L’eterno richiamo alla «salus animarum»

346 500 Andrea Drigani
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nazianzenodi Andrea Drigani • Nell’ultimo canone del Codice di Diritto Canonico, promulgato da San Giovanni Paolo II nel 1983, si dichiara che la salvezza delle anime («salus animarum») deve essere sempre nella Chiesa la legge suprema. Questa affermazione trova la sua fonte nella Prima Lettera di San Pietro laddove si legge: «Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime». San Gregorio Nazianzeno, Vescovo e Dottore della Chiesa, vissuto tra il 329 e il 390, riteneva la «salus animarum» come il bene supremo da indentificarsi con Dio stesso. Già il Beato Paolo VI nel discorso, pronunciato il 17 settembre 1973, al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico, sosteneva che la salvezza delle anime doveva costituire il centro, anche interpretativo, di tutta la legislazione ecclesiastica. Più volte Papa Montini ritornerà su tale argomento, come pure Benedetto XVI che, nella circostanza del 25° anniversario della promulgazione del Codex iuris canonici, in un’allocuzione del 25 gennaio 2008, osservava che la Chiesa riconosce alle sue leggi la natura e la funzione strumentale e pastorale per perseguire il suo fine proprio che è il raggiungimento della «salus animarum». Anche Papa Francesco incontrando, lo scorso 18 novembre, i partecipanti al Corso di formazione per i Vescovi sul nuovo processo matrimoniale promosso dal Tribunale della Rota Romana, ha annotato che nell’ottica di un sano rapporto tra giustizia e carità, la legge della Chiesa non può prescindere dal fondamentale principio della «salus animarum», esortando i vescovi ad apprendere, ogni giorno, da Cristo Buon Pastore la sapiente ricerca dell’«unum necessarium»: la salvezza delle anime. Questi continui riferimenti magisteriali degli ultimi Pontifici si radicano su un classico e basilare principio della tradizione canonica: «omnis institutio ecclesiasticarum legum ad salutem referenda est animarum» («ogni formazione delle leggi ecclesiastiche è da riferire alla salvezza delle anime»). Questa legge suprema della Chiesa rende l’ordinamento canonico realmente sui generis rispetto agli ordinamenti civili, perché non è chiuso nei confini dell’esistenza umana e di una giustizia legale, bensì li trascende e li sovrasta indicando l’orizzonte della vita eterna. In effetti nel diritto canonico sono presenti degli istituti che non esistono nei diritti degli Stati, quali la dispensa, il privilegio, la sospensione dall’irrogazione delle pene, perfino la tolleranza dissimulante che crea la consuetudine contra ius. Si tratta di istituti comprensibili e attuabili soltanto alla luce della «salus animarum», la quale, come già rilevava il Beato Paolo VI, deve pure illuminare l’applicazione e l’interpretazione dei canoni con l’aequitas. Talvolta si ha la sensazione che il positivismo giuridico e il mito della certezza del diritto (s’intende quello scritto) ormai soverchianti negli ordinamenti statali, possono fare qualche breccia dentro la compagine della Chiesa, forse perché il discernimento secondo la «salus animarum» può apparire faticoso e pesante, di qui l’illusione di tentare di risolvere le questioni in modo formalistico, che rischia, invece, di essere la maniera per non risolverle. Vi è una formula, che si reperisce nelle Decretali di Papa Innocenzo III (1198-1216), divenuta costantemente presente all’inizio delle sentenze dei giudici ecclesiastici: «Solum Deum pro oculis habentes» («Avendo solo Dio davanti agli occhi»), che potrebbe divenire il criterio per porre in essere qualsiasi atto canonico in obbedienza alla legge suprema della Chiesa.

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