Presentazione degli articoli del mese di aprile 2020

santo2876bigAndrea Drigani con un soliloquio sulla «provida sventura» propone alcune considerazioni teologali intorno alla pestilenza del coronavirus. Giovanni Campanella invita alla lettura di un libretto scritto da due sacerdoti, Emiliano Antenucci e Aldo Buonaiuto, che offrono una riflessione sull’invidia, un vizio capitale antico e nuovo. Carlo Parenti in questi giorni difficili e complicati rammenta l’invito del venerabile Don Giulio Facibeni a vivere sempre nella carità divina. Mario Alexis Portella osserva che la pandemia richiama l’attenzione sul ruolo economico del regime cinese causato, tra l’altro, dagli intensi rapporti commerciali dell’Occidente, incurante alla violazione dei diritti umani. Gianni Cioli nella consapevolezza che «tutti siamo sulla stessa barca nella stessa tempesta» ritiene che la «metànoia», cioè il cambiamento del modo di pensare e di amare, sia il miracolo che dobbiamo implorare oltre le devastazioni del covid-19. Francesco Vermigli in margine a recenti strane polemiche, ripresenta l’Enciclica «Sacerdotalis caelibatus» di San Paolo VI dove, all’insegna dell’«et et» cattolico, si precisa che il celibato sacerdotale non è un dogma, ma la Chiesa latina lo ritiene conveniente e perciò lo preferisce. Stefano Tarocchi per questa Pasqua 2020 riflette, con la Lettera agli Ebrei (letta nella Liturgia del Venerdì Santo), sulla perfezione sacerdotale di Gesù nell’obbedienza al Padre e nel sacrificio, che ha santificato il popolo di Dio rendendolo partecipe della Sua obbedienza e della Sua offerta. Carlo Nardi dalle narrazioni dei Vangeli apocrifi e dalle tradizioni medievali illustra la storica devozione a Sant’Anna, il cui nome in ebraico ci rimanda alla «grazia» e alla «consolazione». Antonio Lovascio rileva che l’emergenza sanitaria e sociale provocata dal coronavirus, ha suscitato in Italia una grande solidarietà, diversamente dall’Europa che se non esprime solidarietà rischierà di affondare. Alessandro Clemenzia recensisce il libro di Luigino Bruni su quella idolatria economicistica che trasforma le persone in individui, a scapito di una seria economia riconosciuta dalla Sacra Scrittura. Francesco Romano annota sul riconciliarsi con Dio e sui modi straordinari di celebrare il sacramento della Confessione, tenendo anche conto del «Catechismo della Chiesa Cattolica» che in caso di impossibilità invita i fedeli a rivolgersi a Dio con animo contrito e con il proposito di ricevere il sacramento della Riconciliazione appena sarà possibile. Giovanni Pallanti con il volume di Paolo Borruso fa memoria del massacro di duemila cristiani avvenuto in Etiopia nel 1937 ad opera delle truppe italiane comandate da Rodolfo Graziani, una pagina tragica del rapporto tra Italia, Chiesa cattolica e Chiesa etiopica. Leonardo Salutati dinanzi alla grave congiuntura economica, che si prospetta dopo la pandemia, sottolinea l’attualità della lezione di John Maynard Keynes e di Federico Caffè per un’«economia degli affetti, non delle regole». Dario Chiapetti introduce al testo di Pietro Maranesi che con accuratezza scientifica ed apertura teologica, attraverso due autografi, ripercorre l’amicizia tra San Francesco e frate Leone. Stefano Liccioli espone gli elementi principali del messaggio di Francesco per la Giornata Mondiale per la Gioventù che invita i giovani a non stare al balcone, ma ad alzarsi, sognare, rischiare, impegnarsi per cambiare il mondo. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si tratta delle difficoltà del mondo del lavoro prodotte di una spietata «deregulation», che forse, anche in conseguenza delle tragiche circostanze che passiamo, potrebbe cessare.




Senza solidarietà l’Europa si dissolve

di Antonio Lovascdownload (5)io · Nell’avventura della vita non siamo soli, Gesù ci tende la mano. L’incoraggiamento, le carezze di Papa Francesco all’umanità smarrita di fronte al Male calato nelle nostre case sotto forma di Coronavirus – che ha seminato panico in tutto il mondo, distrutto famiglie per lutti e malattia, ridotto allo stremo ed anche alla fame quelle più povere e disagiate – sono state di grande conforto, come le parole di sostegno e stimolo dei nostri Pastori. Hanno soprattutto sviluppato un grande senso di solidarietà, che in molte zone della Penisola ha permesso finora di contenere tensione e rabbia, garantendo coesione sociale. Un desiderio di aiuto spontaneo, partito dal basso, dalle comunità parrocchiali attraverso la Caritas, incanalato pure da organizzazioni laiche. Ma la Politica ha tardato a comprendere che la pandemia si sarebbe presto trasformata, da emergenza sanitaria senza precedenti, nella più grave crisi economica dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ad intuire che ci vorranno almeno venti anni per ricostruire il Paese dalla macerie finanziarie, molti mesi per far ripartire le fabbriche chiuse per limitare il contagio (un danno, secondo Confindustria, di almeno cento miliardi al mese) e riaprire la rete commerciale congelata in questi mesi di isolamento in cui sono rimasti aperti solo supermercati e rivendite alimentari. Tutto questo per ricreare almeno un paio di milioni di posti di lavoro persi. Per ridare,insomma, nuove speranze ai più giovani dopo che un’intera generazione di anziani ci ha purtroppo lasciati. La maggior parte,addirittura, senza il conforto dei parenti ed onoranze funebri.

