necessità”: “Perché si verifichi tale stato di «grave necessità» devono concorrere congiuntamente due elementi: primo, che vi sia scarsità di sacerdoti e gran numero di penitenti; secondo, che i fedeli non abbiano avuto o non abbiano la possibilità di confessarsi prima o subito dopo”. Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica in forma di motu proprio “Misericordia Dei” del 7 aprile 2002 afferma: “Si tratta di situazioni che, oggettivamente, sono eccezionali, come quelle che si possono verificare in territori di missione o in comunità di fedeli isolati, dove il sacerdote può passare soltanto una o poche volte l’anno o quando le condizioni belliche, meteorologiche o altre simili circostanze lo consentano”. (Lett. ap. Motu Proprio Misericordia Dei, su alcuni aspetti della celebrazione del sacramento della penitenza in AAS 94 (2002) 452-459, n. 4, 2°, a). Riguardo al secondo elemento temporale che, in modo concomitante, è richiesto dalla “grave necessità, Giovanni Paolo II precisa “sarà un giudizio prudenziale a valutare quanto lungo debba essere il tempo di privazione della grazia sacramentale affinché si abbia vera impossibilità a norma del can. 960, allorché non vi sia imminente pericolo di morte. Tale giudizio non è prudenziale se stravolge il senso dell’impossibilità fisica o morale, come accadrebbe se, ad esempio, si considerasse che un tempo inferiore a un mese implicherebbe rimanere «a lungo» in simile privazione” (m.p. Misericordia Dei, n.4, 2°, d).

Per la validità, riguardo al ministro sacro devono ricorrere gli stessi requisiti necessari per la confessione individuale, cioè che sia un sacerdote validamente ordinato (can. 965) e che possieda la facoltà di esercitarla (can. 966 §1), salvo il caso del pericolo di morte in cui ogni sacerdote anche privo della facoltà può assolvere validamente e lecitamente (can. 976). L’assoluzione generale senza previa confessione individuale è un vero Sacramento e per questo, nelle modalità richieste per la sua amministrazione, non deve essere pensata o confusa alla stregua di un sacramentale come una benedizione che talvolta viene impartita anche attraverso radio o televisione, per es. la benedizione “Urbi et orbi”. Come nella confessione individuale, in cui non è consentito fare ricorso alla tecnologia di comunicazione (vg. telefono, walkie talkie, citofono, skype, mail ecc), anche nell’assoluzione collettiva, pur mancando la confessione auricolare, ma per la natura stessa del Sacramento, il sacerdote deve essere presente ai penitenti e parlare loro direttamente in modo che possano ascoltare le sue parole anche servendosi di un megafono o di un microfono. Invece non è ammesso che il sacerdote comunichi attraverso impianti di diffusione interna a una struttura vasta come per esempio, contemporaneamente in più reparti di un ospedale, attraverso un microfono da una centralina di trasmissione, oppure, rimanendo all’esterno sul piazzale dell’ospedale, attraverso impianti centralizzati collegati con apparecchi di diffusione come possono essere la radio o il televisore. In questo modo si ricadrebbe nel caso della confessione fatta tramite telefono e verrebbe a mancare il rapporto personale tra confessore e penitenti, quale esigenza intrinseca alla celebrazione del sacramento. Una caratteristica dell’assoluzione generale è data da un gran numero di penitenti raccolti insieme che si relazionano tutti direttamente con lo stesso sacerdote confessore.

Pertanto, il penitente deve essere consapevole che sta celebrando il Sacramento della penitenza e che per ricevere ad validitatem l’assoluzione deve avere le disposizioni generali, fare un atto di contrizione insieme al proposito di accusare a tempo debito i singoli peccati gravi che al momento non si possono così confessare (can. 962 §1). Il sacerdote, o chi per lui, prima di impartire l’assoluzione collettiva deve istruire i penitenti sui requisiti suddetti (can. 962 §2) e che per ricevere una seconda assoluzione in modo collettivo deve essersi prima accostato alla confessione individuale, tranne che sia sopraggiunta una giusta causa (can. 963).

Tutto questo ci porta a riflettere sull’estrema difficoltà nella situazione attuale dovuta alla pandemia da Covid-19, anche per i cappellani di ospedale, di accedere direttamente e di persona nei reparti di rianimazione o di medicina in cui sono degenti i pazienti infetti da coronavirus per amministrare validamente e lecitamente il Sacramento della confessione e provvedere a tutti gli adempimenti richiesti dal Legislatore universale nell’impartire l’assoluzione generale. Come sarebbe possibile comunicare, secondo la ratio della norma, ripetutamente confermata dai Pontefici, con pazienti intubati o sottoposti ad altri trattamenti strumentali sanitari, in preda alle conseguenze che comporta lo stato febbrile e ad altre sofferenze fisiche, in una condizione psicofisica fortemente debilitata, rimanendo il confessore sul piazzale antistante l’ospedale, ammesso che al cappellano sia concesso l’accesso ai reparti, visto il regime di assoluto isolamento per motivi di sicurezza, ma anche per non intralciare il frenetico lavoro dei sanitari?

