La visione cristiana del denaro

170 237 Giovanni Campanella
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52a58c8a9710cPrefierounaIglesiaqueseensucieaunaIglesiacerradadi Giovanni Campanella • In un suo recente libro (Cristiani e uso del denaro – Per una finanza dal volto umano, pubblicato dall’Urbaniana University Press agli inizi del 2015), don Leonardo Salutati offre una storia dell’interpretazione cristiana del denaro e dà un quadro ermeneutico dell’attuale crisi economica, sociale e morale. Per fare ciò, si è avvalso della Sacra Scrittura, di scritti di santi che hanno affrontato l’argomento e di documenti magisteriali, fino all’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco e agli ultimi sviluppi della Dottrina Sociale della Chiesa.

Quasi sempre si è portati a vedere il denaro unicamente come mezzo per acquisire diritti. Ciò è sostanzialmente vero; tuttavia per il cristiano la faccenda è un po’ più complessa. All’avere denaro non conseguono solo, e legittimamente, diritti ma anche l’aumento di responsabilità nei confronti di chi ci sta accanto e non solo (scrivo “aumento” perché il non avere denaro non equivale certo a non avere alcuna responsabilità). C’è infatti la nostra cara e solita DUB (acronimo che sta per “Destinazione Universale dei Beni della terra”). E’ un principio che non fa dormire sonni tranquilli a chi pensa di poter disporre dei propri beni a proprio totale capriccio. E’ un principio importantissimo della Dottrina Sociale della Chiesa. Certo, non va inteso in senso assoluto fino a vedere la proprietà privata come un vizio, come veniva considerata da San Benedetto da Norcia all’interno del suo monastero. Salutati ci spiega, nel primo capitolo del suo libro, che «non è in senso assoluto che si parla di destinazione universale dei beni della terra, perché scopo di tale principio è quello di mettere dei limiti al diritto di proprietà, per mantenerlo nel quadro della solidarietà universale» (p. 18). Più avanti, individua nella parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,1-15) e nella parabola con protagonisti l’uomo ricco e il povero Lazzaro (Lc 16,19-31) due preziosissimi insegnamenti del Signore Gesù in merito alla gestione dei beni. Cita poi un’omelia di San Basilio Magno, dalle affermazioni lapidarie: «A chi faccio torto, dici, se mi tengo il mio ? Ma, dimmi, che cosa è tuo ? Che cosa hai portato tu alla vita ? (…) così sono i ricchi. Occupano i beni comuni e ne pretendono la proprietà perché li hanno occupati prima. Se invece ognuno prendesse solo ciò che è necessario al proprio bisogno e lasciasse agli altri ciò che non gli serve, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe povero. Non sei uscito nudo da tua madre ? Non tornerai nudo nella terra ? Da che parte ti son venuti i beni che hai ? Se dici che ti vengono dal fato, sei un empio, perché non riconosci il Creatore e non sei grato a chi te li ha dati; se dici che ti vengono da Dio, spiegaci perché te li ha dati. (…). E’ dell’affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il panno che hai negli armadi; è dello scalzo la scarpa che s’ammuffisce in casa tua; è dell’indigente l’argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti sono coloro a cui fai torto» (San Basilio Magno come citato da Salutati nelle pagine 45-46).

