Francescanesimo dove meno te lo aspetti

170 252 Giovanni Campanella
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bazzichi-oreste-bisdi Giovanni Campanella • Nel mese di Settembre 2015, la Armando Editore ha pubblicato Dall’economia civile francescana all’economia capitalistica moderna – Una via all’umano e al civile dell’economia, scritto da Oreste Bazzichi e con prefazione di Stefano Zamagni. «Oreste Bazzichi è docente di Filosofia sociale ed Etica economica alla Pontificia Facoltà Teologica S. Bonaventura – Seraphicum (Roma). Collabora a diversi periodici e fa parte della redazione della rivista scientifica “La Società”. Dal 1968 al 2005 ha svolto la sua attività professionale come funzionario e poi come dirigente della Confindustria. Essendo laureato anche in teologia, ha approfondito i rapporti tra etica ed economia, soprattutto con una particolare attenzione alla dimensione storica» (copertina).

Lo scopo dichiarato del libro è sottolineare il fondamentale apporto dei pensatori francescani allo sviluppo del pensiero economico e dell’agire economico lungo i secoli (non è tuttavia trascurato il contributo di San Tommaso d’Aquino). Quando Bazzichi analizza il pensiero di filosofi ed economisti al di fuori della cerchia francescana si preoccupa di cogliere gli influssi che la riflessione francescana ha avuto su di essi. Il libro è ricchissimo di interessanti informazioni su noti personaggi della storia cristiana ed economica e su diversi contesti socio-culturali. Evidenzia pregevolmente legami tra fede ed economia.

A mio avviso, è un po’ debole quando in qualche passaggio si smarca dall’ambito economico e si avventura in speculazioni di teologia pura, come ad esempio nel secondo capitolo, incentrato su Gioacchino da Fiore. Giudica forse un po’ troppo sbrigativamente l’epoca della Riforma Cattolica: Bazzichi usa il termine Controriforma, nel cui clima, secondo lui, «dominato non solo da una decadenza economica e da una rassegnazione politica, ma anche da un’attività oppressiva di ogni pensiero sospetto di eresia o di anticonformismo, gli intellettuali scarseggiano e quelli che si fanno notare non hanno creato un seguito riconoscibile, anche se hanno lasciato un’eredità di pensiero universale» (p. 161). Sbrigativa è probabilmente anche la sua valutazione negativa della posizione della Chiesa medievale riguardo all’interesse, posizione che è stata riabilitata invece da studiosi del calibro di Keynes, Schumpeter e Dempsey. Inoltre affermare che il bene scarso è «da sempre l’oggetto della scienza economica» (p. 212) potrebbe non essere condivisibile per Zamagni, che pur ha scritto la prefazione al libro (cfr. pp. 42-43 del suo piccolo ma profondo saggio Prudenza).

Nel complesso, l’opera di Bazzichi rimane comunque di grande interesse. Il discorso segue una chiara linea cronologica che parte dalla nascita delle prime università, passa dalla fioritura dell’economia comunale toscana, dai primi teologi e predicatori francescani, da una breve ma intrigante parentesi su Sant’Antonino da Firenze, dalla nascita dei Monti di Pietà, dal rigoglio settecentesco del pensiero economico civile (comprendendo anche un sorprendente Smith, che ultimamente non finisce di stupire dopo essere stato frainteso per secoli) e approda infine alla progressiva rottura tra economia ed etica (le conseguenze di tale rottura sono oggi palpabili).

La prima parte del primo capitolo delinea un quadro dettagliato del dinamico contesto economico del Basso Medioevo, evidenziandone luci e ombre. A metà del primo capitolo il libro lascia l’analisi della storia economica stricto sensu e da lì in poi si dedica soprattutto ma non esclusivamente alla riflessione sulla storia del pensiero economico, iniziando a richiamare brevemente alcune teorie sulla moneta e mettere in luce tratti salienti delle tesi economiche di San Tommaso d’Aquino.

