Il padre san Martino. Un vescovo che insegna a perdonare

193 261 Carlo Nardi
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240px-Saint_Martin_-_Duomo_Lucca_Italiadi Carlo Nardi • Dall’antichità cristiana a noi – anche nei numeri di luglio e di agosto – san Martino, vescovo di Tours (+ 397), continua a trasmette una paternità che perdona, in una disarmata prontezza a dare e a darsi senza condizioni, anche senza ritegno, come talora si pensava e si brontolava. Tant’è che ci si poteva permettere persino di trattarlo male! Tanto, lui amava e umanamente comprendeva: lui che poco più che ragazzo, secondo la sua Vita scritta da Sulpicio Severo, aveva detto il suo deciso no all’imperatore Giuliano piuttosto che versar sangue in battaglia con effetti pacifici, almeno per quella volta, nei minacciosi Franchi; lui che, vescovo, si era opposto, pressoché solo, alla decisione d’un altro cesare, Massimo, di condannare a morte Priscilliano per eresia. Ormai vecchio, già malato, s’era messo in cammino alla volta di una lontana parrocchia, dove i chierici erano in discordia tra di loro. Ci voleva il vescovo a rimetter la pace. E Martino ci rimise la pelle per una missione che ne suggella la vita.

Certo, sono parole e notizie d’un entusiasta ammiratore, Sulpicio Severo. Si dovrà fare un po’ si tara? Comunque il Martino, che il contemporaneo biografo ci tratteggia, merita la simpatia che la sensibilità popolare gli ha sempre riservato. Basta scorrere il finale della Vita che Sulpicio gli dedica, specialmente la sua Lettera in cui ragguaglia sulla morte e da cui voglio piluccare qualcosa di bello e di buono: «Che uomo indescrivibile! Non si lasciò vincere dalla fatica e non doveva essere sopraffatto dalla morte: non ebbe paura della morte e non rifiutò la vita. Febbricitante per diversi giorni, non desisteva dall’opera di Dio», espressione che Sulpicio spiega: «passando le notti in preghiera e nella veglia, costringeva le membra spossate a servire allo spirito». «Con occhi e mani sempre rivolti al cielo, non sottraeva il suo spirito alla preghiera. I preti lì presenti gli suggerivano di cambiar posizione. Rispose: “Lasciate, fratelli, lasciate che io guardi il cielo più che la terra, perché a Dio si volga lo spirito, sulla via che ormai è la sua”». E dopo aver scacciato per l’ultima volta il diavolo, da lui chiamato «bestia sanguinaria, rese lo spirito». E, del resto, il demonio ultimamente l’aveva sconfitto nel cercare con tutte le forze di portare pace.

Al suo funerale «chi piangeva era da comprendere e di chi gioiva era da condividere la gioia: ognuno per se stesso trovava motivi di lutto, ma per la persona di lui», Martino, «ciascuno trovava motivi si gaudio». E ancora: «Martino, povero e piccolo, entra ricco nel cielo. Di lassù – lo spero – protegge e guarda me in quel che scrivo, e protegge e guarda te in quel che leggi». Così il filiale discepolo Sulpicio (Lettera 3,14-21), trasfondendo anche in noi un po’ della forte mitezza del padre Martino.

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