Quell’insopprimibile desiderio d’immortalità

249 202 Stefano Liccioli
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di Stefano Liccioli • «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Sono parole di Aldo Moro scritte in una lettera indirizzata alla moglie Eleonora quattro giorni prima di essere ucciso. Mi ha sempre fatto riflettere che lo statista democristiano mettesse a nudo, in maniera così semplice e diretta, il desiderio di sapere «come ci si vedrà dopo». Chissà quante volte avrà pensato alla morte nei suoi cinquantacinque giorni di prigionia e che sincerità nel confessare che «se ci fosse luce sarebbe bellissimo». Moro, il credente, il cristiano che come ultimo desiderio del condannato chiede ai suoi carcerieri (e da lì a poco carnefici) di ascoltare la Messa, esprime la desiderabilità della vita eterna, un aspetto che non può essere marginale nella fede.

A nessuno piace morire o meglio a nessuno piace pensare che la propria vita finisca nel nulla, neanche ad un ateo che però non riesce ad ammettere ciò che la ragione non osa sperare. A tal proposito significativa la riflessione dell’umanista Settembrini  che ne’ “La Montagna incantata” di Thomas Mann considera la cremazione come un modo per rispondere all’umano bisogno di durare nel tempo, la cenere come parte imperitura dell’uomo.

La mia convinzione è che il bisogno di vivere in eterno sia un’esigenza connaturata agli uomini e le donne, riluttanti (e quasi disgustati) all’idea della morte. A sostegno di questa mia tesi porto il pensiero di Miguel de Unamuno, filosofo e scrittore spagnolo, morto nel 1936, all’alba della guerra civile. Celebre per essere l’autore dell’Agonia del Cristianesimo, Unamuno è un non credente, un ateo perseguitato dalla nostalgia della fede. Infatti per dimostrare che l’immortalità è una sete  insita nell’uomo, quale miglior metodo che prendere in considerazione un autore non riconducibile ad una fede definita che implichi l’accettazione di un Aldilà e quindi il credere in una sopravvivenza dopo la morte?

Unamuno sostiene che l’ansia di perpetuazione nasce dall’istinto più elementare di conservazione e costituisce un’esigenza inalienabile. E poco importa se la ragione nega tutto questo oppure non riesce a dimostrarlo. C’è una certezza d’ordine morale che ci fa dire che l’uomo desidera vivere in eterno e lo provano tutti quei surrogati d’eternizzazione come le imprese eroiche o la fama che però non sono la maniera giusta di concepire l’immortalità e non placano lo spirito frenetico di perpetuazione. In questa ottica Dio si presenta come ragione dell’essere di noi stessi e soprattutto garantisce la nostra immortalità e colma l’insufficienza di appagamento da parte delle realtà terrene.

In una lettera ad un amico che gli rimproverava, quasi fosse presunzione e orgoglio, la sua ricerca d’eternità Unamuno rispondeva in questi termini: «Non dico che meritiamo un Aldilà, né che la logica ce lo dimostri, dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Senza di essa non c’è più gioia di vivere…È troppo facile affermare: “Bisogna vivere, bisogna accontentarsi di questa vita. E quelli che non se ne accontentano?”. Non è chi desidera l’eternità che mostra di non amare la vita, ma chi non la desidera, dal momento che si rassegna così facilmente al pensiero che essa debba finire». Questa confessione così sincera, quasi gridata, è così umana, così rispondente al desiderio di tutti quello che “non si accontentano” e vogliono vivere per sempre. Quello di Miguel de Unamuno è un Dio “tappabuchi”, come direbbe Bonhoeffer? Forse sì, ma da un ateo, seppure inquieto, come Unamuno non possiamo pretendere di più. Ci basta che abbia messo in luce quanto l’esigenza d’immortalità sia connaturata all’uomo. La Rivelazione cristiana s’inserisce su questo dato antropologico. Illuminanti a tal proposito le parole, con cui concludo, della Gaudium et spes, quando al numero 18 parla del mistero della morte:«L’ uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’ istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’ eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore. Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l’ uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene».

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Stefano Liccioli

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