Chiudere attività è facile: riaprirle non lo è affatto, e questo è ancora più vero in un Paese di piccole e micro imprese com’è il nostro, che conta su realtà con scarso capitale alle spalle, vessate da imposte e adempimenti, già provate da anni di crescita zero. Più fragile, quindi, degli altri Stati del Vecchio Continente non certo risparmiati dal Male del secolo, che ha colto tutti impreparati non avendo compreso in tempo la gravità del contagio giunto dalla Cina. Ma anziché mettersi subito all’opera per affrontare insieme un piano di salvataggio e di ricostruzione dopo l’emergenza sanitaria, i leaders (?) europei si sono messi come al solito a litigare su Eurobond e Coronabond, ignorando gli appelli di “padri nobili” come Jacques Delors, o di figure di assoluto prestigio internazionale come il presidente uscente della Bce Mario Draghi, gli ex premier Romano Prodi e Mario Monti, forti questi ultimi delle loro esperienze nell’esecutivo di Bruxelles.

Se salta la solidarietà, l’Europa si dissolve e non si salverà nessuno. In pochi l’hanno capito (tra questi naturalmente il nostro governo) ed hanno lanciato una sorta di ultimatum,  sul quale sta cercando di mediare la presidente della
Commissione Ue Ursula von der Leyen, che – seppur in ritardo – ha chiesto scusa all’Italia. La partita in gioco è stata ben spiegata in editoriali sul “Corriere della Sera” (Mario Monti e Ferruccio de Bortoli) e sul “Messaggero” (Prodi). Si tratta dell’ormai consueto scontro fra Nord e Sud, fra i cosiddetti Paesi virtuosi e noi meridionali, che siamo evidentemente considerati “viziosi”. Come sempre il fronte dei “virtuosi” trova la sua punta più oltranzista nell’Olanda, già contraria all’entrata dell’Italia nell’Euro, oggi contraria a ogni forma di solidarietà. Un Paese che – è stato giustamente fatto notare – fa del rigore il proprio scudo ma che, nello stesso tempo, è di tutti il più abile a praticare politiche fiscali di dubbia legittimità per trasferire ad Amsterdam le sedi delle imprese degli altri Paesi europei, a cominciare dalla FCA.conte-merkel-1200-1050x551

Come sempre è avvenuto negli ultimi tempi, la Germania si è affiancata all’Olanda, seppur con un linguaggio meno offensivo. Il rifiuto tedesco nei confronti di una politica di solidarietà europea almeno non viene imputato ai peccati di noi meridionali, ma al fatto che dimostrarsi solidali “mette in discussione i principi fondamentali della Germania”. Queste parole della Merkel riflettono forse la necessità di ogni politico di tenere conto delle preferenze del proprio elettorato (vizio simile a quello di certi sovranisti nostrani) ma, di fronte alla tragedia a cui assistiamo, ci obbligano anche a riflettere su quali debbano essere “i principi fondamentali” che tengono insieme l’Ue.

Oltre che ad affievolire il nostro sentimento europeo, il persistere di queste divisioni rischia di avere come più concreta, visibile conseguenza – sul piano dell’economia mondiale – una “caduta” dell’Europa almeno il doppio di quella americana. Mentre secondo gli esperti la Cina sta recuperando pienamente il suo trend produttivo, con una crescita superiore al 3 per cento. Dovremo tutti fare i conti con la dittatura di Pechino.




Gli autografi di Francesco a Leone: memoria di una grande amicizia. Un testo di Pietro Maranesi

unnameddi Dario Chiapetti · Il Cappuccino Pietro Maranesi, docente di teologia dogmatica e francescana presso le facoltà di Assisi e Roma, affronta col suo testo Caro Leone ti scrivo. Gli autografi di Francesco: memoria di una grande amicizia (Prefazione di A. Bartoli Langeli, Edizioni Messaggero Padova, 2020, 202 pp., 17 euro) studia l’amicizia tra Francesco e frate Leone attraverso i due autografi che il primo ha indirizzato al secondo e che questi custodì fino alla morte assicurandone poi la trasmissione al fine di far conoscere la santità di chi li aveva scritti. Il valore di tali autografi è grande giacché a partire da essi è possibile accostare il Francesco colto nel suo rapportarsi al suo forse più caro e stretto amico.

Le due pergamene in questione sono il cosiddetto biglietto di Spoleto e quello di Assisi. Il primo contiene un consiglio, il secondo una benedizione. Maranesi dedica la prima parte del suo studio a offrire notazioni sui due autografi dal punto di vista paleografico, filologico, codicologico, della storia della redazione, del loro rinvenimento e del posto che hanno occupato nella letteratura francescana. L’Autore passa poi a scandagliare le fonti agiografiche per ricostruire i moventi e gli scopi per i quali furono scritti, per poi passare, nei due capitoli successivi, alla loro lettura esegetica e teologica, rispettivamente.

Quanto al biglietto di Spoleto, di cui non vi sono notizie dalle fonti agiografiche, l’Autore osserva come il contesto storico in cui fu scritto il biglietto è un tragitto a piedi che i due frati stavano facendo. Ciò porta a pensare ai primi tempi della fraternità minoritica, caratterizzati dalla predicazione itinerante, forse il 1221, prima del viaggio di Francesco in Terra Santa, o subito dopo questo, prima che le condizioni di salute di Francesco si aggravassero. Altro dato che Maranesi ricava è l’insistenza di Leone nel parlare a Francesco, lungo tale cammino, di un problema personale piuttosto consistente (sulla cui natura l’Autore presenta diverse ipotesi) e che ha condotto il Santo a porre una distanza con lui (anche sul perché di tale scelta l’Autore formula diverse ipotesi) e a rimandare ad un suo scritto una sua parola definitiva sulla questione. È a questo punto che Francesco scrive il biglietto. L’esegesi di Maranesi individua come il Santo offra aiuto al suo amico inquadrando la questione nel contesto più ampio della relazione tra i due, alla quale Francesco imprime un movimento che coinvolge Leone e che va dallo schema fratello-fratello a quello madre-figlio. A questo punto Maranesi, mediante un attento studio terminologico e concettuale, coglie il contenuto specifico dell’aiuto materno che Francesco offre a Leone: il comando di obbedirgli a divenire finalmente autonomo, ossia adulto e responsabile, nel cercare da sé cosa è «meglio» – non quindi una perfezione astratta – in ordine al Bonum che è Dio che consiste nella Sua umiltà. A partire da dettagli che potrebbero passare inosservati Maranesi cerca di mostrare la concezione di obbedienza, di amicizia e la pedagogia di Francesco che appaiono di grande spessore sapienziale e di grande attualità. Lo scritto si chiude in corrispondenza della parte terminale della pergamena che risulta cancellata e scritta nuovamente. In esso Francesco si dice disponibile a ricevere ancora una volta Leone «per un’altra consolazione»: con ogni probabilità si tratta di un ripensamento da parte di Francesco nel mantenere rigidamente la distanza con l’amico. Ma, si domanda l’Autore, cosa si deve intendere per «altra»? Lo stesso tipo di aiuto offerto di nuovo o un diverso modo di aiutare?s200_pietro.maranesi

