Analogia e dialettica: spunti per una interpretazione teologica della morte

Teologiadi Gianni Cioli • Stando al dato biblico, la morte si presenta come un concetto dalle plurime sfaccettature: un luogo teologico non privo di tensioni paradossali che può essere compreso secondo due dimensioni analogiche diverse ma interconnesse.

La prima, e forse la più ovvia, è quella che prende in considerazione la morte quale esperienza umana, e consente di assimilare alla morte biologica esperienze negative e menomanti come il dolore, il peccato, l’ingiustizia subita, il fallimento morale o esistenziale, l’inaridimento interiore. La morte degli altri e quella che ci attende, in quanto creature viventi ma mortali, diviene l’analogato principale di ogni altra condizione umiliante, appunto mortificante. L’altra dimensione analogica è quella che interpreta la morte alla luce del mistero pasquale, assumendo la morte di Cristo come analogato principale del morire cristiano. La vita del cristiano può essere, in effetti, compresa, analogicamente e progressivamente, come unione alla morte di Cristo per risorgere come lui ed essere con lui.

L’interpretazione della morte e del morire del cristiano nell’analogia della morte di Cristo non attenua ma acuisce all’estremo la tensione paradossale che caratterizza la comprensione del primo dei novissimi nell’orizzonte della rivelazione biblica.

Pur considerata, nel caso dei patriarchi, come il semplice compimento della vita, la morte viene generalmente compresa nell’orizzonte biblico soprattutto in rapporto al peccato che è l’espressione concreta della rottura della relazione con Dio. Essa diventa perciò segno della sua maledizione.

Per Cristo, il quale non soltanto prende su di sé il peccato e la morte che non gli appartengono, ma che muore sperimentando l’angoscia dell’essere abbandonato da Dio, la morte è sia cessazione del rapporto e maledizione («maledetto chi pende dal legno»: Gal 3,13), sia ristabilimento della relazione e dunque benedizione. Se si considera la morte un concetto analogico in cui l’analogato principale è la morte di Cristo, essa appare al tempo stesso separazione da Dio e superamento della separazione nella consegna di sé al Padre.

Si può certamente affermare che la morte di Cristo, in quanto obbedienza estrema (Fil 2,8) e dono d’amore (Gv 15,13), è la vittoria sulla morte e che morendo in lui il cristiano partecipa di questa vittoria. Per il fedele, nel Signore Gesù e in virtù della sua risurrezione, la fine dell’esistenza terrena può così divenire «porta della vita». Ma proprio la croce del Signore, se anche ne palesa il volto luminoso, mantiene – e forse radicalizza – la profonda oscurità del primo dei novissimi.

Soprattutto a partire dal mistero pasquale, la morte rivela dunque una dimensione dialettica e paradossale. Emergono, per così dire, i due volti della morte, uno negativo e uno positivo, con cui l’antropologia teologica deve confrontarsi.

La morte di Cristo infatti non è quella di Socrate: non appare affatto un pacifico passaggio liberatorio a una condizione migliore, ma piuttosto un evento carico di tensioni, quale suggello e superamento delle contraddizioni relative alla morte e al morire che attraversano la fede veterotestamentaria. Le radici dialettiche della visione cristiana sulla fine della vita temporale, oltre che nell’antitesi kerigmatica tra morte e risurrezione, si confermano nella pluralità di prospettive che emergono dai racconti della passione nei diversi Vangeli: la differenza è evidente fra la tradizione sinottica e quella giovannea e, all’interno della prima, tra la versione di Marco (Mc 15,34) e Matteo (Mt 27,46: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») e quella di Luca (Lc 23,46: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito») circa le ultime parole di Gesù sulla croce.

La teologia paolina, con pathos autobiografico, conferma, applicandola alla vita del cristiano, la tensione dialettica. Per Paolo, il volto positivo della morte consiste nel compimento dell’assimilazione del fedele a Cristo, iniziata sacramentalmente per mezzo del battesimo e bisognosa di conferma esistenziale. L’effetto della morte non è la decomposizione del cadavere, ma l’accesso a un’altra vita.

La morte, secondo Paolo, ha tuttavia anche un altro volto. Egli mantiene infatti la concezione dell’Antico Testamento che vedeva nello Sheol non soltanto l’ultima dimora dei defunti, ma anche una potenza all’opera nel mondo e apparentemente trionfante sulla vita. Paolo la collega al peccato, anch’esso operante nell’umanità. È il peccato che ha scatenato la morte nel mondo e per questo, inversamente, la morte simboleggia il peccato. Essa non è, quindi, un semplice fenomeno naturale: di qui il suo aspetto ripugnante e violento.

Nell’Apocalisse, in un orizzonte drammaticamente segnato dall’esperienza della persecuzione, la personificazione della morte, già apparsa nell’opera paolina, si delinea con veemenza fino alla sua paradossale uccisione nello stagno di fuoco prospettata nella «seconda morte» (Ap 20,14) che tanto stimolerà la riflessione agostiniana.