Il diritto al lavoro tra La Pira e Renzi

250 342 Antonio Lovascio
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Giorgio-La-Pira_dibattito-sull-aborto_uomo-di-pacedi Antonio Lovascio • La riforma del lavoro ha trasformato il Parlamento, le piazze e perfino i “talk show”  in una trincea. Nella quale si confrontano e spesso si scontrano le centinaia di migliaia di italiani che il posto l’hanno perso, quelli che invece temono di essere rottamati dal Jobs Act , i milioni di giovani precari o da anni alla disperata ricerca di un’occupazione; i sindacati che vedono sempre di più appannarsi il loro ruolo di rappresentanza e , divisi, agitano (CGIL e UIL) l’arma spuntata dello sciopero generale; una classe politica troppo confusa e rissosa, attenta per lo più ad interessi di bottega.  E naturalmente il Governo, che – per spingere il Paese fuori dalle sabbie mobili della depressione economica e far galoppare il “cavallo di battaglia” della Crescita, per convincere l’Europa della bontà del suo programma innovatore – fatica non poco a mantenere una giusta linea di equilibrio che plachi le tensioni sociali affiorate nelle ultime settimane. Un compromesso ( il reintegro “per alcune fattispecie ingiustificate” di licenziamenti disciplinari) accolto nella maggioranza di governo dal Ncd ma non dalla minoranza Pd, che, dopo lo “strappo” sul voto alla Camera, minaccia addirittura una scissione.

Eppure il Premier Renzi, che si è laureato sugli atti amministrativi di Giorgio La Pira, proprio nel giorno (5 novembre) in cui Firenze ha ricordato il suo grande sindaco, ha ricevuto “messaggi” inequivocabili sulla povertà oggi, sulle strade da percorrere per raggiungere lo sviluppo e l’uguaglianza.  In piena sintonia con gli appelli di Papa Bergoglio (l’ultimo da Strasburgo: <Ridare dignità al lavoro!”) e della Cei. Con l’invito a soffermarsi sulle povertà globali, per ritrovare la dimensione che La Pira ci ha insegnato: affrontare i bisogni nella complessità delle dinamiche internazionali, a partire dalle necessità degli ultimi. Lo stesso Professore nell’Ottobre del 1946 parlò di diritto al lavoro e di una forma di assistenza da parte dello Stato nei confronti di chi si fosse ritrovato disoccupato: un principio cui dovrebbe strutturarsi anche la riforma del Jobs Act. Ma ci sono le coperture finanziarie ?

Nel pensiero di  La Pira – è bene ribadirlo –  il diritto al lavoro è, dal punto di vista sociale, uno dei fondamentali diritti di cittadinanza posti dalla Costituzione alla base della comunità civile. Da un punto di vista economico (seguendo la scuola di Keynes) è il cardine di un sano stimolo della produttività:  <La disoccupazione di massa provoca una circolazione monetaria senza corrispettivo di produzione ed è, perciò, quando si prolunga, causa di inflazione>, scriveva  ne “La difesa della povera gente ”. Da un punto di vista morale e religioso, infine, esso è un imperativo categorico : <Se io sono uomo di Stato – questa in sintesi la tesi lapiriana –  il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo: che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro! Nessuna speciosa obbiezione tratta dalle cosiddette “leggi economiche”  può farmi deviare da questo fine> .