È qui che l’Autore dà avvio allo studio del biglietto di Assisi. Questo fu composto a La Verna dopo la composizione delle Laudes Dei altissimi. Francesco e Leone giunsero al sacro monte nel settembre del 1224 in una fase travagliata per entrambi: Francesco aveva iniziato a sperimentare l’incomprensione e l’esclusione da parte dei frati per le visioni diverse sul corso che l’Ordine avrebbe dovuto prendere, Leone era rimasto al fianco di Francesco, condividendone la condizione di isolamento. Quest’ultimo cerca nella preghiera e nella solitudine de La Verna il conforto di Dio il quale gli viene offerto nell’evento delle stigmate, ossia nell’esperienza di conformazione al Crocifisso. È a questo punto che – come mostra Maranesi – nasce il Francesco frate minore e il suo esistere come ringraziamento a Dio che egli mette per iscritto nelle Laudes.

Dopo le intense pagine dedicate alla lettura dei principali significati di tale componimento, l’Autore passa a studiare la composizione del biglietto per Leone. Questo riporta su un lato una benedizione che riprende quella di Nm 6,24-26 a cui segue una ripresa con la menzione del nome di Leone, sull’altro lato, il testo delle Laudes. Francesco invoca per Leone la grazia che il volto che egli ha scoperto, quello del Crocifisso, si mostri a lui – «mostri a te il suo volto» -. In ciò consiste la benedizione per Leone e da ciò nasce il Leone frate minore che può voltare pagina e passare anche lui alle lodi di Dio. Se Francesco è passato dal Crocifisso (mediazione cristologica) alle lodi di Dio altissimo (visione trinitaria) a un amore nuovo per Leone (risvolto ecclesiologico); Leone passa da Francesco che gli scrive (aspetto carismatico) al Crocifisso (inserimento cristologico) alle lodi di Dio (piano trinitario). È questa l’«altra consolazione» che Francesco vuole offrire a Leone: non più un consiglio, ma la benedizione, che consiste nel dono che Francesco fa di sé nel dono che il Crocifisso fa di Sé da cui nasce la vita come lode al Padre. È quanto Francesco rende graficamente con il grande Tau che partendo dal cranio di Adamo disegnato in fondo alla pagina in cui è riportata la benedizione, attraversa la parola Leone dividendola in due e campeggia su di essa.

Quel biglietto fissa sulla pergamena quell’esperienza pasquale di Francesco fissata nella sua carne – l’Autore parla di “memoria sacramentale” -, quell’esperienza di accoglienza da parte del Poverello della rivelazione di Dio nel Crocifisso che diviene offerta di sé nel Crocifisso a Leone e quindi accesso per Leone al Crocifisso e da Questi alla Trinità. Questa pergamena era quindi davvero importante. Ecco il perché dell’invito accorato di Francesco a Leone di custodirla fino alla morte e delle rubriche aggiunte da Leone a indicare l’autenticità dell’Autore e le informazioni sulle circostanze della scrittura, su un ricordo che egli avrebbe tenuto per sé.

L’oggetto di studio è affascinante e il testo di Maranesi, condotto con accuratezza scientifica e apertura teologica – come osserva Bartoli Langeli nella sua preziosa Prefazione -, riesce a riproporre con tratti vividi l’attrattiva affatto accomodante che Francesco ha esercitato ed esercita su chi lo incontra: Leone ieri, tanti altri – tra cui chi scrive – oggi.




«Giovane, dico a te, alzati!». Dal Papa un invito ai giovani per superare la «divano-felicità»

download (4)di Stefano Liccioli · La Giornata Mondiale della Gioventù 2020 si svolgerà la Domenica delle Palme a livello diocesano e questo perché funziona così quando questo appuntamento non si celebra a livello internazionale (come l’anno scorso a Panama). Consentitemi un riferimento personale se vi dico che avrei voluto vivere questa ricorrenza a Roma, in piazza San Pietro, ma l’emergenza sanitaria legata al Coronavirus ha stravolto tante cose tra cui le celebrazioni liturgiche in Vaticano.

Resta comunque l’opportunità di riflettere sul messaggio scritto da Papa Francesco per questa occasione ed incentrato sul tema “Giovane, dico a te, alzati!” (cfr Lc 7,14) in riferimento alla resurrezione operata da Gesù del figlio della vedova di Nain.

