Discorso sul Decalogo

226 234 Andrea Drigani
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niccolo_tommaseodi Andrea Drigani • In questi tempi ritorna di grande attualità quanto ebbe a dire San Giovanni Paolo II, il 26 febbraio 2000, al Monastero greco-ortodosso di Santa Caterina al Monte Sinai. «I Dieci Comandamenti – affermava il Papa – non sono l’imposizione arbitraria di un Signore tirannico. Essi son stati scritti nella pietra, ma anzitutto furono iscritti nel cuore dell’uomo come Legge morale universale, valida in ogni tempo e in ogni luogo. Oggi come sempre, le Dieci Parole della legge forniscono l’unica base autentica per la vita degli individui, delle società e delle nazioni; oggi come sempre, esse sono l’unico futuro della famiglia umana». E’ dunque importante continuare a riflettere sul Decalogo. Potrebbe sorgere una domanda: se la legge morale universale era stata posta da Dio nel cuore dell’uomo, perché il Signore volle consegnarla anche per scritto, con una diretta rivelazione, a Mosè? Per questo interrogativo si possono rammentare le risposte di tre Dottori della Chiesa: Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura. Diceva Sant’Agostino: «Fu scritto nelle tavole della legge quello che gli uomini non leggevano più nei loro cuori; non che non ce l’avessero scritto, ma che non volevano leggere. Fu posto quindi davanti ai loro occhi il Decalogo, perché fossero costretti a vederlo nella loro coscienza; perciò quasi con la voce esterna di Dio l’uomo è stato spinto a guadare nel suo interno». San Tommaso d’Aquino osservava che: «La ragione umana non poteva sbagliare nella conoscenza astratta dei precetti morali più comuni della legge naturale: ma per le abitudini peccaminose tale conoscenza veniva ad oscurarsi nell’agire concreto. Rispetto poi agli altri precetti morali, che sono come conclusioni dedotte dai principi universali della legge naturale, la ragione di molti si ingannava a tal punto da considerare lecite le cose in se stesse cattive. Perciò era opportuno che l’autorità della legge divina soccorresse l’uomo in tutte e due codeste deficienze». San Bonaventura annotava che: «Una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo si rese necessaria nella condizione di peccato perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata» Il rischio dell’ottenebramento della ragione, soprattutto in certi ambiti della cultura odierna, si è fatto sempre più consistente e diffuso. Le tenebre, come le definiva Niccolò Tommaseo, «sono privazione d’ogni luce, e più che buio». Il Dottore Angelico intende per luce («lumen») ciò che rende manifesto quanto prima era occulto. Già col lume naturale («lumen rationis») l’uomo può raggiungere un ampio orizzonte di verità, col lume della Rivelazione («lumen Revelationis») lo sguardo della sua mente si può spingere molto più lontano ed il suo effetto è quello di svelare nuove realtà e nuove verità. La dottrina cristiana ha sempre insegnato l’esistenza di un «diritto divino», nel quale è dato distinguere un «diritto divino naturale» e un «diritto divino positivo». Il «diritto divino naturale», come si è visto, sarebbe conoscibile alla luce della ragione, anche se l’uomo può errare a causa della sua natura decaduta. Il «diritto divino positivo» è conoscibile solamente attraverso la Rivelazione contenuta nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. Il Decalogo è certamente una delle forme più alte del «diritto divino positivo». San Giovanni XXIII nell’Enciclica «Pacem in terris», pubblicata nel 1963, faceva presente che il diritto alla libertà nella ricerca del vero, è congiunto con il dovere di cercare la verità, in vista di una conoscenza della medesima sempre più vasta e profonda. A nessuno è precluso l’accesso al Decalogo, da ritenersi tuttavia nella sua interezza e non riducendolo ad un «eptalogo» o ad un «pentalogo» o addirittura ad un «tetralogo». Davanti al fenomeno di leggi civili, che imboccano altre strade rispetto a quelle indicate dalla legge naturale, e che favoriscono l’individualismo per il quale il bene di un individuo è da intendersi come principale e fondamentale e al quale si deve subordinare ogni comunità e società, occorre che il Decalogo sia veramente sentito ed obbedito come norma morale suprema. In quel discorso al Monte Sinai, San Giovanni Paolo II dichiarava: «Osservare i Comandamenti significa essere fedeli a Dio, ma significa anche essere fedeli a noi stessi, alla nostra autentica natura e alle nostre più profonde aspirazioni».

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