A proposito dell’accusa di se stessi. Rileggendo Doroteo di Gaza con Bergoglio.

323 500 Gianni Cioli
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coveracusaciondi Gianni Cioli • Dopo l’elezione a papa di Jorge Mario Bergoglio è stato tradotto in italiano e pubblicato con il titolo “Umiltà la strada verso Dio” (Bologna 2013) un suo piccolo libro, intitolato nell’edizione argentina “Sobre la acusación de sí mismo”. Il libro riprende un saggio di spiritualità scritto nel 1984 per gli studenti gesuiti e riproposto poi nel 2005 da Bergoglio, allora vescovo di Buenos Aires, ai preti della sua diocesi. L’edizione italiana comprende l’introduzione scritta nel 2005, il saggio del 1984 dal titolo “La strada dell’umiltà”, una raccolta di scritti di Doroteo di Gaza, monaco del VI secolo alla cui dottrina Begoglio si è ispirato nella stesura del saggio e, infine, un intervento di Enzo Bianchi che illustra il pensiero di Doroteo.

Nell’introduzione del 2005 il vescovo di Buenos Aires invitava i suoi preti a impegnarsi nel proposito di non parlare male gli uni degli altri, puntualizzando che «contro questo spirito (parlare male degli altri) la tradizione cristiana, fin dai primi Padri del deserto, propone la pratica dell’accusa di se stessi». Nel saggio principale, attingendo ispirazione da Doroteo ma anche da sant’Ignazio di Loyola, Bergoglio illustra il valore di tale pratica per educarsi a partecipare con frutto alla vita comunitaria in genere e a quella ecclesiale in specie: «Uno degli atteggiamenti validi che devono prendere corpo nel cuore dei giovani religiosi è quello di accusare se stessi, poiché è nella carenza di questa pratica che si radica lo spirito di parte e le divisioni […]. Accusare se stessi […] è la base in cui getta le radici l’opzione fondamentale per l’anti-individualismo». In effetti, come illustra Enzo Bianchi nel suo intervento, per Doroteo «più che nell’ascesi esteriore la grande lotta del cristiano consiste nell’acesi dell’io, nella disciplina dell’ego, ossia nella rinuncia alla “volontà propria” per cercare il bene comune e acconsentire alla volontà di Dio».

Certo, la pratica dell’autoaccusa presta il fianco a riserve e obiezioni. Si tratta di un’indicazioni sicuramente suggestiva ma che, soprattutto alle persone in fase di maturazione, deve essere proposta con cautela e discernimento. E la lettura di alcuni passaggi degli scritti di Doroteo lascia talora spazio a qualche perplessità. Una generalizzazione della disposizione ad accusare soltanto ed esclusivamente se stessi può infatti condurre a valutazioni non obiettive e quindi a risoluzioni improvvide. Inoltre, una proposta acritica della pratica a persone non sufficientemente mature sotto il profilo psicologico, o comunque inclini a sensi di colpa, potrebbe non rivelarsi proficua per la costituzione di un percorso spirituale autentico dove non si confonda Dio con il SuperIo.

Queste obiezioni trovano tuttavia una risposta nella lettura attenta del saggio di Bergoglio per il quale la disposizione ad autoaccusarsi deve comunque essere compresa in funzione della verità: «Autoaccusarsi suppone […] un coraggio non comune per aprire la porta a realtà sconosciute e per lasciare che gli altri vedano oltre la mia apparenza. Significa rinunciare a tutti i maquillage di noi stessi perché si manifesti la verità».

Mi pare che l’attenzione onesta alla verità implichi allora che, oltre al riconoscimento delle proprie colpe, si possano e si debbano riconoscere anche quelle altrui. L’esperienza, insieme al buon senso, insegna che quando nella vita comunitaria o nel rapporto interpersonale emergono dei problemi, difficilmente la colpa sta tutta da una parte. La pratica di accusare se stessi in questa prospettiva vuol dire semplicemente disposizione a non sottrarsi alle proprie responsabilità col puntare in modo puerile il dito sugli altri.

Questa disposizione obiettiva anziché favorire i sensi di colpa e i dispotismi del SuperIo può condurci all’esperienza consolante della giustificazione che soltanto il Signore può donare. La dottrina dell’accusa di se stessi infatti, afferma Bergoglio, mira a situarci «in una dimensione oggettiva davanti a Dio e agli uomini», lasciando «spazio all’azione di Dio». È «il Signore stesso che, nel nostro abbassamento ci giustifica. I farisei si autogiustificavano […]. Il giusto cerca unicamente la giustificazione di Dio, e per questo motivo si abbassa e si accusa. […] Chi si autoaccusa lascia spazio alla misericordia di Dio; è come il pubblicano che non osa alzare gli occhi (cf. Lc 18,13). Colui che sa accusare se stesso è una persona che saprà sempre avvicinarsi bene agli altri».

Di fronte a un problema comunitario o un conflitto interpersonale credo che una della esperienze spirituali più consolanti, proprio perché la ragione difficilmente sta tutta solo da una parte, sia proprio quella di mettere se stessi e gli altri sotto il medesimo manto della misericordia di Dio, riconoscendo le nostre colpe e quelle altrui con occhi misericordiosi.

Come dice infatti il Salmo 31: «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa / e coperto il peccato. /Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto / e nel cui spirito non è inganno. / Ti ho fatto conoscere il mio peccato, /non ho coperto la mia colpa. /Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» / e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato».

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