Più educazione, più virtù e più fiducia in economia

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Luigino-Bruni11di Giovanni Campanella • Il mercato e il dono – Gli spiriti del capitalismo è un libro scritto da Luigino Bruni, professore ordinario di Microeconomia e Storia del pensiero economico alla LUMSA, e pubblicato da Università Bocconi Editore nell’Ottobre del 2015. Il libro si incentra sugli intrecci tra dono e mercato nella storia economica, soprattutto negli ultimi secoli. I primi capitoli danno alcune definizioni e inquadrano i capitalismi attualmente esistenti. I capitoli centrali presentano la tradizione dell’Economia civile e i primi grandi teorici di questa corrente di pensiero e di azione (che comunque affonda le sue radici nei primi secoli del cristianesimo), tra cui Antonio Genovesi e Giacinto Dragonetti. Gli ultimi capitoli trattano dell’impatto della riforma protestante sull’economia mondiale.

All’inizio Bruni ci avverte che oggi non esiste un solo capitalismo. Egli ne individua principalmente quattro. Il primo è fatto «quasi sempre di grandi organizzazioni con proprietari molto frazionati, gestiti da manager pagati oltre qualsiasi buon senso, che, operando a livello globale, scelgono i luoghi dove porre la sede fiscale e le unità produttive al solo scopo di minimizzare la tassazione e di massimizzare i guadagni. Questo tipo di capitalismo produce anche bilanci sociali patinati, crea efficienti organizzazioni filantropiche, sponsorizza con dosi omeopatiche dei propri profitti la ricerca scientifica e il sociale; ma l’unico vero scopo che lo muove è fare più soldi possibili nel minor tempo» (p. 12). Il secondo capitalismo è quello «delle imprese familiari: aziende industriali, artigianali, commerciali, tante agricole. (…) non è di per sé garanzia di correttezza, di buona gestione e di eticità (lo vediamo tutti i giorni), perché il bene e il male attraversano ogni ambito dell’umano, e quindi anche l’economia e l’impresa, che non sono altro che la nostra vita. Tuttavia la presenza di una famiglia alla guida di un’impresa è spesso garanzia che i proprietari sono interessati a durare nel tempo e non a massimizzare profitti di brevissimo periodo. (…). Questa seconda economia è ancora oggi il muro maestro del nostro sistema economico e civile. C’è poi una terza economia, quella che qualcuno chiama terzo settore. E’ quella di molta economia cooperativa e sociale, delle organizzazioni senza scopo di lucro, della finanza territoriale ed etica, di molte opere educative e assistenziali generate da carismi religiosi, e da tutto quel pullulare di attività economiche della società civile organizzata. (…) c’è anche un quarto capitalismo, quello che crea lavoro e innova nel campo della cosiddetta economia della condivisione (la sharing economy), che cerca i finanziamenti per le nuove imprese non nei circuiti tradizionali ma sulla rete (il crowdfunding), che cresce a ritmi esponenziali. E’ il lavoro che sta nascendo dal variegato mondo del consumo critico, da molta agricoltura biologica di ultima generazione (…). Un’economia ad alta intensità di giovani, dove la ricerca del massimo profitto non è il primo movente, perché le priorità sono la sostenibilità ambientale, la dimensione estetica, il gusto della creatività collettiva, la gioia di vedere territori malati o abbandonati rifiorire, inventare Apps che gestiscano i prodotti freschi in scadenza nei supermercati, trasformando così scarti in testata d’angolo delle case di molti poveri. Una nuova economia dove gratuità e mercato convivono e crescono assieme. Il capitalismo finanziario e speculativo sta entrando pesantemente non solo nella seconda economia delle imprese familiari, ma, con i suoi potenti mezzi e con un’ottima retorica, sta occupando anche il terzo settore. La sola grande opportunità perché queste economie ancora diverse possano salvarsi e crescere, è quella di dar vita a una grande alleanza con la quarta economia giovane e creativa» (pp. 13-15).