Acquisisce poi preponderanza la disamina delle idee dei primi seguaci di San Francesco d’Assisi. «Accanto e in aggiunta al tema della povertà si è innestata l’idea che la sancta rusticitas francescana non consentisse ai frati un’adeguata attività intellettuale. Niente di più falso. Basta ricordare i primi “maestri” dell’Università di Parigi (Alessandro di Hales, San Bonaventura, Giovanni Duns Scoto, Alessandro Bonini di Alessandria, Aimone di Favershan, Gilberto di Tournai, ecc.) e dell’Università di Oxford (Roberto Grossatesta, Adamo Marsch, ecc.). Non è corretta, quindi, l’interpretazione che considera S. Francesco contrario agli studi e alla cultura. Si tratta di un equivoco che non tiene in considerazione il suo esatto pensiero. Difatti, l’ammonizione che egli rivolge ai frati nella Regula bullata: “Se non sanno di lettere non si curino di apprenderle” (c. 9), altro non significa che nel movimento francescano c’è posto anche per gli indotti. Tanto è vero che S. Bonaventura nell’Expositio super Regulam Fratrum Minorum interpreta la volontà di Francesco nel senso di un incoraggiamento a studiare la teologia, senza la quale non sarebbe possibile neanche la predicazione» (p. 87). «(…) i pensatori francescani, attraverso una elaborazione teoretica ed un’azione pratica, suggerite dal vivere quotidiano in mezzo al popolo ed alle sue esigenze materiali e spirituali, iniziano a costruire le fondamenta del sistema socio-economico ed etico-politico; in questo senso si può parlare di una vera e propria Scuola di pensiero francescano anche in campo etico-economico, nella cui analisi si trova la connessione tra produttività del capitale e produttività del lavoro. (…). Protagonisti e fondatori dei primi concetti socio-economici (utilità sociale della mercatura, produttività del denaro, valore economico e giusto prezzo, mercato monetario, ecc.) furono – anche se non in modo esclusivo, ma significativo – i teologi francescani del XIII e XIV secolo, che formarono la prima “scuola” economica, da cui è emerso il moderno spirito del capitalismo sano e dal volto umano, improntato sull’etica e l’antropologia sociale: Pietro di Giovanni Olivi, Giovanni Duns Scoto, Alessandro Bonini di Alessandria, Guglielmo d’Ockham, Astesano di Asti, Gerardo di Odone, Alvaro Pelagio, Bartolo da Sassoferrato, Francesco da Empoli e Guglielmo Centauri. Nella storia del pensiero economico comincia a prendere consistenza la convinzione che i frati francescani, nelle loro aspre polemiche, sorte nell’ambito dell’Università di Parigi, prima con i secolari (i maestri appartenenti, cioè, al clero diocesano) e poi anche con i frati domenicani, abbiano creato un linguaggio nuovo, quello della povertà funzionale allo sviluppo socio-economico; un orizzonte dottrinale e terminologico che, attento alle crescenti complessità sociali e dei relativi problemi di sopravvivenza, produce una strumentazione etica e teorico-pratica a disposizione della politica e dell’economia (governanti, mercanti, commercianti, cambiavalute)» (pp. 91-93).

Poco dopo la metà del libro sono interessantissimi i paragrafi che Bazzichi riserva a San Bernardino da Siena (1380-1444) e Sant’Antonino da Firenze (1389-1459). «Nel campo di osservazione di entrambi i teologi e predicatori – il primo francescano e il secondo domenicano, debitori in materia socio-economica del pensiero dei teologi della Scuola francescana precedente – c’è un palcoscenico privilegiato, unico al mondo: la situazione culturale, economica, sociale e civile della Toscana, che vive una svolta memorabile, passando da un’economia monetaria a una creditizia, alla quale l’Europa arrivò, in modo generale e definitivo, soltanto alla metà del XIX secolo» (p. 133). «Dal distacco quasi eremitico e dalla sancta rusticitas», San Bernardino «portò i confratelli alla predicazione, al contatto con il popolo, all’azione religiosa e sociale, alla cultura morale, giuridica e umanistica, senza titoli accademici e senza cattedre universitarie, ma organizzando via via gli studi e amando i libri, guadagnando stima e notorietà» (p. 134). «(…), condanna i mercanti che fanno incetta di viveri per farne aumentare i prezzi, e che perciò determinano situazioni artificiali di carestia e di fame. Conosce bene i problemi del finanziamento mercantile, ottenuto attraverso rischiose operazioni bancarie. Dimostra di essere ben informato su certe attività commerciali e finanziarie come puro e pericoloso gioco speculativo, che spesso determinava fallimenti e disastri economici. A proposito di queste ultime attività speculative, Bernardino più volte dal pulpito denunciò la pericolosità, anche sociale, di certi contratti, come i “barocchi”, gli “scrocchi” o i “ritrangoli”, con i quali si voleva meglio camuffare l’usura. (…) “Meglio ti sarebbe che quelli denari (che “accumuli come feticci”) tu gli mettesse nella tua bottega in mercanzia, che tenergli morti come tu fai”; così Bernardino si rivolgeva agli imprenditori nella predica a loro dedicata (“una delle più utili che voi aviate da me udite”) nel Campo di Siena nel 1427. Il profitto personale, per essere eticamente giustificato, deve essere agganciato all’utilità pubblica» (pp. 139-140). Anche Sant’Antonino Pierozzi, arcivescovo di Firenze e contemporaneo di San Bernardino, aveva una buona conoscenza dell’economia della sua epoca. La terza delle quattro parti della sua Summa theologica o Summa moralis (opera che ebbe subito un enorme successo e diffusione in tutta Europa) «presenta un esame delle forze produttive e lavorative, illustrando i processi produttivi e organizzativi dell’industria tessile. Nella penetrante rassegna, le figure degli operatori sono esaminate nel vivo della loro funzione imprenditoriale e artigiana, aprendo qua e là sprazzi di luce sulle strutture tecnico-economiche, sul sistema sociale e sulle forme di avanzata civiltà raggiunte dalla Toscana quattrocentesca. Significativa, in questa rassegna analitica (che potremmo definire di umanistico empirismo) è l’analisi sulla giustificazione del profitto, dove Antonino si rifà in larga misura a San Tommaso; però aggiunge importanti osservazioni desunte dal pensiero della tradizione francescana, secondo la quale il problema degli scambi è una questione economica che attiene alla politica economica, perché lo scopo ultimo dell’attività commerciale è di fornire alle famiglie o alla comunità beni e servizi. La ricerca del profitto fine a sé stesso è riprovevole, perché il desiderio di guadagno non conosce limiti ma si spinge all’infinito; perché possa essere giustificato deve essere moderato e diretto a un fine sociale: sostegno della famiglia, opere di carità, bene della comunità. Nell’analisi economica Antonino dà il meglio di sé quando tratta di situazioni concrete. La sua descrizione delle frodi commesse nei vari commerci è ricca di dettagli sugli strumenti usati dai mercanti per i propri guadagni , e passa in rassegna una copiosa casistica. Le frodi non riguardano soltanto i vari comparti del settore industriale e dell’edilizia, ma anche l’attività dei farmacisti, degli intermediari finanziari, degli autisti, degli amanuensi» (pp. 142-143).