E ad Alcide De Gasperi che lo criticava imputandogli di fare con le sue prese di posizione a fianco degli operai il gioco dei comunisti, il Professore rispondeva: “Il gioco dei comunisti lo fanno tutti coloro – operatori economici ed uomini politici – che disconoscendo la santità e l’improrogabilità del pane quotidiano (procurato col lavoro) gettano nella disperazione e nella radicale sfiducia i deboli”. Ma, a parte queste schermaglie dialettiche, De Gasperi con lealtà ed amicizia lo aiutò poi a risolvere l’emblematico caso del Pignone.  Un po’ di storia. Correva la primavera del 1954 (pochi mesi prima della morte dello statista trentino) quando il sindaco di Firenze ed il Presidente del Consiglio convinsero Enrico Mattei e l’ENI ad acquistare – e quindi a salvare – la fabbrica fiorentina dalla chiusura. La nascita del “Nuovo Pignone” ha avuto un’importanza notevole per l’Italia e non solo: oggi è riconosciuto come un centro d’eccellenza nell’industria petrolifera e del gas per turbine, compressori e pompe; esporta macchinari e tecnologie in tutto il mondo. Grazie a quell’accordo, la fabbrica dell’energia iniziò a cambiare definitivamente volto. A ciò ha contribuito anche l’acquisizione nel 1994 del Nuovo Pignone da parte di General Electric, che ha consentito di gettare le fondamenta di quello che ai nostri giorni  è GE Oil & Gas. Un’azienda che opera in più di 100 Paesi con circa 45.000 dipendenti e che non smette di guardare al futuro scommettendo sull’innovazione. La Toscana (e in particolare Firenze,  con le 4.300 maestranze dello stabilimento di Rifredi) è al centro di un progetto illuminante, sul quale Governo, Parlamento, forze politiche, sindacati ed imprenditori dovrebbero a lungo riflettere.  Senza rincorrere cinicamente l’abbattimento delle tutele per i propri operai e tecnici, la multinazionale americana continua ad investire in Italia, ad espandersi assumendo in media all’anno almeno trecento tra ingegneri e manodopera qualificata con soddisfacenti contratti a tempo indeterminato. Con premi di produzione per tutti di almeno tremila euro annuali.

Un’isola felice nell’asfittico, desolante panorama italiano ? Non proprio. Migliaia di piccole e medie imprese – lo sottolineava l’altra sera in Tv mister Tod’s,  Diego Della Valle –  sono allineate su questo modello.  Sono l’altra faccia della recessione; il rovescio positivo della medaglia che alimenta tante resistenze alla riforma del lavoro. Necessaria perché ormai il posto fisso tradizionale è un’icona in via di estinzione, un mito sfumato. Quando invece  i giovani hanno ancora bisogno di un’aspettativa, altrimenti non possono sposarsi, fare un mutuo, comprarsi casa. Senza sicurezze, almeno per cinque o dieci anni, non c’è programmazione familiare. Il precariato viene chiamato elasticità, ma in concreto si moltiplicano difficoltà, non opportunità. Neppure la pensione è una certezza: è stata percepita come un modo per fare altro, per spezzare la rigidità della vita lavorativa. Ora però – come ha ricordato in un’intervista a “La Stampa” il presidente del Censis professor Giuseppe De Rita – il 35 per cento dei lavoratori pubblici, privati ed autonomi teme di perdere il lavoro e di rimanere senza contribuzione, il 25 per cento di finire nella precarietà con una contribuzione discontinua, il 20 per cento di avere difficoltà a finanziarsi, oltre la  pensione pubblica, forme integrative di reddito, finite nel mirino del Fisco, vista la tassazione che Renzi vuole applicare al Tfr da ridistribuire (a chi lo vuole)   in busta paga ed ai Fondi complementari. Si sta insomma raschiando il barile sulle pelle delle fasce sociali più deboli.

Il Jobs Act rivisto e corretto da Renzi (forse avrebbe dovuto trarre qualche consiglio in più da un giovane ma autorevole giuslavorista come l’avvocato Guido Ferradini, che sull’art. 18 ha indicato “la misura giusta” per le nuove tutele in un lucido intervento sul “Corriere”) probabilmente va nella direzione da molti auspicata. Ma non basta, perché crea procedure e non aspettative: è un riordino del mercato del lavoro con qualche punta polemica. Si punta ad un normale funzionamento, nulla di più. Certamente non cancella le paure di chi il posto ce l’ha seppur in bilico, né esalta le speranze dei giovani  precari o ancora in cerca di sistemazione. Che almeno serva – questo piccolo, ma tanto discusso tassello – a creare la consapevolezza che nessuna riforma e nessuna ripresa saranno possibili se non avverrà un cambio di marcia rispetto alla responsabilità di ciascuna persona e di ciascun gruppo nei luoghi di vita e di lavoro. L’autunno rimane difficile. E ci attende un inverno “gelido”. Anzi caldissimo! Sotto gli occhi intanto abbiamo un’amara realtà:  il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali. Aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha. E per molti altri italiani incombe la povertà.

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Antonio Lovascio

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