La rinascita della religione in Cina – Un fenomeno imprevisto

cina 1di Mario Alexis Portella Per decenni, la maggioranza degli occidentali ha pensato che la Cina fosse un paese in cui la religione e la fede avessero un ruolo marginale. Anzi, le varie “storie” sulla fede in Cina tendono a parlare soltanto delle vittime, come i cristiani cinesi, che sono costretti a praticare il cristianesimo clandestinamente, o i gruppi, come il Falun Gong, che ugualmente subiscono la repressione da parte del governo. Di conseguenza, come spiega Ian Johnson, collaboratore del The Wall Street Journal, l’immagine economica, politica e sociale di questo sterminato Paese che emerge dai resoconti di giornalisti e storici pressoché unanimemente, o almeno in modo preponderante, è quella di enormi città che spuntano spesso dov’era deserto, di centinaia di milioni di lavoratori diligenti sfruttati in vaste fabbriche, di nuovi ricchi che ostentano la loro opulenza, di contadini che lavorano in campi inquinati, di dissidenti che languiscono in prigione. Lo stesso Johnson, però, nel suo libro The Souls of China — The Return of Religion After Mao [Le anime della Cina — Il ritorno della religione dopo Mao] (2017), dice che oggi è da valutare, al fine di un giudizio motivato sulla Cina, un importante fenomeno che sfugge ai più: il risveglio della religione, simile al Grande Risveglio che caratterizzò gli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo.

In tutta la Cina, sono centinaia i templi, le chiese e le moschee che ogni anno vengono aperti al culto, attirando milioni di nuovi fedeli. Le cifre dei seguaci delle varie religioni sono spesso oggetto di dibattito, ma anche un visitatore occasionale non può non notare i segni di questo risveglio tanto sono evidenti: nuove chiese che punteggiano la campagna, templi ricostruiti o ampliati notevolmente, e persino nuove politiche governative che incoraggiano i valori tradizionali. Fede e valori, insomma, stanno tornando al centro di una discussione diffusa a livello nazionale su come organizzare la vita cinese.

E’ da tenere in considerazione che non c’è e non c’è mai stata in Cina la “religione”, se si intende per religione” un insieme di norme etiche o di credenze in un dio o in più divinità e di relative pratiche cultuali, in relazione ad una concezione del destino umano. Pur avendo la “religione”, nei limiti o connotati accennati, contribuito in modo essenziale alla crescita dell’individuo cinese, si deve affermare che essa è stata storicamente fondata sulla comunità più che sull’identità personale. Ogni villaggio aveva almeno un tempio dove i residenti onoravano un certo dio. La religione, come identità comunitaria, era il nucleo del sistema politico, offrendo assistenza pratica nella gestione dell’impero antico. Infatti, l’imperatore era chiamato “il Figlio del Cielo” e presiedeva ai rituali che sottolineavano la sua natura semi-divina.

Per gran parte della sua storia, la Cina aveva tre principali correnti religiose: il buddismo — originato dagli insegnamenti dell’asceta itinerante indiano Siddhartha Guatama (5° a.C.), con lo scopo di arrivare al nirvana, cioè la condizione di perfetta pace e serenità consistente nell’annullamento di desideri e passioni; il confucianesimo — dal fondatore Confucio (551 — 479 a.C.), dottrina umanistica fortemente basata sui legami familiari e sull’armonia sociale tra gruppi più vasti, e quindi sulla rettitudine quale fondamento del mondo reale, piuttosto che su di una soteriologia che proietti le speranze dell’uomo in un futuro trascendente; il taoismo (circa 4° — 2° a.C.), basata sul Dao (la via): prassi filosofico-mistica dal rilevante indirizzo morale: il taoista è chiamato a dedicare la propria vita alla ricerca dell’armonia con la natura, ovvero con il Dao, per poter raggiungere la completezza e l’unione con l’essenza dell’universo.

In gran parte queste tre religioni o discipline (insieme di pensiero filosofico, misticismo e prassi morale), ciascuna coi suoi seguaci, non funzionavano come istituzioni tra loro separate. Gli uomini “religiosi” credevano in un amalgama di queste fedi che è meglio individuata e definita semplicemente come “religione cinese”.

