Il canonico Reginald Pilkington e la liturgia. Tra parole passate e pensieri futuri.

518736158di Carlo Nardi • Copio pari pari da un libro di ottant’anni fa. Dal titolo parrebbe annunciare cose tecniche e piuttosto secondarie: La chiesa e il suo arredamento. Spiegazione alle regole liturgiche relative (Torino 1937). L’autore è un inglese fattosi cattolico dall’anglicanesimo, poi prete, Reginald Pilkington (n. 1892) del clero della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, per diciott’anni docente di liturgia al Seminario Fiorentino. Poi, canonico di Westminster, morì nel 1975. Ma il suo libro, prefato dal cardinale Elia Dalla Costa, sul decoro delle chiese è tutt’altro che decorativo. Vale la pena leggervi tante cose. Accennando alla struttura della chiesa come edificio, Pilkington scriveva: «Il tempio materiale vien diviso in due parti: la navata e il presbiterio. Tre disposizioni sono in uso», a partire da quella «più antica» con alcuni rilievi: «Nel fondo dell’abside si trovano i seggi per i sacerdoti in semicerchio col trono del vescovo, se c’è, nel mezzo. Davanti, ad un livello più basso del trono, l’altare all’incrocio del transetto è disposto in modo che il celebrante stia colla faccia voltata verso il popolo» (p. 23). Poi formulava un auspicio: «Se mai un giorno il movimento liturgico riuscirà a non far mettere sulla sacra mensa, secondo la regola primitiva, altro che i vasi eucaristici […], allora si potrà riprendere questa disposizione, che meglio delle altre esprime la bell’idea dell’offerta collettiva del sacrificio fatto da tutta l’adunanza» (p. 24).

Il movimento liturgico, come riappropriazione della liturgia quale ‘opera del popolo di Dio’, in questi ultimi secoli a seguito di una riconsiderazione del culto nella Chiesa antica, ce l’ha fatta – si potrebbe dire – a convenire con gl’intenti del canonico inglese. A questo proposito ricordo due tappe di evoluzione. Anni cinquanta: Pio XII dispose che le cerimonie della settimana santa fosse alla loro ora: la messa della cena del Signore il giovedì santo nel pomeriggio, e così per funzione del venerdì, la cosiddetta messa dei presantificati, e la veglia della risurrezione nella notte. Come mai erano state anticipate la mattina del giovedì, del venerdì, del sabato santo? Probabilmente per abbreviare il digiuno quaresimale ed eucaristico, sì che si faceva risorgere nostro Signore a mezzogiorno del sabato, a Firenze con lo scoppio del carro.

Poi la riforma liturgica del Concilio con le sue applicazioni. Quali frutti? Per esempio, dell’ufficio divino ci sono libretti a disposizione, sono di tutti e per tutti, per pregare insieme o da soli. C’è qualcuno che si ricorda la celebrazione dei vecchi vespri, la domenica sera? Gli uomini col priore dietro l’altare a vociare una lingua per lo più sconosciuta e qualche donna in chiesa che magari rispondeva al Magnificat o, come si diceva, alla Magnifica. Era l’espressione del popolo di una parrocchia in preghiera o di un popolo privato della sua preghiera? La risposta non può essere perentoria. Forse c’è molto dell’una e dell’altra condizione. Ma porsi la domanda non è poco, e porsi personalmente anche alla volta della «partecipazione cosciente e attiva» di «tutti i cristiani» semplicemente «in forza del battesimo»: preoccupazione della Costituzione sulla liturgia del Vaticano II (Sacrosanctum concilium 14).

Ancora. Messa e sacramenti, nonché i cosiddetti sacramentali sono, e devono essere, all’insegna della “cura della massima partecipazione” (cf. Sinodo diocesano, norma 16). Difatti, nel farci attenti ai segni santi nella loro essenzialità, si vive la liturgia come azione di Cristo col suo corpo che siamo noi, sua Chiesa. Sono ancora i sensi del Vaticano II, quel Concilio che Paolo VI concludeva sottolineando: «innumerevoli linguaggi oggi in uso qua e là sono stati introdotti nel sacro ordinamento dei riti in modo da esprimere le parole degli uomini rivolte a Dio e a loro volta le parole di Dio rivolte agli uomini» (Omelia del 7 dicembre 1965).

Fa impressione leggere in quel libro del ’37 sguardi lungimiranti di cui si avverte sempre più l’importanza. Eppure il reverendo Pilkington di queste cose serie sapeva parlare anche con humour inglese e ironia toscana: «Perché tutte queste smanie per far celebrare sotto il minimo pretesto» – cose solo da anni ’30? – «il santo battesimo, il matrimonio e anche il sacrificio della Messa nelle abitazioni private piuttosto che nella chiesa parrocchiale che è la nostra vera casa spirituale e che è stata fatta apposta per la celebrazione di queste funzioni, le quali […] dovrebbero interessare tutta la famiglia parrocchiale? Ci sono anche signorine che per qualche ragione sentimentale vogliono sposarsi per forza in qualche cappella di monache, ciò che […] dev’essere poco gradevole per il povero sposo» (Il culto della Chiesa. Spiegazioni popolari di s. liturgia, Vicenza [1930], p. 44). Come se il giovanotto, colpevolizzato e anestetizzato da tanta sacrale verginità, dicesse fra sé: “ma non avrò mica sposato una monaca?”