“Dire quasi la stessa cosa.” A proposito di Giovanni 20

600 440 Stefano Tarocchi
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di Stefano Tarocchi • «Tradurre significa sempre “limare via” alcune delle conseguenze che il termine originale implicava. In questo senso, traducendo, non si dice mai la stessa cosa». Così Umberto Eco (Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano 2003), che del resto aggiunge «delle discussioni che agitano sempre l’ambiente dei biblisti, continuamente intesi a criticare traduzioni precedenti dei testi sacri». E conclude che nonostante che «inabili e infelici siano state le traduzioni … una parte consistente dell’umanità si è trovata d’accordo sui fatti e sugli eventi fondamentali tramandati da questi testi». Questo non ci solleva dalle responsabilità di guardare ad un testo particolare, come la manifestazione del Cristo risorto ai discepoli nel capitolo 20 del Vangelo di Giovanni, per alcune considerazioni.

Il contesto è presto richiamato: la sera del giorno di Pasqua Gesù si manifesta ai discepoli, riuniti insieme «mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano … per timore dei Giudei» (Gv 20,19). Dopo il saluto, che a breve ripeterà, «mostrò loro le mani e il fianco (pleura). E i discepoli gioirono al vedere il Signore». Fra i discepoli però è assente Tommaso, che così parla: «“Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco (pleura), io non credo”».

L’evangelista racconta poi dell’altra manifestazione di Gesù: «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco (pleura); e non essere incredulo, ma credente!”» (Gv 20,20.25-27).

Il termine è già presente dal contesto della morte, che dev’essere affrettata, o verificata, nell’imminenza del sabato della Pasqua: così «venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco (pleura), e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). È colui che nella leggenda cristiana è stato chiamato Longino, a causa dello strumento che usa, la lancia, in greco lonché, che mira evidentemente al cuore, particolare come vedremo importante.

Così quello che il Signore risorto ha mostrato ai discepoli è il suo “fianco”, certamente, ma in un particolare elemento dell’anatomia da cui, dopo la morte, scaturiscono sangue e acqua (o del siero trasparente, assimilato all’acqua). Più che una spiegazione fisiologiche, bisogna guardare ad una interpretazione teologica; pensando allo Spirito, Giovanni aveva infatti detto che «dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,38). E soprattutto, Gesù si fa conoscere – anche per via del segno dei chiodi – come colui che era stato crocifisso e di cui era stata accertata la morte.

Nell’anatomia la “pleura” è una membrana che avvolge singolarmente ciascun polmone.

Ora nella lingua italiana, c’è dall’inizio del XIII secolo, un termine che rende ragione della complessità di questo racconto, in cui la manifestazione del risorto ai discepoli deve manifestare la continuità tra la morte e la vita. E questo termine non è «fianco» (troppo generico), ma «costato» (che letteralmente significa “parete toracica”, e deriva da “costa”, “costola”): evidentemente in un punto vicino al cuore, da cui sgorgano in abbondanza «sangue e acqua», come le rappresentazioni più note ci mostrano. Perciò, correggendo Umberto Eco, meglio la traduzione precedente (CEI 1974: «costato») che non l’attuale (2008: «fianco»). Possiamo, viceversa, accettare la traduzione di At 12,7. Si tratta dell’episodio della liberazione miracolosa di Pietro dalla prigionia: «gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco (pleura) di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani».

Post scriptum: Se sulla traduzione di pleura si può discutere, non si può accettare quello che troviamo nel capitolo 10 degli Atti, quando Pietro ha appena finito di parlare a Cesarea nella casa del centurione Cornelio. «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in [altre] lingue e glorificare Dio» (At 10,44-46). La conclusione semplicemente è inesistente: l’effetto dello Spirito opera sui pagani venuti alla fede e li fa «parlare in lingue», ossia «parlare con un linguaggio di lode» in cui «glorificano Dio. Non in «altre lingue», ossia in «lingue straniere», come nell’episodio della Pentecoste. L’aggettivo «altre» semplicemente non c’è nel testo originale. Sicuramente il frettoloso correttore di bozze ha dimenticato di controllare, fidandosi della sua memoria, lasciando che il lettore ignaro venisse mandato fuori strada.

 

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Stefano Tarocchi

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