Un interessantissimo sottocapitolo di Bruni sottolinea che il termine “innovazione” è mutuato dall’ambito della botanica. “Innovazione” è «in botanica, giovane ramo di muschi e di altre piante inferiori; nelle spermatofite, sono innovazioni i germogli e particolarmente quelli basali delle graminacee» (vocabolario Treccani online). «Un primo messaggio che ci arriva dalla logica dell’innovazione-germoglio si chiama sussidiarietà: le nostre mani e la tecnologia possono solo sussidiare l’innovazione, possono cioè aiutare il germoglio a fiorire; non possono inventarlo. La parte più importante del processo di innovazione dipende poco dagli interventi artificiali delle varie mani: essa sboccia, prima di tutto, per la sua forza intrinseca.» (!!) «Per questa ragione è solo illusione pensare di aumentare le innovazioni nella nostra economia senza occuparci prima della salute dell’humus, degli alberi e delle piante. La prima ragione della mancanza di innovazioni non sta nel germoglio che ha deciso di non fiorire più o nella pigrizia dei giardinieri. La crisi del nostro tempo dipende dall’inaridimento dell’humus civile secolare che ha nutrito la nostra società e la nostra economia, un humus fatto di etica delle virtù e del sacrificio generativo» (pp. 16-17).

Attualmente c’è carenza di disponibilità a essere vulnerabili nelle relazioni. Ma le relazioni autentiche nascono e crescono laddove c’è vulnerabilità. Bruni puntualizza «che i team di lavoro più creativi sono quelli dove le persone ricevono un’autentica, quindi rischiosa, apertura di credito. (…). La vita è generata da rapporti aperti alla possibilità della ferita relazionale. (…). Ma la cultura delle grandi imprese globali oggi cerca l’impossibile: vuole la creatività dei loro lavoratori senza accogliere la vulnerabilità delle relazioni. (…) la cultura che si insegna in tutte le business school odia la vulnerabilità, la considera il suo grande nemico. E per molte ragioni. La civiltà occidentale ha operato attraverso i secoli una netta separazione tra i luoghi della buona e quelli della cattiva vulnerabilità. Non ne ha accettato l’ambivalenza e così ha creato la dicotomia. La buona vulnerabilità capace di generare benedizione l’ha invece associata alla vita privata, alla famiglia e alla donna, che è la prima immagine della ferita generativa. Nella sfera pubblica, interamente costruita sul registro maschile, la vulnerabilità è sempre cattiva. Così anche la vita economica e organizzativa si è fondata sulla invulnerabilità. Mostrare ferite e fragilità nei luoghi di lavoro è solo e sempre un disvalore, inefficienza, demerito. Gli ultimi decenni di capitalismo finanziario hanno accelerato la natura invulnerabile della cultura lavorativa nelle grandi imprese globali, dove ogni vulnerabilità deve allora essere espulsa. Il grande mezzo per eliminare la vulnerabilità nelle comunità è sempre stata l’immunità. L’immunità è oggi la nota principale delle grandi imprese capitalistiche. Ogni cultura invulnerabile è anche una cultura immunitaria: se non voglio essere ferito dalla relazione con te, devo impedirti di toccarmi, costruendo un sistema di relazioni che eviti ogni forma di contaminazione. L’immunità è l’assenza di esposizione al tocco dell’altro. L’immunitas è la negazione della communitas: l’anima della communitas è il munus (dono e obbligo) reciproco; quella dell’immunitas è l’ingratitudine reciproca, l’assenza e l’opposto del dono (in-munus, immune)» (pp. 29-31).

Alla base della crisi odierna sta un forte pessimismo antropologico. Si pensa molto spesso che l’uomo sia totalmente incapace di fare spontaneamente del bene, non sia naturalmente capace di cooperare. Aristotele non la pensava affatto così: per lui l’uomo è animale politico, capace di virtù, capace di compiere azioni buone anche per gli altri. La tradizione cristiana ereditò questo ottimismo e lo sviluppò fino alla fine del Medioevo. I monasteri furono insostituibili e straordinari luoghi non solo di cooperazione e di conservazione, ma anche e soprattutto di innovazione. Lì il legame tra innovazione e botanica appariva ancora più evidente. I monaci innovarono sia nei germogli che in economia.

Purtroppo però esistono nell’uomo gli effetti di una ferita primordiale che lo portano in sentieri malsani. Lo scandalo del mercato delle indulgenze e della compravendita della grazia, che ha valore infinito, suscitò ripugnanza in molti. Lutero, legittimamente impressionato da un tale eccesso, costruì la sua teologia sull’eccesso opposto: l’uomo, meschino e miserabile, non può nulla, non ha alcun senso parlare di virtù, non può fare alcunché di buono se non fidarsi di Dio solo in un rapporto pressoché privato senza troppe mediazioni umane. Il suo pensiero attecchì in buona parte dell’Europa. In quest’ottica, l’uomo, inguaribile egoista, si rivolga a Dio privatamente e sia conscio di poter mettere solo la sua meschinità di fronte a Lui. Pubblicamente, dice Hobbes, sottostia a ferree mediazioni superiori, indispensabili per la sopravvivenza.

