Le antifone maggiori dell’Avvento: 17-23 dicembre

370 500 Francesco Vermigli
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di Francesco Vermigli• PT_AC_Framm_80L’Avvento è tempo di preparazione alla Buona Novella della nascita del Signore. Come può sperimentare chiunque – nelle attese umane più cariche di affetto (come in vista della nascita di un figlio o nella preparazione ai momenti più significativi della vita) – la trepidazione cresce di pari passo con l’approssimarsi all’evento. Se la liturgia è rito di uomini che volgono i propri pensieri e i propri cuori al cielo, sarebbe incoerente con questa abituale esperienza umana se nell’avvicinarsi al Natale, la preghiera della Chiesa non si facesse più bella, esplicita, insistente.

A smentire questa improbabile evenienza, vengono anche le cosiddette antifone maggiori dell’Avvento, vale a dire le antifone al Magnificat dei vespri dal 17 al 23 dicembre; celebrandosi già i primi vespri del Natale del Signore la sera del 24. Esse sono il frutto di un mirabile intreccio biblico: ad esempio per la prima antifona, nelle parole «O Sapientia, quae ex ore Altissimi prodisti, attingens a fine usque ad finem, fortiter suaviter disponensque omnia: veni ad docendum nos viam prudentiae» (“O Sapienza, che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo, arrivi ai confini della terra e disponi tutto soavemente: vieni, insegnaci la via della prudenza”) si notano almeno i riferimenti a Sir 24,3a (ma 24,5 nella versione latina della Vulgata: «sono uscita dalla bocca dell’Altissimo») e a Sap 8,1 («la sapienza si estende vigorosa da un’estrenità all’altra e governa a meraviglia l’universo»). Così accade anche nelle antifone successive, dove le allusioni scritturistiche – nell’approssimarsi al Natale – tendono ad essere ricavate progressivamente dal Nuovo Testamento: ad esempio nella frase «lapisque angularis, qui facis utraque unum» (“pietra angolare, che riunisci tutti in uno”), che compare nell’antifona del 22 dicembre, il riferimento a Ef 2,20 è evidente. Inoltre, se considerate assieme con un solo colpo d’occhio, esse ci sorprendono per l’uniformità della loro struttura: tutte esordiscono con un’invocazione – introdotta sempre con l’interiezione “O”, da cui il nome di “antifone in O”, con cui anche sono conosciute – a cui seguono alcune frasi o apposizioni che sono una sorta di amplificazione dell’invocazione. Chiude l’antifona una richiesta, che sempre si apre con l’imperativo “veni!”.

Ma, se questa è la preghiera della Chiesa subito prima di Natale, cosa significa ciò che preghiamo? Come si sa, lex orandi, lex credendi è un antico principio: con esso si vuole affermare – pena un lacerante bipolarismo della vita di fede ed ecclesiale – che ciò che preghiamo nella liturgia, è anche ciò che dobbiamo credere. Non si può dare, infatti, che ciò che crediamo e ciò che celebriamo siano altra cosa. Ebbene, quando la Chiesa ogni anno prega queste antifone, ci invita a porre attenzione a Colui al quale ci stiamo rivolgendo e a cosa stiamo chiedendo. Ci rivolgiamo a Colui che è nato a Betlemme di Giuda e che ci attendiamo rinasca di nuovo nel nostro cuore e nel cuore della Chiesa: siamo invitati a credere che Egli sia Sapienza, che esce dall’Altissimo (il 17 dicembre); Signore, che ha donato la legge sul Sinai (il 18); Radice del tronco di Iesse, che mette a tacere i re della terra (il 19); Chiave di Davide, che può aprire e chiudere tutto (il 20); Astro che sorge dall’alto e Sole di giustizia (il 21); Re delle genti e pietra angolare, su cui poggia l’unità (il 22); e, infine – con un crescendo – Emmanuele, Re e Legislatore, Speranza delle genti e loro Salvatore (il 23). E cosa siamo invitati a chiedere? Che Egli ci insegni la via della sapienza (il 17), che venga a redimerci (il 18), che venga a liberarci e che non tardi (il 19), che strappi (il 20) e che illumini (il 21) coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, che venga a salvare colui che ha plasmato nel fango (il 22) e che venga a salvare noi (il 23), Lui che è il Signore, nostro Dio. Così, le antifone maggiori terminano con parole che riecheggiano la più grande professione di fede dell’intero Nuovo Testamento, quella di Tommaso, otto giorni dopo la Risurrezione: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).

Come è noto, se considerate in ordine inverso, le prime lettere di ciascuna invocazione (Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel) formano la frase ero cras, cioè “sarò domani”. Quello che notavamo all’inizio – quella crescita dell’attesa all’avvicinarsi dell’evento, come fatto umano sperimentato da chiunque – trova in questo acrostico una conferma liturgica di significato eccezionale. Una tensione dinamica guida questo corpo di preghiere ricchissime, che sono le antifone maggiori dell’Avvento. Ad esempio, ai riferimenti all’Antico lentamente si sovrappongono quelli al Nuovo Testamento. Così, l’ultima antifona nella parte conclusiva professa che colui del quale verrà celebrata il giorno successivo la nascita, è lo stesso Dio. Soprattutto – quando si aggiunge la prima lettera dell’invocazione dell’antifona del 23 e si completa l’acrostico ero cras – la Chiesa dichiara la propria fiducia incondizionata nel Dio che non mente.

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Francesco Vermigli

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