Tra le varie considerazioni significative fatte dal Santo Padre ne sottolineo alcune. La prima riguarda lo sguardo: quello attento di Gesù ed il nostro troppo spesso distratto e superficiale. Quante volte guardiamo senza vedere, prigionieri di quella indifferenza che ci rende impermeabili alle tante situazioni di morte fisica, emotiva e sociale che ci circondano. Ma Papa Francesco non vuole limitarsi a mettere in luce le nostre mancanze o quelle dei giovani. Egli vuole responsabilizzarci ad un’attenzione particolare nei confronti del prossimo, vuole ricordare agli adulti che sovente sono proprio i giovani le vittime della nostra “distrazione”:«Quanti giovani piangono senza che nessuno ascolti il grido della loro anima! Intorno a loro tante volte sguardi distratti, indifferenti, di chi magari si gode le proprie happy hour tenendosi a distanza». La frenesia della vita quotidiana fa sì, ad esempio, che in famiglia non ci si guardi più negli occhi e non ci si accorga del malessere dei figli. Un malessere che a volte si può sviluppare a causa di fallimenti personali o presunti tali, «quando qualcosa che stava a cuore, per cui ci si era impegnati, non va più avanti o non raggiunge i risultati sperati» in campo scolastico o sportivo. Chi è abituato a stare accanto ai giovani non può non rendersi conto di quanto le nuove generazioni siano fragili e come siano in difficoltà proprio ad elaborare i propri insuccessi. Spesso invece di avere vicino adulti autorevoli che li aiutino a leggere ed interpretare ciò che stanno vivendo, si ritrovano accanto persone altrettanto fragili che pensano di fare il loro bene facendoli trovare negli altri le cause dei propri insuccessi o, peggio ancora, proteggendoli dalle difficoltà e dalle delusioni della vita quando invece, osserva correttamente il Pontefice, «i fallimenti fanno parte della vita di ogni essere umano, e a volte possono anche rivelarsi una grazia! Spesso qualcosa che pensavamo ci desse felicità si rivela un’illusione, un idolo. Gli idoli pretendono tutto da noi rendendoci schiavi, ma non danno niente in cambio. E alla fine franano, lasciando solo polvere e fumo. In questo senso i fallimenti, se fanno crollare gli idoli, sono un bene, anche se ci fanno soffrire».images

Il Santo Padre ritorna poi su un argomento a lui particolarmente caro quando si rivolge a ragazzi e ragazze e cioé l’invito a «non guardare la vita dal balcone» (come ebbe a dire in un’altra occasione), ma ad appassionarsi delle cose della vita:«“Alzati” significa anche “sogna”, “rischia”, “impegnati per cambiare il mondo”, riaccendi i tuoi desideri, contempla il cielo, le stelle, il mondo intorno a te». Troppo volte mi è capitato di sentire adolescenti che si dicevano cronicamente annoiati o di altri

che proprio per sfuggire l’apatia hanno vissuto esperienze estreme. Occorre aiutare i giovani a sentire e capire che il mondo e la Chiesa hanno bisogno dei loro sogni e delle loro energie; è importante che di fronte alle situazioni di dolore e di necessità che li circondano sappiano piangere con chi piange e gioire con chi gioisce; è fondamentale che davanti alle molte situazioni di ingiustizia imparino a pronunciare quell’ “I Care”, “M’interessa” che tanto piaceva a Don Lorenzo Milani. E’ uno stile di vita che non serve solo a chi viene aiutato, ma anche a chi aiuta perché altrimenti «tutto si riduce a un “lasciarsi vivere” cercando qualche gratificazione: un po’ di divertimento, qualche briciola di attenzione e di affetto da parte degli altri». Concludo ricordando, con le parole del Papa, che ogni impegno a favore del prossimo è possibile «grazie allo Spirito Santo, se voi per primi siete stati toccati dal suo amore, se il vostro cuore è intenerito per l’esperienza della sua bontà verso di voi».




Invidia

downloaddi Giovanni Campanella · Nel mese di dicembre 2019, la casa editrice Effatà ha pubblicato un piccolo libriccino tascabile, intitolato Invidia: veleno mortale. Perché lui sì e io no?, all’interno della collana “Il cammino della luce”. Gli autori sono fra Emiliano Antenucci e don Aldo Buonaiuto.

Don Aldo Buonaiuto è ordinato sacerdote diocesano l’8 dicembre 1998. Dopo gli studi di filosofia e di teologia consegue la licenza di specializzazione in antropologia teologica. Antropologo ed esorcista, segue le orme di don Oreste Benzi all’interno della Comunità Papa Giovanni XXIII. È stato nominato da Papa Francesco Missionario della Misericordia.

Anche fra Emiliano è stato nominato Missionario della Misericordia. È sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini ed è l’inventore del corso «silenzio, parla il Silenzio». Si occupa di pastorale giovanile, le sue passioni sono la mistica e la spiritualità e in passato ha guidato «scuole di preghiera». Anche lui collabora con la Comunità papa Giovanni XXIII. Collabora anche con un carcere di massima sicurezza conducendo un corso sul perdono e la misericordia.

Come facilmente intuibile leggendo il titolo, l’opuscolo intende dipingere un quadro piccolo ma abbastanza completo di quel brutto vizio capitale che è l’invidia, servendosi di alcuni passaggi scritturistici e di citazioni di pensieri di Papa Francesco e non solo. Delinea anche le caratteristiche dell’invidioso e suggerisce alcuni rimedi insieme ad alcune preghiere.

L’invidia è veramente una brutta bestia. Ciò che la rende massimamente pericolosa è il fatto che il più delle volte è nascosta. Sembra strano ma effettivamente chi invidia non si rende conto molto spesso di stare invidiando, di essere invidioso. È un argomento a me caro perché solo di recente ho scoperto di essere io stesso un invidioso. Anche solo cominciare a rendermene conto è stata per me una grande liberazione. Illuminante è per me un pensiero di Salvatore Natoli, citato nell’opuscolo: «L’invidioso si nasconde quanto il superbo si mostra. Eppure l’invidia è sottesa dalla superbia a tal punto da poter essere intesa come la pena pagata per essa. In breve, l’invidia altro non è che l’espiazione della superbia. E ciò spiega perfettamente perché essa è un vizio senza piacere» (p. 16). Mi torna perfettamente! Sono infatti un narcisista, un superbo. Dunque, il mio narcisismo si presenta come lampante causa dell’invidia di cui sono affetto.