La preoccupazione dei due santi Pontefici, Paolo VI e Giovanni Paolo II, che nella modalità di amministrazione di questo Sacramento si potessero insinuare abusi, si riflette nella formulazione del can. 961 §2 in cui è demandata ai Vescovi diocesani il munus pastorale nei casi concreti di verificare la presenza o meno delle condizioni stabilite dal Codice di Diritto Canonico, alla luce dei criteri “concordati con gli altri membri della Conferenza Episcopale”, per impartire l’assoluzione generale. Il Vescovo diocesano “non è autorizzato a cambiare le condizioni richieste, a sostituirle con altre, o a determinare la necessità grave secondo i suoi personali criteri, comunque degni” (Insegnamenti di Paolo VI, vol. XVI, p. 293). Un abuso sarebbe senz’altro anche quello commesso dal presbitero che ricorresse all’assoluzione generale senza aver prima ricevuto le direttive del Vescovo diocesano. Riguardo agli abusi sull’assoluzione impartita in forma generale, Giovanni Paolo II ebbe a scrivere: “sulla base di un allargamento arbitrario del requisito della grave necessità, si perde di vista in pratica la fedeltà alla configurazione divina del Sacramento, e concretamente la necessità della confessione individuale, con gravi danni per la vita spirituale dei fedeli e per la santità della Chiesa” (m.p. Misericordia Dei, Introduzione).

La “Nota esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 1996 precisa che “il Vescovo non può stabilire i criteri e non ha in alcun modo il potere di modificare, aggiungere o togliere le condizioni già stabilite nel Codice e i criteri concordati con gli altri Membri della Conferenza episcopale”, bensì egli ha, “nei casi concreti e alla luce dei criteri fissati dalla Conferenza Episcopale, il ruolo di verificare la presenza o meno delle condizioni stabilite dal Codice di Diritto Canonico”. Proprio questo è quanto raccomandava San Giovanni Paolo II nell’Esot. Ap. Reconciliatio et Paenitentia: “Il Vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell’ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l’uso della terza forma (vg assoluzione generale), darà questo giudizio graviter onerata conscientia, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati – sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte – con gli altri membri della Conferenza episcopale” (AAS, LXX–VII, 1985, n. 33).

Per esperienza personale, quale docente del corso di diritto sacramentale, mi sovviene che ogni volta che arrivo all’esegesi di questi canoni si pone la domanda su quando la forma di assoluzione generale possa trovare applicazione, almeno nel nostro Paese. Si pensa sempre come ipotesi remota al caso di guerre o di gravi calamità naturali, oppure alle comunità nei Paesi di missione che il sacerdote può visitare solo poche volte all’anno. Ma la preoccupazione del docente è di richiamare anche l’attenzione sul rischio di abusi per iniziative personali, come sempre capita, e come gli stessi Pontefici hanno espresso con puntuale premura, per non dire acrimonia. Nessuno avrebbe potuto immaginare questa pandemia che affligge intere popolazioni costringendole a vivere come se stessero vivendo sotto un bombardamento continuo. Eppure, guerre e bombardamenti, come anche gravi calamità naturali, sono sempre presenti in ogni parte della Terra. Nel nostro Paese, se è lontano il ricordo della guerra, non mancano nelle diverse regioni ricorrenti eventi sismici o alluvioni al punto di travolgere e spazzare via interi centri abitati e di vedere ridotte in macerie chiese e case. Mai però si era ancora pensato, fin dal tempo dell’ultima guerra, di ricorrere all’iniziativa pastorale dell’assoluzione collettiva.

Dalla “Nota” della Penitenzieria Apostolica si deduce che nel “caso di grave necessità” dovuto al Covid-19 l’impedimento per i sacerdoti di avvicinare il malato corrisponda alla loro scarsità secondo le situazioni previste per l’assoluzione collettiva. Con ciò devono rimanere fermi i requisiti espressi in modo tassativo dal Codice di Diritto Canonico e confermati a più riprese dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II nei loro insegnamenti dati, come anche dalla “Nota Esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Inoltre, anche se è richiesto solo ad liceitatem, spetta al Vescovo diocesano giudicare se ricorrono le condizioni previste dal can. 961 §1, n.2, della “grave necessità”, che è una fattispecie distinta da quella della “imminenza del pericolo di morte” (can. 961 §1, n.1), e attenendosi ai criteri concordati con gli altri Membri della Conferenza episcopale per determinare i casi concreti (can. 961 §2).

Un altro elemento fondamentale è la presenza fisica del sacerdote nella celebrazione di questo Sacramento. “Anche in tempo di guerra nel dare l’assoluzione collettiva ai soldati schierati per la battaglia, si raccomandava di passare tra i vari reparti e assolverli a gruppi, e non tutti insieme, anche qualora tutta l’armata radunata potesse vedere il sacerdote. Questo per non venir meno al modo umano in cui il giudizio sacramentale viene percepito dal singolo penitente”. Seguendo la stessa ratio, è comunque necessario che il sacerdote sia presente, almeno “all’ingresso dei singoli reparti ospedalieri” e che i malati siano avvertiti da poter fare l’atto di dolore e possibilmente da percepire la presenza e le parole del sacerdote.

Il rigore con cui la Chiesa ha sempre raccomandato, seguendo la linea dell’interpretazione stretta come richiede il can. 18, nell’applicazione della norma canonica sull’assoluzione collettiva in via eccezionale, ci deve fare riflettere anche sulla prudenza di Papa Francesco quando nella sua omelia-catechesi del 20 marzo, ha ritenuto più che sufficiente soffermarsi sulla certezza del perdono divino e limitarsi soltanto a incoraggiare il fedele a rivolgersi a Dio con animo contrito e con il proposito di fare ricorso al Sacramento della riconciliazione appena gli sia possibile.

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Francesco Romano

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