Una fede all’insegna del “noi”

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di Alessandro Clemenzia • «E’ impossibile credere da soli». Con queste parole si apre il n. 39 della Lettera Enciclica Lumen Fidei, inserendosi all’interno del tema sulla trasmissione della fede. L’incontro con Cristo, un evento fondamentalmente personale, tanto da segnare in modo indelebile l’interiorità del soggetto credente, avviene sempre all’interno di un processo di comunicazione, e dunque in un sistema relazionale. Già nel numero precedente dell’Enciclica (n. 38), è scritto: «La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri». L’esperienza del credente, in altre parole, avviene sempre all’interno di un contesto comunitario, ecclesiale, non soltanto come luogo di trasmissione della fede, in senso temporale («non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’epoca così distante da me», n. 38), ma anche come spazio in cui il singolo “io” si auto-comprende nell’oggi, nel momento in cui si apre alla dimensione del “noi” ecclesiale: «La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità credente, non è rapporto isolato tra l’“io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa» (n. 39). Particolarmente interessante è la sottolineatura fatta a proposito della fede che si apre alla comunione: «per sua natura». La comunionalità, infatti, non può significare l’obiettivo dell’esperienza cristiana, ma ne è il punto di partenza e l’orizzonte all’interno del quale è possibile recuperare il senso del proprio “io” di fronte al “Tu” di Dio. E questo ha un valore ecclesiale veramente importante: non sono i singoli “io” a generare il “noi”, ma è il “noi” lo spazio all’interno del quale i singoli “io” si appropriano della propria coscienza singolare. Questo «per sua natura», tuttavia, non si radica esclusivamente nella dimensione ecclesiale della fede, nel fatto cioè che ciascun “io” si riconosca come interlocutore del “Tu” di Dio all’interno di un “noi” già dato, ma si riferisce in particolare al ritmo trinitario che caratterizza lo stesso “Tu” divino, vale a dire l’essere, a sua volta, un “Noi”. Continua Papa Francesco: «Questa apertura al “noi” ecclesiale avviene secondo l’apertura propria dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra Padre e Figlio, tra “io” e “tu”, ma nello Spirito è anche un “noi”, una comunione di persone» (n. 39). Prima di entrare nel riferimento trinitario della fede cristiana, è opportuno fare una precisazione sulle cosiddette categorie personologiche che sono qui utilizzate: l’io, il tu e il noi. La categoria del “noi” non viene intesa come la somma o, peggio ancora, una sintesi anonima del rapporto tra l’“io” e il “tu” (come, ad esempio, avviene nell’uso colloquiale della lingua italiana, in cui si può tranquillamente dire: “noi due”); il “noi” non è neanche la condizione etica del fatto che uno si trova di fronte all’altro. Esso, invece, chiama in causa un terzo, non esterno né estraneo (come se fosse un “egli”), verso il quale l’”io” e il “tu” si rivolgono, guardando verso un’unica direzione. In Dio è proprio lo Spirito Santo, il terzo, che non funge da chiusura “perfetta” del rapporto tra Padre e Figlio, ma anzi lo apre, rompendo lo schema di una reciprocità duale. Il principio della “terzietà” è proprio ciò che garantisce la pienezza della relazione in quanto è la fuoriuscita e la ridondanza della relazione tra l’“Io” e il “Tu” divini. Lo Spirito Santo, infatti, è l’eccedenza dell’amore tra Padre e Figlio, che esce da Dio per raggiungere il non-Dio: l’uomo. Potremmo quasi dire, che lo Spirito è l’amore che circola in Dio fino a raggiungere, dalle sue viscere (utilizzando un termine oggi conosciuto e usato), la periferia di Dio, e cioè l’umanità, rendendola partecipe di quella dinamica intradivina, di cui Egli è la personificazione. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se la Tradizione ha conferito alla terza Persona della Trinità il nome di Amore: e l’amore è tale quando si apre verso l’esterno, generando a sua volta, nell’altro-da-sé, la stessa dinamica che le è propria. L’“io” del credente, che ha come oggetto di fede un Dio che in se stesso è un “Noi”, deve assumere (nel senso più alto del termine) dal rapporto personale che ha instaurato con il “Tu” di Dio, lo stesso ritmo trinitario, non solo riconoscendo nel “noi” ecclesiale comunitario l’origine di se stesso, ma sapendo che l’apertura all’altro, chiunque esso sia, è parte integrante della sua relazione con Dio, in quanto è la fecondità del rapporto, la sua terzietà. Si tratta di una fede  inverata e plasmata dall’oggetto cui essa aderisce.

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