L'invidia: quella carie spirituale che avvelena le relazioni

L’invidia: quella carie spirituale che avvelena le relazioni

Meno male che il Signore non ci lascia soli nella lotta e anzi, soprattutto quando ci accorgiamo che senza di Lui non possiamo fare nulla, dall’iniziale timido che è, diventa un super wrestler, entusiasta del fatto che gli abbiamo consentito di stare al nostro fianco. Rendersi conto di essere invidiosi è il primo grande passo per intraprendere il cammino di emancipazione dal brutto laccio di tale viziaccio. Poi bisogna rendersi conto che siamo tutti una grande famiglia (e il cristiano dovrebbe essere il primo a rendersene conto): i talenti, le abilità e le ricchezze degli altri contribuiscono a rendere più bella e fruttuosa la nostra grande famiglia. Inoltre, la preghiera è un’arma fondamentale, imprescindibile. Anche a noi il Signore ha dato tanto e purtroppo è molto facile non accorgersene. Dobbiamo ringraziare continuamente per tutto ciò che riceviamo ogni giorno e ringraziare anche per i doni degli altri. Doni diversi a persone diverse costringono tali persone ad appoggiarsi l’una sull’altra e quindi a relazionarsi: la relazione è ciò che al mondo c’è di più prezioso.

Com’è bello essere davvero in grado di gioire di cuore, sinceramente, nello scoprire qualità e capacità che io non ho ma che ha l’altro che mi sta accanto! Uno splendido traguardo! Un sublime cambiamento del gusto! Forse anche in questo sta la vera sapienza, pensando alla radice etimologica di “sapienza”, collegata proprio a “sapore”




Dove è Dio in questi giorni ?

Fotothek_df_ps_0000333_Frauen_arbeiten_auf_einer_Trümmerschutthalde._Blick_gegendi Carlo Parenti · In questi giorni in cui la pandemia del COVID-19 sconvolge il mondo con tante vittime e gravi sofferenze per le persone tutte – senza…distinzioni di censo, genere, colore della pelle, credo religioso e politico – molti pongono una domanda: “Dov’è Dio in questi momenti?”.

La risposta la trovo in un colloquio che don Giulio Facibeni, dichiarato venerabile da papa Francesco lo scorso dicembre, ebbe con don Corso Guicciardini. Lo stesso don Corso, un nobile che ha rinunciato alla grande ricchezza della sua casata per seguire Cristo, me lo ha raccontato.

Quando il Padre tornava mi raccontava che cosa aveva detto nelle omelie delle messe. Ce ne erano anche tre in una giornata. «Lo sai di cosa ho parlato? Ho parlato di quel che dice Peter Lippert ». Questi era un gesuita [e teologo tedesco vissuto dal 1879 al 1936] che aveva scritto un libro di meditazione al riguardo della sua esperienza di Dio. Lippert guarda le macerie di una città tedesca, alte anche venti metri. Tutto, tutto distrutto. Lo scrittore continua: «Dio dove sei, dove sei Dio; non Ti vedo! Sei scomparso, è tutto distrutto, tutto!». Però la meditazione seguita e lui scopre che Dio è nelle sue braccia, nelle sue mani, nei suoi occhi, nella sua mente e nel suo cuore. «Ecco dove sei Dio! Sono io, sono io che devo diventare strumento della Tua azione, della Tua volontà di salvezza, del Tuo amore». Questo l’ho sentito raccontare dal Padre direttamente e lo ripeteva. Qui il Padre si sentiva nel suo ambiente. Quando diceva queste cose lui sentiva respirare la sua anima. C’era poco da fare! Perché era un pastore. Era stato chiamato a nutrire le anime”unnamed

Don Facibeni, provato dalla tragedia della prima guerra mondiale non riuscirà più a dimenticare le tragedie, le violenze, il sangue versato, la vista della morte di tanti giovani. Trova una risposta a tanti orrori nel diventare umile strumento dell’azione, della volontà di salvezza, dell’amore di Dio col quale era in mistica unione.

Ebbene questa è la risposta alla domanda di questi giorni ed è la ricetta che vale –sembra difficile dirlo- anche per i non credenti.

Oggi, nella nostra società dove l’apparire è più importante dell’essere, dove la formazione della personalità avviene addirittura anche per mezzo di tecniche che vengono insegnate al fine specifico di sopraffare il prossimo nell’esaltazione suprema del sé, del proprio egocentrismo, risulta quasi incomprensibile il cammino spirituale di don Facibeni e di don Guicciardini. Uomini che per tutta la vita hanno inseguito l’annientamento del proprio io nella carità e nella misericordia fino ad accettare di essere servi inutili in una tensione di anime che «ottengono la vittoria su se stessi, dominando le passioni […] stroncando il proprio io». Ma questa rinuncia ha generato «fatti e non parole» per tante «povere creature» che soffrivano la «miseria e l’abbandono». davvero gli ultimi.

Ed oggi “ultima” si avvia ad essere tutta l’umanità.

In pratica tutto ciò significa che essere cristiani non è chiedere a Dio quello che noi vogliamo da Lui, ma è fare quello che Lui vuole da noi. Spogliarsi di tutto per essere suoi strumenti di misericordia e carità.unnamed

Ha detto Francesco: “Gesù è il dono di Dio per noi e, se lo accogliamo, anche noi possiamo diventarlo per gli altri – essere dono di Dio per gli altri – prima di tutto per coloro che non hanno mai sperimentato attenzione e tenerezza. Ma quanta gente nella propria vita mai ha sperimentato una carezza, un’attenzione di amore, un gesto di tenerezza?”( Udienza Generale di mercoledì, 27 dicembre 2017)

Questo lo stanno facendo a rischio della propria vita i medici e gli infermieri (donne e uomini) delle rianimazioni e degli ospedali, i medici di famiglia, i lavoratori che assicurano i beni necessari, tutti coloro che comunque aiutano gli altri in questi momenti difficili.

Facciamolo anche noi nei nostri contesti, per modesti che siano. Per le vite di tutti noi, insieme. Tra poco è Pasqua! Vorrà pur dirci qualcosa.




