Abitare il “luogo” della teologia

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di Alessandro Clemenzia • È abbastanza peculiare pensare che la teologia, per potersi liberamente muovere, abbia bisogno di un “luogo” dove abitare: spesso, infatti, essa viene collegata esclusivamente al soggetto, al teologo (tanto da parlare della “teologia di” qualcuno), riducendola in tal modo ad un personale tentativo di indagine su Dio; altre volte invece, in virtù di ciò di cui si parla, ad essa viene applicata un’oggettività quasi assoluta, così da poter essere pensata a prescindere dall’occhio del singolo teologo.

La grande tradizione, basti pensare a quanto ha narrato Agostino d’Ippona, insegna che la teologia è una vera e propria esperienza di visione, rivolta tanto verso Dio quanto verso tutta la realtà creata. E se la teologia è un’esperienza di visione, il luogo in cui il soggetto è chiamato a collocarsi per “fare” teologia non può essere considerato di secondaria importanza.

In diverse occasioni è stato sottolineato il valore, per il teologo, del contesto ecclesiale in cui egli è inserito (tanto da parlare di una necessaria vocazione ecclesiale, previa alla sua ricerca); tale contesto comunitario non è qualcosa di astratto, come una vaga e concettuale consapevolezza di appartenenza, ma trova la sua espressione più concreta e visibile nella stessa realtà accademica: essa infatti è il primo “luogo” del pensare teo-logico. Ma quali caratteristiche deve assumere questo luogo, così da poter essere non solo abitabile, ma anche fungere da spazio prospettico entro cui collocarsi per vedere, leggere e interpretare l’oggetto della teologia? Interessanti e illuminanti, a tale proposito, sono due discorsi pronunciati da papa Francesco in diverse occasioni: uno durante il viaggio apostolico a Cagliari, nella Pontificia Facoltà di Teologia di Sardegna, e un altro nella visita, recentemente avvenuta, alla Pontificia Università Gregoriana.

Nel discorso tenuto in Sardegna, il Papa ha messo in luce alcuni punti fondamentali; il primo è stato: “l’università come luogo del discernimento”. In questo senso il Papa asseriva che l’Accademia è chiamata ad essere lo spazio all’interno del quale è possibile cogliere la realtà per come essa realmente è, “guardandola in faccia”. Un secondo elemento sottolineato è stato: “l’università come luogo in cui si elabora la cultura della prossimità”, in cui si insegna e si vive la cultura della vicinanza, del dialogo, del pensare insieme, uscendo così dalla tentazione del proprio isolamento e del concepire l’altro come sconosciuto o antagonista. Un terzo e ultimo elemento è stato: “l’università come luogo di formazione alla solidarietà”, parola quest’ultima, ha spiegato il Papa, che appartiene al vocabolario non solo cristiano, ma propriamente umano.

Se questo è vero, per fare teologia è necessario abitare “quel luogo” che è di aiuto a leggere la realtà: per parlare di Dio, bisogna avere uno sguardo che sappia interpretare l’umano. L’uomo inoltre non è soltanto “ciò” che si deve guardare per parlare di Dio, ma anche colui con il quale (e grazie al quale) si può vivere quel rapporto in cui l’oggetto della teologia, e cioè Dio, può accadere; il dialogo, in questo senso, è un vero e proprio “evento di accadimento”, non un approccio pedagogico o un sistema conveniente per raggiungere con maggiore facilità un obiettivo prefissato. Il terzo punto sottolineato dal Papa dice che l’uomo è anche il fine, l’obiettivo del contemplare la realtà e della cultura della prossimità: se la teologia non tocca l’uomo e non è ad esso finalizzata, rischia di diventare una semplice concettualizzazione del divino.

Per comprendere in modo ancor più profondo come vivere quel luogo del fare teologia, papa Francesco offre un altro spunto interessante nel discorso tenuto ai docenti, agli studenti e allo staff dell’Università Gregoriana; dopo aver invitato a valorizzare la città di Roma in cui l’accademia risiede, egli ha ribadito la necessità di non dissociare lo studio dalla vita spirituale: “Questa – ha spiegato – è una delle sfide del nostro tempo: trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro. C’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede”. In altre parole, per vivere l’università come “luogo” all’interno del quale fare teologia è necessario non frammentare le varie componenti dell’unico soggetto, proprio perché l’uomo è uno.

Se ci si pensa attentamente, il “luogo” che il singolo è chiamato ad abitare, alla luce di quanto ha asserito il Papa, assume in qualche modo le caratteristiche dell’oggetto della stessa teologia (di Dio Trinità), essendo però di quest’ultima la condizione indispensabile di possibilità, in quanto, per fare un’esperienza di visione, è necessario prima di tutto decidere di collocarsi nel punto giusto d’osservazione. Abitare quel luogo significa, infatti, essere un io che sappia cogliere l’altro proprio in quanto altro (nella sua realtà più significativa), che sia in grado di essere rigenerato dall’altro (uscendo dal proprio isolamento), e tutto questo per l’altro, avendo come fine che l’altro rimanga sempre se stesso. Dinamiche trinitarie, queste, che si riverberano nel “luogo” abitato dalla teologia.

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