Zoltán Alszeghy e il futuro della teologia

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teologia3di Francesco Vermigli Cent’anni fa, il 12 giugno del 1915, nasceva a Budapest – al tramonto dell’Impero austro-ungarico – Zoltán Alszeghy, gesuita e teologo. Fu autore di numerosi trattati di dogmatica, scritti assieme al confratello milanese Maurizio Flick, con il quale venne a creare una simbiosi teologica forse senza paragoni nel mondo accademico ecclesiastico novecentesco: ancora oggi, un medio studioso di teologia non saprà pensare all’uno, senza richiamare alla memoria anche il nome dell’altro. La loro collaborazione condusse alla redazione di opere quali Il Creatore (1961), Il vangelo della grazia (1964), Lo sviluppo del dogma cattolico (1967), Fondamenti di un’antropologia teologica (1970), Il peccato originale (1972), Come si fa la teologia (1974), Il mistero della croce (1978). Alszeghy sopravvisse a Flick per oltre un decennio; eppure la sua produzione teologica più significativa può dirsi conclusa con il 1979, l’anno della morte di Flick.

Apparteneva ad una colta famiglia di tradizione magiara. Entrato nel noviziato dei gesuiti a Budapest, venne ben presto inviato a completare la propria formazione a Roma. Dopo il dottorato sull’amore di Dio in Bonaventura, accolta all’interno della prestigiosa collana «Analecta Gregoriana» (Grundformen der Liebe: die Theorie der Gottesliebe bei dem hl. Bonaventura, Romae 1946), Alszeghy nello stesso anno della pubblicazione della tesi iniziò la docenza alla Gregoriana, che concluderà nel 1989, dopo oltre quarant’anni. Quell’anno l’Europa centrale e orientale conosceva il tracollo dei regimi comunisti e il gesuita ungherese fu chiamato a partecipare alla ricostituzione della provincia nella terra di origine. Rientrato a Roma per la preparazione del viaggio apostolico di Giovanni Paolo II in Ungheria dell’autunno del 1991, non poté vedere i frutti della propria opera, morendo nel maggio di quello stesso anno.

Nella vita di Alszeghy si riflettono le vicende della Chiesa e della teologia del secolo scorso. All’interno de’ Il peccato originale, assieme a Flick non ha timore (nel capitoletto «Il nostro itinerario», pp. 220-226) a riconoscere di aver mutato prospettiva rispetto ai corsi dati prima del Concilio. In questo, l’opera di Alszeghy (e di Flick) può considerarsi come il segno di ciò che accadde alla teologia cattolica a cavallo dell’evento conciliare: un costante colloquio con la filosofia moderna la condusse a rivedere le coordinate entro cui porre il tema di Dio e dell’uomo in relazione a Dio. Non sorprende, allora, che coloro che manifestarono una sensibilità tutta speciale – segno di grande onestà di pensiero – nel senso della revisione dell’orizzonte all’interno del quale collocare i singoli problemi di dottrina, abbiano dedicato un libro a Lo sviluppo del dogma cattolico. Questo libro e quell’introduzione metodologica al mestiere di teologo che va sotto il titolo di Come si fa la teologia, paiono avere un’attualità ancora permanente. Ma là lo sguardo sui problemi della teologia non è solo rivolto al futuro, a dove potrà condurre lo sviluppo del dogma. In entrambe le opere – ancora prima di volgersi a «L’apertura alle nuove situazioni», come recita il titolo del quarto capitolo di Come si fa la teologia – si pone a tema la ricerca delle ragioni per le quali e delle modalità con le quali accade quel fatto che ognuno può sperimentare: la teologia si rivolge al passato. Perché e come la teologia si rivolge al passato? Non potrebbe farne a meno, volgendosi solo al presente dell’uomo? Il ricorso al passato – se si parla di sviluppo – non sarà una zavorra, che impedisce al pensiero teologico di muoversi con agilità tra i problemi dei nostri tempi? La teologia non rischierà di rimanere irrilevante? La risposta di Alszeghy e Flick è semplice e pienamente teologica, anzi profondamente trinitaria: per la teologia è ineludibile il ricorso al passato perché così fa anche la Chiesa, nell’assistenza dello Spirito Santo.

In effetti, a ben vedere non esiste solo l’irrilevanza dovuta alla sordità alle richieste dell’uomo di oggi: può esistere anche un’irrilevanza che potremmo definire contraria. È ciò che accade quando la teologia scambia come segni dei tempi tutto ciò che si presenta sulla scena del mondo, che con san Paolo dovremmo sapere come destinata a passare (1 Cor 7,31; secondo la vecchia traduzione italiana). Nel gran teatro del mondo (per dirla invece con Calderón de la Barca) la teologia può recitare un ruolo da comprimaria non solo se si rifiuta di ascoltare le richieste di questa nostra epoca, ma anche se si dimentica di passarle al vaglio esigente del Vangelo. In quel momento la voce della teologia si perderà tra i mille rumori che si accavallano indistinti nelle nostre piazze e tra i nostri crocicchi. In fondo è una questione che dovremmo già conoscere: qualcuno aveva parlato di un sale, che se non è salato non servirà a salare, ma dovrà essere gettato. Un destino inevitabile questo, si direbbe, anche per una teologia insipida.

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Francesco Vermigli

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