Soliloquio sulla «provida sventura»

download (1)di Andrea Drigani · Il soliloquio viene descritto come un «colloquio tra sé e sé, nell’ambito di un momento riflessivo o meditativo» (Cfr. G. Devoto-G.C. Oli-Il dizionario della lingua italiana, Firenze, 1990, p. 1820). In questi giorni, a causa della pandemia del coronavirus che ci costringe a rimanere pressochè stabilmente in casa, si può riscoprire l’importanza del soliloquio anche riguardo a tale pestilenza. Il colloquio tra me e me parte da una frase di San Paolo Apostolo che si trova nella Lettera ai Romani (8,28): «Dilegentibus Deum omnia cooperantur in bonum» («Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio»). Tali parole, di primo acchito, potrebbero apparire enigmatiche, infatti nel termine «omnia» («tutto») entra pure la pestilenza provocata dal covid-19 e ci si potrebbe domandare: come può concorrere al bene? Chi sono coloro che amano Dio? In che modo sarebbero beneficati? Mi viene alla mente un’affermazione dello scrittore Clive Staples Lewis (1898-1963): «Può un mortale fare domande che Dio trova senza risposta? Penso che ciò accada abbastanza di frequente, tutte le domande senza senso non hanno risposta». Per cercare, allora, di comprendere l’espressione paolina penso che ci si debba muovere dalla primaria considerazione che siamo «quelli che amano Dio», immersi cioè nell’amore di Dio amato sopra ogni cosa, proiettati, in quanto partecipi della natura divina, alla vita eterna: la vera vita. Per questo ancora San Paolo nella Lettera ai Romani proclama: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (8,35-39). Questa certezza ha animato da sempre l’esistenza dei cristiani, cioè di coloro che sono di Cristo, consapevoli che tutto quello accade sulla terra, ivi comprese le guerre, le devastazioni, le pestilenze, non ci impedisce di essere condotti da Dio verso il nostro ultimo fine. Dio ci guida per vie, anche misteriose, all’incontro con Lui. Il soliloquio, a questo punto, mi conduce alla memoria di Alessandro Manzoni (1785-1873) e alle sue opere. Ho trovato delle sorprendentiDORSI15F1_177850F1_2-kekC-U31701266803979nDI-656x492@Corriere-Web-Sezioni attualità a rileggere i capitoli XXXI-XXXV dei «Promessi sposi» per le descrizioni sulla peste e sulla della diffusione del contagio, sia per quanto concerne le considerazioni circa la «provida sventura», dal Manzoni già preannunciata nel secondo coro dell’«Adelchi». L’ossimoro «provida sventura», che mette insieme due termini contrastanti, ci aiuta, in qualche modo, a sopportare gli effetti drammatici dell’odierna ed inimmaginabile pestilenza del coronavirus, e a rammentare che «Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime» (cfr. Gaudium et Spes, n.22). Questa pandemia, con la sua virulenza, ha eliminato l’illusione di essere riusciti a debellare o cancellare ogni insidia e avversità. Ma non è così. Un’antica preghiera mariana, risalente al III secolo dice: «Sub tuum praesidium confugimus sancta Dei Genetrix; nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus; sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo gloriosa et benedicta» («Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta»). Da molti secoli le nostra storia continua ad essere segnata da pericoli e prove, ma continua pure l’incessante ed invocata protezione della Madre di Dio.




Il Coronavirus e l’egemonia cinese: E’ tempo che ci svegliamo

thumbnail_iudi Mario Alexis Portella · I paesi europei continuano ad adottare severe misure, come il social distancing e la chiusura di tutte le attività produttive non essenziali, per far fronte all’emergenza della pandemia COVD’19—prima quando l’epidemia del Coronavirus era in Italia, a suggerimento del Sindaco di Firenze, Dario Nardella e il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, in modo superficiale e incosciente si doveva abbracciare i cinesi per dimostrare che non siamo razzisti e di continuare con le nostre abitudine quotidiane sulle strade; dopo il Nardella è andato in quarantena per 14 giorni e il Zingaretti ha annunciato di essere positivo al Coronavirus. La Cina, però, continua ad allentare le misure draconiane nella sua regione più colpita dal Coronavirus.

Il Segretario Generale del Partito comunista cinese (PCC) Xi Jinping è ora visto come un eroe, specialmente dopo la sua visita nella provincia di Hubei dove il virus è emerso per la prima volta—il vero titolo di stato di Xi è goujia zhix, cioè “il chairman di stato” ed è distinto dal Segretario Generale del PCC; “presidente” è una traduzione ingannevole per dare l’impressione che il sistema politico in Cina à parallelo a quello occidentale. La storia ufficiale dei media statali del PCC è che il numero di persone infette dal COVID’19 è calato immensamente. Ma secondo la testimonianza di un dottore a Wuhan, pubblicato nel giornale giapponese Kyodo News il 19 marzo, molti pazienti contagiati furono espulsi dagli ospedali e “rilasciati nella società” prima della visita del leader cinese.

Ma come possiamo fidarci di un regime la cui politica di brutalità, di censure e di segretezza ha offerto, nella migliore delle ipotesi, nient’altro che mezze verità e menzogne sul Coronavirus? Ad esempio, mi riferisco al punto che il PCC era consapevole del COVD’19 mesi prima che fosse “ufficialmente” rivelato al resto del mondo. Oppure come Chen Quishi, un cittadino-giornalista cinese che è stato messo in un campo di quarantena contro la sua volontà a Wuhan. Il suo crimine era di andare negli ospedali, nei mortuari di Wuhan e nei cantieri di un centro di quarantena, esponendo ciò che stava realmente succedendo: ospedali affollati, pazienti disperati, e gente morta. Nonostante molti dei nostri politici si fidino di quello che Pechino pubblica—mi chiedo se credono anche all’accusa del PCC contro l’esercito americano di avere trasportato il COVID’19 a Hubei—il PCC farà di tutto per mantenere una nuova egemonia globale.

