Rileggendo “Evangelii Gaudium”, circa il ruolo della teologia

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di Stefano Tarocchi  • La lettura dell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, il primo testo scritto ufficiale di Jorge Mario Bergoglio, se si prescinde dalla lettera enciclica da lui firmata ma di fatto scritta a quattro mani con Joseph Ratzinger, pone sfide a molti livelli. Chi scrive ha voluto cercare che cosa papa Francesco dice alla teologia e sulla teologia, semplicemente ricercando questa voce all’interno del documento. Scrive anzitutto il papa che «la Chiesa, impegnata nell’evangelizzazione, apprezza e incoraggia il carisma dei teologi e il loro sforzo nell’investigazione teologica, che promuove il dialogo con il mondo della cultura e della scienza» (EG 133). Quindi Francesco aggiunge: «Faccio appello ai teologi affinché compiano questo servizio come parte della missione salvifica della Chiesa. Ma è necessario che, per tale scopo, abbiano a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia e non si accontentino di una teologia da tavolino» (EG 133).

Del resto aggiunge Papa Francesco che «la fede non ha paura della ragione; al contrario, la cerca e ha fiducia in essa, perché “la luce della ragione e quella della fede provengono ambedue da Dio” – e qui Francesco cita la Summa contra Gentiles di S. Tommaso – e non possono contraddirsi tra loro» (EG 242). Sta di fatto che «il dialogo tra scienza e fede è parte dell’azione evangelizzatrice che favorisce la pace» (EG 242).

In “Evangelii Gaudium” il papa precisa, dal proprio canto, che «la Chiesa propone un altro cammino, che esige una sintesi tra un uso responsabile delle metodologie proprie delle scienze empiriche e gli altri saperi, come la filosofia, la teologia, e la stessa fede, che eleva l’essere umano fino al mistero che trascende la natura e l’intelligenza umana» (EG 242).

Sostiene Francesco, dunque, che «la teologia – non solo la teologia pastorale – in dialogo con altre scienze ed esperienze umane, riveste una notevole importanza per pensare come far giungere la proposta del Vangelo alla varietà dei contesti culturali e dei destinatari» (EG 133).

Riprendendo le parole di Paolo VI dell’enciclica Evangelii Nuntiandi, circa la comunicazione del Vangelo, scrive il papa, che «i fedeli da esso «si attendono molto, e ne ricavano frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta» (EG 158).

Francesco aggiunge che se «le Università sono un ambito privilegiato per pensare e sviluppare questo impegno di evangelizzazione in modo interdisciplinare e integrato» (EG 134), è pur sempre vero che «la semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev’essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani» (EG 158).

Dice ancora Francesco, a proposito di chi annuncia la parola, che «il rischio maggiore …  è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).

Qui ciascuno può trarre le conseguenze che crede, ma senza pretendere di avere l’avallo del magistero petrino per delle fughe in avanti, o più probabilmente, in un passato più sognato che reale. È quindi vero che «il linguaggio [della comunicazione della fede] può essere molto semplice, ma la predica può essere poco chiara». E saggiamente precisa che «la semplicità e la chiarezza sono due cose diverse» (EG 158), quale contributo può arrivare da chi sovrappone, alla parola di Dio per esempio nella liturgia festiva le sue stesse parole.

Per amore della chiarezza. O della brevità. O accampando una pretesa oscurità dell’apostolo Paolo lo cancella tout court dall’orizzonte del popolo di Dio. Un fenomeno ben noto già alle prime generazioni cristiane, se leggiamo: «La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,15,16).

Credo ci sia molto da riflettere. Anche da “Evangelii Gaudium”.

 

 

 

 

 

 

 

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Stefano Tarocchi

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