Buona parte del libro di Salutati esamina il tema dell’usura. A tale riguardo, il decreto 29 del Concilio di Vienne proclama: «Se qualcuno fosse caduto in quell’errore, per cui presuma di affermare in modo pertinace che esercitare l’usura non è peccato, decretiamo che debba essere punito come eretico». L’ultimo autorevole pronunciamento sul problema dell’usura da parte di un papa fu l’enciclica Vix pervenit di Benedetto XIV. Essa risale al 1 novembre 1745 e fu indirizzata ai Vescovi d’Italia. Le sue conclusioni furono poi estese alla Chiesa universale da un decreto del Sant’Uffizio del 28 luglio 1835. Nel primo paragrafo dell’enciclica «si definisce il peccato di usura, nell’ambito del contratto di mutuo, come il pretendere un interesse oltre alla restituzione del capitale a motivo del solo mutuo. Nel secondo si afferma che il peccato d’usura persiste nonostante l’esiguità dell’interesse, poiché l’illiceità non dipende dalla misura dell’interesse, né dal fatto che è percepito da ricchi piuttosto che da poveri, ma dall’interesse come tale. Il terzo paragrafo, presenta la possibilità dell’esistenza di titoli che possono legittimare il pagamento di una somma di denaro in aggiunta al capitale prestato» (p. 56). Già San Tommaso d’Aquino e gli Scolastici ritenevano che il denaro non può da solo essere fattore di accrescimento di sé stesso. Oggi tale principio può apparire alquanto bizzarro e per lungo tempo è stato considerato il prodotto di una cultura bigotta e retriva. D’altra parte, il famoso economista John Maynard Keynes scrive: «Sono stato educato a ritenere che l’atteggiamento della Chiesa medioevale nei confronti del saggio di interesse fosse sostanzialmente assurdo, e che le sottili discussioni intese a distinguere il reddito dei prestiti monetari dal reddito dell’investimento attivo fossero soltanto tentativi ipocriti per trovare una via d’uscita pratica da una teoria insensata. Ma adesso (…) mi par chiaro che le disquisizioni degli scolastici erano dirette a chiarire una formula che permettesse alla tabella dell’efficienza marginale del capitale di essere alta, pur impiegando la norma e la consuetudine e la legge morale per tener basso il saggio di interesse» (Keynes citato da Salutati a p. 81). Schumpeter, un altro grande economista, scrive in proposito: «Se si potesse parlare di “fondatori” dell’economia scientifica, questo titolo spetterebbe ad essi (gli scolastici) più che ad ogni altro gruppo. Non solo, ma le basi ch’essi gettarono per un complesso armonico di strumenti e proposizioni analitiche erano più solide di quanto fossero quelle di una parte notevole del lavoro successivo, nel senso che una parte notevole dell’economica del Novecento si sarebbe potuta sviluppare su quelle basi più rapidamente e con minori difficoltà di quanto accadde: in una certa misura, il lavoro successivo comportò spreco di fatica e di tempo» (Schumpeter citato da Salutati alle pp. 81-82). Per una quarantina di pagine, Salutati si fa guidare dal pensiero del «teologo ed economista Bernard W. Dempsey, in considerazione dell’importante valore del suo studio degli autori scolastici, in particolare di quelli della scuola dei Gesuiti, nonché per il suo esempio di ricercatore a sua volta guidato dalla luce del Vangelo e dell’esperienza umana (cf. GS 46) da lui maturata nel campo dell’economia» (p.91). Anche Dempsey, sulla scia di Schumpeter e degli scolastici Molina, Lessio e De Lugo, sottolinea che, se è vero che il tempo è sempre condizione per un surplus di valore, non ne è mai la causa. Ciò vuol dire che il trascorrere del tempo in sé non è sufficiente per giustificare un interesse: ci devono essere dei motivi aggiuntivi (i cosiddetti “titoli estrinseci”). «Oggi nella gestione delle attività finanziarie domina in maniera assoluta il dogma del capitalismo liberale del diritto della moneta a produrre sempre e dovunque interesse, senza considerare affatto che non il denaro produce denaro ma l’inventiva di chi lo usa associandolo al lavoro» (p. 60).

Alla fine del secondo capitolo, Salutati anticipa i temi del capitolo successivo, mettendo in guardia da una serie di criticità che caratterizzano l’attuale sistema economico. Quei mezzi fiduciari che il sistema creditizio emette gratuitamente non derivano da precedente risparmio, non comprendono i costi per la produzione della ricchezza e quindi non sono portatori di alcun titolo all’interesse. L’inflazione comprime il potere di acquisto generale, danneggiando soprattutto i più deboli. Le disparità di reddito si accentuano sempre di più. La competizione sfrenata e deregolamentata ha portato alla formazione di monopoli, che determinano prezzi ingiusti e riducono la libertà del mercato. Il capitale, pur essendo solo causa strumentale del reddito, schiaccia il lavoro, la vera causa efficiente primaria del reddito. I principi della giustizia commutativa, della giustizia sociale, della destinazione universale dei beni e di sussidiarietà non sono rispettati. Il bene comune non è perseguito e la parte contrattuale più forte approfitta dello stato di bisogno della parte più debole.

Il terzo e ultimo capitolo analizza ancora più in dettaglio gli attuali problemi economici ed espone le ultime proposte della Dottrina Sociale della Chiesa in merito. Alla radice delle moderne crisi finanziarie stanno un insieme di cause immediate e strutturali, che Salutati esamina singolarmente con precisione. Le Istituzioni Finanziarie Internazionali hanno imposto vari aggiustamenti strutturali ai Paesi in Via di Sviluppo (PVS) in cambio di credito. Tuttavia, questi aggiustamenti sembrano aver sortito nel complesso effetti più negativi che positivi, favorendo i ricchi nei PVS. A queste nefaste derive del sistema economico mondiale risponde il Magistero Sociale. Alla fine del suo libro, Salutati si sofferma soprattutto sull’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II, sull’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI e sull’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco. Quest’ultima denuncia l’economia dell’esclusione (cf. EG 53) e la globalizzazione dell’indifferenza (cf. EG 54), fomentate da un falso concetto di “ricaduta favorevole”, secondo cui, quando il mercato si espande, alla fine tutti ne traggono beneficio. Il principio di fraternità (cf. EG 71 e 87) «deve trovare un posto adeguato dentro l’agire di mercato e non fuori, come vuole il “capitalismo compassionevole”» (p. 203).

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Giovanni Campanella

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