Il Coronavirus è uscito direttamente dalla Cina ed il PCC ha permesso al virus di evolversi, diffondersi ed entrare in tutto il mondo, specialmente l’Occidente. Ma i capi cinesi, che cosa guadagnano? Il potere di controllare la nostra vita, di prendere e “fare” decisioni per noi, di impostare la narrazione e di imporre la loro visione elitaria su tutti noi.thumbnail_iu-1

Vediamo questo nella nostra Italia, dove più dell’80 percento delle medicine provengono dalla Cina. Infatti, il mese scorso, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato l’arrivo dalla Cina di medici specialisti del Coronavirus per dare una mano al sistema sanitario italiano, al fine di provare a limitare il contagio—quasi due settimane dopo il governo italiano ha fatto un appello diretto agli Stati Uniti per ottenere equipaggiamento medico come mascherine e respiratori contro il Coronavirus. Come mai l’Italia, come quasi tutti i paesi occidentali, deve dipendere “esclusivamente” da Pechino quando sarebbe capace di farlo da sé? La risposta è ovvia: approfittiamo, oppure guadagniamo dallo sfruttamento del lavoro forzato dei cinesi, che ci procura un commercio redditizio. E i politici occidentali continuano tale prassi, a costo di tollerare le violazioni dei diritti naturali in Cina o di non interessarsene.

Dall’anno scorso l’Italia punta a sviluppare legami commerciali più stretti con la Cina attraverso il progetto Belt and Road—ciò ha fornito un’autostrada per il Coronavirus a viaggiare da Wuhan a Milan ed il resto di Italia. Questo non è altro che la realpolitik, cioè, una politica pragmatica, tendente a risolvere i problemi in un quadro politico-sociale concreto, o in questo caso economico, rifuggendo da ogni premessa ideologica o morale. E così, la Cina comunista diventa ancora più potente, sapendo che nonostante i loro atti criminali contro l’umanità, riuscirebbero a mantenere il loro commercio con l’Occidente.

Come ha affermato lo Speaker-Emerito della Camera degli Stati Uniti Newt Gingrich, [l’Occidente] è attualmente impegnato in una competizione con il governo cinese tra la democrazia che è governata dalla libertà, dal diritto e dalla dignità dell’uomo e una dittatura totalitaria controllata dal PCC.

A parte che dobbiamo affrontare il PCC per i suoi crimini, specificamente per questo virus che hanno diffuso nel mondo, è tempo che l’Italia cominci a dipendere da se stessa. Significa che il nostro Paese deve iniziare a produrre i nostri farmaci, attrezzature tecnologiche e simili per non fare più affidamento sui capricci economici e politici del PCC.




Riconciliarsi con Dio e i modi straordinari di celebrare il Sacramento della confessione

41oXURgkDaLdi Francesco Romano • Grande risalto è stato dato dai media all’omelia di Papa Francesco, tenuta lo scorso 20 marzo durante la consueta celebrazione della Messa nella Casa Santa Marta, a proposito del perdono di Dio che in determinate circostanze e condizioni è possibile ricevere anche senza confessione e assoluzione sacramentale.

Purtroppo questa emergenza dovuta alla pandemia da coronavirus, che ormai ha toccato diffusamente tutti i Continenti, ha comportato da parte dei governi nazionali la necessità di adottare misure restrittive della libertà personale, che includono anche il normale esercizio della libertà religiosa e di culto, accolte e sostenute dalla Chiesa in vista della salvaguardia del bene primario della comunità.

Il Papa ha inteso sottolineare nella sua omelia che l’isolamento dovuto al Covid-19 rappresenta un caso di gravissimo impedimento tale da giustificare i fedeli che si trovassero in questa situazione a sostituire la confessione sacramentale con un atto di contrizione perfetta, impegnandosi a tempo debito a rivolgersi a un sacerdote per ricevere l’assoluzione individuale nel sacramento della confessione.

In realtà il Papa ha fatto con semplici parole una vera lezione di catechismo in modo da raggiungere la comprensione di tutti, mosso da quella particolare sollecitudine che gli deriva dal ministero petrino per la salvezza delle anime, quale suprema legge della Chiesa. Infatti, il “Catechismo della Chiesa Cattolica”, citando il Concilio di Trento (cf. Denz.-Schönm, 1677), dichiara: “Quando proviene dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta perfetta (contrizione di carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1452).

I due requisiti indicati dal Catechismo come condizione per ottenere il perdono di Dio sono la contrizione perfetta e il votum sacramenti. Per “contrizione perfetta” si intende il dolore per i peccati commessi suscitato principalmente dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, prima ancora che dal timore del castigo eterno. Il dolore per i peccati commessi include sempre, anche il proposito “attuale” di non commetterli più e, non essendoci la possibilità immediata di confessarsi davanti al sacerdote, anche l’impegno (votum) assunto davanti a Dio di ricorrere appena possibile al sacramento della riconciliazione.

Questa modalità di invocare il perdono di Dio riguarda situazioni in cui, anche senza un probabile e immediato pericolo di morte, esiste l’impossibilità di accostarsi alla confessione sacramentale. Infatti, il can. 960 afferma in modo tassativo che “la confessione individuale e completa e l’assoluzione costituiscono l’unico modo ordinario con il quale il fedele, consapevole di essere in peccato grave, si riconcilia con Dio e con la Chiesa”. Tale modo ordinario viene definito di “diritto divino” dal Concilio di Trento (cf. Denz.-Schönm, 1707). Il can. 960 prosegue, non escludendo che il fedele possa trovarsi in una particolare situazione per cui “solo una impossibilità fisica o morale scusa da una tale confessione nel qual caso la riconciliazione si può ottenere anche in altri modi”.

L’obbligo della confessione individuale sancito dal can. 960 come “unico mezzo ordinario” per la riconciliazione, è stato riaffermato nella Esortazione Apostolica post-sinodale “Reconciliatio et Paenitentia: “la confessione individuale e integra dei peccati con l’assoluzione egualmente individuale costituisce l’unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa”(AAS, LXX–VII, 1985, n. 33).

Pertanto, a fronte dell’unico modo ordinario dato dalla confessione individuale e integra per riconciliarsi con Dio e con la Chiesa, possono esserci eccezioni dovute a circostanze esimenti che scusano dal fare una tale confessione. Si tratta di “impossibilità” fisiche o morali, dove il termine “impossibilità” indica una situazione che, in forza di una interpretazione rigorosamente stretta che il caso richiede, costituisce una circostanza del tutto diversa dalla mera “difficoltà”.