Dopo aver presentato una breve storia dei Monti di Pietà, Bazzichi illustra tratti del pensiero economico di studiosi non francescani – ma più o meno debitori del pensiero francescano – quali Luis de Molina, Juan de Mariana, Juan de Lugo, Leonardo Lessio, Huig Van Groot (Ugo Grozio), Samuel Pufendorf, Giovanni Botero, Antonio Viera, Paolo Segneri, Martino Bonacina, Bernardo Davanzati Bostichi, Antonio Serra, Geminiano Montanari. Presenta poi i massimi esponenti della Scuola napoletana, ossia gli abati Antonio Genovesi (1713-1765) e Ferdinando Galiani (1728-1787), e della Scuola milanese, cioè Pietro Verri (1728-1797) e Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Successivamente è messa in luce l’inaspettata vicinanza tra Adam Smith (1723-1790) e il pensiero economico civile delle suddette Scuole. Sono esaminate le due principali opere del filosofo ed economista scozzese: Teoria dei sentimenti morali (1759) e La ricchezza delle nazioni (1776). Un paragrafo aggiuntivo è dedicato al concetto chiave della mano invisibile.

Prima delle considerazioni conclusive, è descritto il progressivo distanziamento dell’ individuo dalla comunità, dell’economico dal civile. George Wilhelm Friedrich Hegel, Jeremy Bentham e Vilfredo Pareto contribuirono ad accelerare tale rottura. Secondo Bazzichi, essa fu invece ritardata da Jean Charles Léonard Sismonde de Sismondi e dal pensiero sociale cattolico (nell’impegno nel ribadire il legame tra la felicità dell’individuo e il bene della comunità) nonché dalla Scuola socio-economica austriaca, fondata da Karl Menger (1840-1921). Bazzichi coglie un nesso tra i principi di questa Scuola e quelli della Scuola francescana. In realtà, l’idea che la Scuola austriaca abbia contrastato la rottura non appare in toto condivisibile (si veda p. 40 e seguenti di Prudenza di Zamagni). Semmai, essa ha forse incentivato l’emersione dell’individualismo. Tuttavia, Bazzichi vuole probabilmente sottolineare che gli austriaci ebbero il merito di sottolineare l’importanza della libertà del singolo, non irreggimentabile in sistemi statali totalitari architettati per pianificare e orientare le scelte dei cittadini verso un traguardo ritenuto ottimale dall’alto.

«Tra l’economia civile, dunque, basata su un’antropologia relazionale, che ha nell’Umanesimo la sua essenza, e l’economia del dopo Smith si viene a creare una profonda frattura: si afferma la componente meno civile del suo pensiero e l’economia diviene l’ambito dei soli rapporti strumentali. I due concetti ben distinti, come felicità e utilità, si identificano in modo artificioso» (p. 193). A dire il vero, la felicità concerne la relazione tra persone mentre l’utilità concerne la relazione tra persona e cose. L’oikonomia, in quanto “legge della casa”, deve tornare a scoprire il suo originario legame con la casa, con il far parte di una comunità e di un creato, come posto in luce dall’enciclica di Papa Francesco Laudato sì, ispirata al paradigma del pensiero francescano.

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