Fare catechesi oggi: una sfida impossibile?

350 500 Stefano Liccioli
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trasferimentodi Stefano Liccioli • Ho da poco concluso presso una parrocchia della diocesi di Firenze una serie di incontri rivolti ai catechisti, appuntamenti in cui mi sono presentato (e non poteva essere altrimenti) non come un insegnante, ma come un fratello disponibile a condividere delle riflessioni sul tema dell’iniziazione cristiana di bambini e ragazzi. E’ stata per me l’occasione per riflettere e confrontarmi su un argomento che dovrebbe essere centrale nella vita di ogni comunità cristiana e cioé l’evangelizzazione delle nuove generazioni, in particolare quella che avviene secondo itinerari catechetici più o meno strutturati. Ho scandito questo percorso di formazione secondo tre verbi: vedere, giudicare e agire. Parafrasando le parole di Papa Giovanni XXIII in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II, oggetto di analisi non è stato «il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, ma il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione».

Vedere” cioé guardare alla condizione dei ragazzi, oggi, sia dal punto di vista delle caratteristiche cognitive che da quello della “sensibilità” alla religione, al “problema” di Dio. Ebbene, è importante osservare che i bambini ed i ragazzi di oggi si contraddistinguono per una capacità di attenzione non molto spiccata, anzi si potrebbe dire ridotta ed una propensione all’interattività cioè a privilegiare processi che li vedano protagonisti e non solo passivi destinatari di un annuncio. Per quel che concerne l’attenzione delle nuove generazioni alla questione di Dio c’è tutta una pubblicistica in questi ultimi tempi che parla di “prima generazione incredula”, di “ragazzi senza antenne per Dio”, di giovani che credono in Dio a “modo loro”, di “piccoli atei che crescono” . Queste considerazioni si fondano su statistiche e rilevazioni nazionali che mettono in luce come i giovani tra i 18 ed i 29 anni che si dicono cattolici convinti ed attivi siano passati dal 14,7 % del 1994 al 10,5 % del 2015, così come quelli che si dicono cattolici per tradizione ed educazione siano aumentati, nello stesso arco di tempo, dal 21,9 % al 36,3%. Questi numeri devono far riflettere anche le nostre comunità cristiane perché se da una parte è vero che quando non c’è una proposta religiosa familiare è difficile che si sviluppi nei giovani una religiosità convinta e attiva, dall’altra è altrettanto vero che, sempre secondo le suddette statistiche, il 76,5% dei giovani che si dicono non credenti hanno frequentato il catechismo: fatto salvo il libero arbitrio delle persone che le porta a donarsi o meno al dono della fede, credo che sia doveroso giudicare l’efficacia dei percorsi d’iniziazione alla vita cristiana che avvengono nelle nostre parrocchie.

Questa verifica comincia dal catechista stesso, dalle sue motivazioni, dal riconoscersi portatore di un Annuncio (la Buona notizia) che non è suo, dalla consapevolezza di essere la guida di un gruppo nell’ottica che indica Pietro rivolgendosi agli anziani:«Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1 Pt 5, 1-4). I catechisti sono come seminatori, chiamati appunto a seminare la Parola di Dio nel cuore dei ragazzi, senza cedere a facili entusiasmi o scoraggiamenti, ma con la fiducia che i frutti verranno, ma probabilmente non saranno loro a raccoglierli. I catechisti infine non devono sentirsi “liberi battitori”, ma inseriti in una rete relazionale (il parroco, gli altri catechisti, i genitori) a cui sempre far riferimento.

Queste considerazioni ci devono portare ad “agire” condotti dalla domanda non tanto sul programma da svolgere o sulle attività da fare, ma su “che cristiani vogliamo diventino questi bambini?”, cioé persone felici di essere cristiani, uomini e donne appassionati che scelgono di vivere nel nostro tempo mettendo a frutto i propri talenti (Cfr. S. Meli – D. Giovannini, Catechesi: come farla? Accordi e sintonie per comunicare la fede).

Iniziare alla vita cristiana non vuol dire solo far apprendere dei contenuti dottrinali, ma far sperimentare anche la bellezza della liturgia così come la centralità della carità nell’esistenza di un cristiano.

Interessante su questi argomenti una riflessione di Giovanni Paolo I, quando era il Cardinal Albino Luciani, che nella sua “Catechetica in briciole” ha sottolineato come il catechista insegni più con la sua vita che con le parole:«A me, pretino, dicevano:”Il testo è appena un sussidio, uno stimolo, non una comoda poltrona, in cui il catechista si adagia per riposarsi. Il testo, per quanto ben fatto, resta cosa morta: tocca al catechista renderla viva”. “Ai piccoli non si insegna tanto quello che si sa, quanto quello che si è: poco giovano le belle parole uscite dalla bocca del catechista, se altre parole escono dalla sua condotta a smentirle”».

In conclusione dobbiamo riconoscere che la catechesi, oggi, presenta ostacoli e difficoltà, ma è una sfida che come cristiani non possiamo non affrontare, proprio come ha scritto San Paolo:«Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1 Cor 9,16).

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Stefano Liccioli

Tutte le storie di: Stefano Liccioli