Lavoro: La “millennial generation” e le classifiche della vergogna

438 419 Antonio Lovascio
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7dda35da-c30a-4ebb-829f-aabcadf11952_largedi Antonio Lovascio • L’Italia è sempre meno un Paese per giovani. Adesso anche gli anticlericali più incalliti incominciano a comprendere perché Papa Francesco (lo fa dall’inizio del suo pontificato) entra spesso a gamba tesa nelle dinamiche, nei limiti e nelle problematiche dell’occupazione, invocando un nuovo patto sociale per il lavoro; denunciando che “è una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga un’intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti”. Bergoglio ha battuto sul tempo – o meglio: ha aperto la strada – agli analisti che in queste settimane stanno commentando le crudeli statistiche della Ue e dell’OCSE. Dati che purtroppo ci mettono con le spalle al muro: Cenerentola d’Europa è, ancora una volta, l’Italia, che detiene un poco invidiabile record: abbiamo il maggior numero di giovani fra i 15 e i 24 anni che non hanno lavoro e nemmeno lo cercano (i cosiddetti «Neet»). La media Ue è dell’11,5%, ma nella nostra Penisola si arriva al 19,9%. Negativo è anche il trend del numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema (11,9%) è aumentato fra 2015 e 2016, unico caso in Ue con Estonia e Romania.

Il Rapporto della Commissione Ue evidenzia non solo le difficoltà che i giovani incontrano nell’affacciarsi al mondo del lavoro, ma pure tutte le conseguenze che questo comporta. Nel 2016 la disoccupazione fra i 15 e i 24 anni è stata al 37,8%, in calo rispetto al 40,3% del 2015, ma comunque la terza in Europa dopo Grecia (47,3%) e Spagna (44,4%). Chi riesce a trovare una sistemazione, invece, in più del 15% dei casi ha contratti precari (fra i 25 e i 39 anni, dati 2014), e se non ha ancora 30 anni guadagna meno del 60% di un over 60. Ne consegue che i giovani italiani escono dal nucleo familiare fra i 31 e i 32 anni, più tardi rispetto a una decina di anni fa e molto dopo la media Ue di 26 anni.

Notizie poco lusinghiere arrivano anche dall’Ocse, che ha messo l’Italia agli ultimi posti nella classifica sul mercato del lavoro. Solo il 57,7% degli italiani in età lavorativa aveva un’occupazione nel primo trimestre del 2017. Peggio fanno solo Grecia (52,7%) e Turchia (50,9%). La situazione è simile per l’occupazione femminile. Contro una media Ocse del 59,7%, l’Italia si ferma al 48,5% poco sopra il Messico (45,3%), la Grecia (44,1%), e la Turchia, più distaccata, con il 31,7% di donne occupate.

La conseguenza di questo terribile trend ? Mentre ci dividiamo e polemizziamo sui flussi migratori e sull’assedio disperato di chi fugge dalle guerre e dalla povertà estrema, siamo diventati a nostra volta un Paese di “emigrazione”. Nell’ultimo periodo, infatti, sono espatriati, in media, oltre 100 mila italiani l’anno, esattamente 106 mila nel 2016. In maggioranza giovani fra 18 e 34 anni; con titolo di studio e livelli professionali elevati. Se ne vanno perché qui non trovano sbocchi occupazionali adeguati, come emerge da un sondaggio dell’Osservatorio di Demos diretto dal prof. Ilvo Diamanti, presentato su Repubblica. Ormai si tratta di una convinzione diffusa e consolidata: circa sei persone su dieci, infatti, pensano realisticamente che i figli – a differenza del passato – non riusciranno a riprodurre o, a maggior ragione, a migliorare la posizione sociale dei genitori. Mentre due italiani su tre ritengono che, per fare carriera, i giovani se ne debbano andare altrove. E si comportano di conseguenza. Se ne vanno e non ritornano. Per questo, la rappresentazione del mondo delineata dai giovani appare sempre più ripiegata sul passato e sempre meno aperta al futuro. E il linguaggio riflette e ripropone, in modo marcato, questa visione. La parola “speranza”, nella popolazione, è proiettata nel “futuro” da quasi due persone su tre. Ma fra i giovanissimi (15-24 anni) la percentuale si riduce sensibilmente: 57%. E fra i giovani-adulti (25-34 anni) crolla addirittura al 41%. Sono proprio loro che avvertono il disagio maggiore. Delusi, cercano di reagire all’immobilismo della politica che non riesce a creare “posti veri” : si accontentano quindi del precariato con buste-paga “creative”, di piccoli lavoretti, impegnandosi nel volontariato o nello sport, pur di non poltrire tutto il giorno su un divano e pesare sulle loro famiglie, cosa di cui vengono spesso accusati. Ma non possono resistere a lungo in questa situazione di incertezza, che ha già creato gravi tensioni sociali e rischia di degenerare. Tocca dunque al Governo e ad un Parlamento “arlecchino”, che ci ha offerto lo spettacolo indecoroso di 501 cambi di casacca, trovare subito rimedi efficaci per l’Universo Neet, in modo da invertire le “classifiche della vergogna”; senza attendere il suo scioglimento a marzo e farsi assorbire solo dai “giochi delle coalizioni”, dagli interessi di bottega dei partiti e dei loro leader che aggravano la crisi dello Stato. Certo si dovrebbe ammettere il flop delle riforme fin qui adottate, compresa l’iniziativa Garanzia Giovani: visto che l’Unione Europea l’ha rifinanziata, andrebbe almeno corretta e rilanciata su nuove basi per realizzare finalmente adeguate politiche attive per incrementare l’occupazione. Tenendo sempre presente il monito di Papa Francesco: <Il lavoro non è un dono gentilmente concesso a pochi raccomandati: è un diritto per tutti!>. Anche per la Millennial Generation !

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Antonio Lovascio

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