Per quanto riguarda la storia del cristianesimo in Cina, come attesta lo storico Alfredo Jacopozzi, le più antiche tracce di cristianesimo in Cina risalgono al VII secolo. Una stele ritrovata nel 1625 a Chang’a (Xian) attesta una presenza di cristiani nestoriani, che per i noti conflitti con Bisanzio, si rifugiarono in Persia e da lì  si diffusero in India e in Cina. Una prima missione si ebbe sotto il pontificato di Niccolò IV che inviò il francescano Giovanni da Montecorvino, presso l’imperatore Kublai Khan (1260-1294), che apprezzava il cristianesimo. Giovanni arrivò in Cina all’indomani della morte del grande imperatore. Il suo successore Timurleng (1294-1307), anche se non si convertì alla fede cristiana, non pose alcun ostacolo all’azione missionaria. Nel 1299 Giovanni costruì la prima chiesa a Pechino e iniziò un lento lavoro di inculturazione, traducendo in cinese i Salmi e il Nuovo Testamento. Ma è solo alla fine del sedicesimo secolo, con l’evangelizzazione del gesuita Matteo Ricci (1552-1610), che il cristianesimo si radica più decisamente nella società cinese. A differenza dell’Islam, che è entrato in Cina un millennio prima, anche se era in gran parte confinato nella periferia del paese, il cristianesimo si diffonde via via nel cuore economico della Cina e tra le classi più influenti. Però la cristianità, anche se ebbe un sicuro un punto d’appoggio nel governo imperiale, rimase un fenomeno non rilevante fino alla riforma del diciannovesimo secolo, dopo le due “guerre dell’oppio”, quella contro l’Inghilterra (1839-42) e quella contro Inghilterra e Francia (1856-60): fu in questo momento che al Cristianesimo fu riconosciuto ufficialmente il pieno diritto di predicazione, di evangelizzazione e di proselitismo.

Con la rivoluzione culturale di Mao Zedong nel 1966, il Partito Comunista iniziò uno degli assalti più feroci alla religione nella storia del mondo. Quasi ogni luogo di culto fu chiuso e quasi tutti i chierici furono cacciati. Nella roccaforte cattolica di Taiyuan, nella provincia dello Shanxi, la cattedrale centrale fu trasformata in una “mostra vivente” per dimostrare l’arretratezza della religione: preti e suore erano tenuti in gabbia e agli abitanti locali fu imposto di andare ad osservarli come fossero bestie. In tutto il paese, i chierici buddisti, taoisti e cattolici che avevano preso i voti di castità furono costretti a sposarsi; i santuari di famiglia furono smantellati; i templi furono sventrati, abbattuti o trasformati in fabbriche o uffici governativi.

In ogni modo, la realtà odierna, occorre riconoscerlo, evidenzia che centinaia di milioni di cinesi sono rosi dal dubbio sulla bontà dell’assetto della loro società e si stanno rivolgendo alla religione per trovare risposte che non possono ricevere altrove nel loro mondo radicalmente secolarizzato. Essi si chiedono che cosa renda buona la vita e se ci siano valori e fini dell’esistenza più alti e validi rispetto al guadagno materiale. Riporto quel che dice un quarantaduenne pastore protestante di una chiesa della metropoli di Chengdu nel sudovest del paese: << Pensavamo di essere infelici perché eravamo poveri. Ma ora molti di noi non siamo più poveri, eppure siamo ancora infelici. Ci rendiamo conto che manca qualcosa, e questa è una vita spirituale >>.

Da un sondaggio del governo di Pechino del 2014 risultano circa mezzo milione di monache e monaci buddisti con circa 33,000 templi; secondo un altro sondaggio sarebbero 48,000 tra sacerdoti e monache taoisti con 9,000 templi, il doppio del numero di templi rispetto al 1990. I cristiani-cinesi, secondo il Washington Post, sono più di 70 milioni – un numero che sta aumentando così rapidamente che, stando ad alcune proiezioni, nel 2030 la Cina avrà la popolazione cristiana più nutrita del mondo.

Questa esplosione di attività religiosa comporta rischi per il Partito Comunista. Ma i leader della Cina ne hanno tratto vantaggio e l’hanno persino incoraggiata in qualche modo. Finora il Partito ha gestito un delicato equilibrio, tollerando il risveglio spirituale, ma senza tuttavia esagerare, per non provocare una reazione popolare contro la centralizzazione del potere in atto. E mentre Pechino persegue una linea di apertura in campo sociale, economico e politico, questo equilibrio potrebbe, pertanto, diventare più difficile da mantenere. Per questo, sarebbe un vantaggio per la Chiesa e per la Cina e per tutto il mondo se essa riprendesse alacremente il ruolo svolto secoli fa.