Il presbitero Antonio Genovesi, «primo cattedratico di Economia in Europa (nel 1754, a Napoli, nella cattedra di Commercio e meccanica, istituita dal riformatore toscano Bartolomeo Intieri)» (p. 59), si inserì in una linea mediana più tendente all’ottimismo. E’ vero che non esiste nell’uomo solo una forza diffusiva, l’amore della specie, ma anche una forza “concentriva”, l’amor proprio, che tende a soverchiare l’altra. E’ vero che nel commercio bisogna distinguere tra lo spirito di conquista e lo spirito civile di reciprocità. Ma, con un buon esercizio della virtù, ben lungi dall’esser vano, e con un buon sistema di istituzioni mirante non tanto a guidare tutto l’uomo ma a rafforzarne appunto l’esercizio della virtù, l’economia può portare pace e accresciuto benessere all’umanità. Giacinto Dragonetti, discepolo di Genovesi, sviluppa il pensiero del maestro e scrive Delle virtù e dei premi. Bruni cita alcuni passaggi: «”E’ vero, che tutti i membri dello stato gli debbono i servigj comandati dalle leggi, ma è altresì fuor di dubbio, che i Cittadini debbono essere distinti, e premiati, a proporzione de’ loro servigj gratuiti. Le Virtù sono tanti servigj considerabili, e arbitrari, che si prestano allo stato. Sono più che umane quelle Virtù, che bastano a se stesse” (p. 12, corsivo mio» di Bruni «). Le espressioni “servigi gratuiti” e “bastano a se stesse” sono due espressioni che ci svelano un ingrediente chiave di una teoria delle virtù civili: la ricompensa delle virtù è la virtù stessa. Quindi, anche se la collettività deve ricompensare dall’esterno, in qualche modo, le virtù, la ricompensa esterna si appoggia sulla ed è complementare e sussidiaria alla prima forma di remunerazione che è intrinseca, interna al soggetto virtuoso. In altre parole, perché un’etica delle virtù funzioni e si implementi nella società c’è bisogno di educazione e di cultura» (p. 75).

Calvino, pur condividendo in buona sostanza il pessimismo antropologico di Lutero, ha più fiducia nella politica e nella sfera sociale: in qualche modo Dio conduce gli individui nel posto che a loro si addice, senza troppo bisogno di quello Stato leviatano di cui parlerà Hobbes un secolo più tardi. Calvino influenzò Adam Smith, considerato il padre del pensiero economico moderno. Secondo Smith, gli spiriti intrinsecamente egoisti dei singoli individui sono orientati tutti verso un bene comune, come condotti da una mano invisibile, vista non come un rigido meccanismo ma come un’immanente tensione verso un ordine. Più di due secoli dopo Smith, gli economisti hanno dovuto più volte correggere il suo tiro a seguito dei cosiddetti “fallimenti del mercato” che continuano vistosamente a verificarsi nella storia.

Vico e Genovesi furono assai meno ascoltati rispetto a Smith ma, ben prima di lui, svilupparono un’idea di Provvidenza in politica ed in economia. Tale Provvidenza deve però essere agevolata da privati e istituzioni, il cui egoismo non è inguaribile: essi possono e devono essere educati alla virtù.

Interessantissimo è anche il legame che Bruni individua tra calvinismo e giansenismo.

Le ultime pagine del suo libro sono “affidate” ad Amintore Fanfani. Storico dell’economia e poi politico, egli fa una distinzione tra dottrine volontariste e naturaliste. Il volontarismo ammette che esista nell’uomo una tendenza a deviare dal giusto tracciato ma ammette anche la possibilità che l’uomo possa essere corretto, allenandolo alla virtù e affiancandolo a istituzioni comunitarie, relazionali, non anonime. Il naturalismo crede che l’uomo sia completamente incapace di virtù ma crede in un ordine economico immanente razionale che si attua secondo le leggi naturali. Conseguentemente, il naturalismo riduce «tutte le possibili norme ad una sola, quella di lasciare operare le leggi naturali in libertà» (Fanfani come citato a p. 157). Il pensiero di Fanfani, Bruni e degli esponenti dell’Economia civile rientra nel filone volontarista.

Una possibile terapia che ci suggeriscono per l’attuale economia malata consiste quindi in «educazione, scuola, premi e istituzioni che rafforzino la virtù» (p. 156), la fiducia nell’altro e nell’Altro.

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