L’interpretazione stretta della norma è richiesta dalla eccezionalità del modo straordinario di riconciliarsi con Dio sancita dal can. 961, in quanto l’unico modo ordinario, come si è visto, è dato dalla confessione individuale e integra (can. 960), e per questo la norma in via eccezionale resta soggetta al dettato del can. 18: “Le leggi che […] contengono una eccezione alla legge sono soggette a interpretazione stretta”. Pertanto, l’impossibilità deve essere realmente tale riguardo a circostanze di ordine fisico (infermità grave, pericolo di naufragio, bombardamento, terremoto ecc.) e di ordine morale (grave infamia per il penitente, pericolo di scandalo o gravi danni per il fedele, pericolo di violare il sigillo sacramentale ecc.). L’eccezionalità rispetto all’unico modo ordinario è ancora una volta confermata da Giovanni Paolo II nella Esortazione Ap. “Reconciliatio et Paenitentia”: “La riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale – riveste un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un’apposita disciplina” (AAS, LXX-VII, 1985, n. 32).unnamed (1)

Il Dicastero vaticano della Penitenzieria Apostolica ha promulgato il 19 marzo 2020 una “Nota” circa il Sacramento della riconciliazione, in allegato al Decreto che concede l’indulgenza plenaria ai malati affetti da Covid-19, ai medici e ai paramedici e volontari che li assistono, anche solo con la preghiera, nonché ai loro familiari. È da notare che il Decreto, tenendo conto della grave situazione, non sottopone la concessione dell’indulgenza alle solite condizioni da soddisfare al momento, bensì alla “volontà di adempierle (confessione sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre), non appena sarà loro possibile.

Scopo della “Nota” della Penitenzieria è di chiarire in quali forme ed in quali modalità è possibile amministrare l’assoluzione collettiva, detta anche assoluzione generale, per evitare che si insinuino abusi già conosciuti nel passato più o meno recente, anche con una certa frequenza. Tale preoccupazione è stata ricorrente da parte dei Pontefici. Si ricordi l’ammonizione di Paolo VI in un discorso ai Vescovi statunitensi in visita ad limina nell’aprile del 1978 indicando l’assoluzione generale da “non usare come normale opzione pastorale, o come mezzo per affrontare qualsiasi situazione pastorale difficile. Essa è permessa solamente nelle situazioni straordinarie di grave necessità. Proprio l’anno scorso richiamammo pubblicamente l’attenzione del carattere del tutto eccezionale dell’assoluzione generale” (Insegnamenti di Paolo VI, vol. XVI, p. 293). Anche Giovanni Paolo II in un suo discorso ammoniva: “Quanto al problema dell’assoluzione impartita in forma generale a più penitenti senza la previa confessione individuale, rincresce innanzi tutto constatare che, nonostante le precise indicazioni del Codice di Diritto Canonico e ribadite dall’Esort. Ap. Reconciliatio et Paenitentia, in non poche Chiese particolari si registrano casi di abuso. Al riguardo, sento il dovere di riaffermare che questa forma di celebrazione del Sacramento riveste un carattere di eccezionalità e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un’apposita disciplina” (Discorso alla Plenaria della Congregazione per i Sacramenti, 17 aprile 1986, in Communicationes, a. 1986, p. 41, n. 5).

È ormai chiaro, a questo punto, che anche per l’assoluzione generale, sancita dal can. 961 vale la regola della stretta eccezionalità rispetto al dettato del can. 960 che prevede l’unica via ordinaria della confessione individuale completa per ricevere l’assoluzione. Pertanto, tutto quanto si riferisce al can. 961 che regola l’assoluzione generale è sottoposto a interpretazione stretta (can. 18).

Per l’interpretazione del can. 961 e la retta applicazione dell’assoluzione in forma generale, oltre alla recente “Nota” della Penitenzieria Apostolica, è necessario fare riferimento, innanzitutto e soprattutto, alla “Nota esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi pubblicata l’8 novembre 1996, dal titolo “Assoluzione generale senza previa confessione individuale, circa il can. 961 CIC” (Communicationes, 28 [1996] 177–181). Infatti, spetta a questo Dicastero pontificio la facoltà concessa dal Legislatore universale di interpretare autenticamente le leggi (can. 16 §1).

L’assoluzione generale senza previa confessione individuale è contemplata dal can. 961 che, dettagliatamente nei due paragrafi, ne elenca le condizioni per essere celebrata. Ricordiamo che la forma straordinaria dell’assoluzione generale trovò applicazione nel periodo bellico delle due guerre mondiali.

Il can. 961 presenta due situazioni in cui può venire a trovarsi il fedele penitente: a) “imminente pericolo di morte” (can. 961 §1); b) “una grave necessità” (can. 961 §2). Mentre, in riferimento ai sacerdoti: a) a fronte dell’imminente pericolo di morte “manca il tempo di ascoltare le confessioni dei singoli penitenti” (can. 961 §1); oppure, nel ricorrere di una “grave necessità”, senza che ci sia un incombente pericolo di morte, b) “non si abbiano a disposizione confessori sufficienti per ascoltare convenientemente le confessioni dei singoli entro un congruo spazio di tempo, sicché i penitenti, senza loro colpa, sarebbero costretti a rimanere a lungo privi della grazia sacramentale” (can. 961 §2).

Se di per sé può essere chiara la situazione dell’imminente pericolo di morte contemplata dal can. 961 §1, la “Nota esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi intende rendere chiaro il senso relativo alla situazione che si riferisce alla “grave necessità”: “Perché si verifichi tale stato di «grave necessità» devono concorrere congiuntamente due elementi: primo, che vi sia scarsità di sacerdoti e gran numero di penitenti; secondo, che i fedeli non abbiano avuto o non abbiano la possibilità di confessarsi prima o subito dopo”. Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica in forma di motu proprio “Misericordia Dei” del 7 aprile 2002 afferma: “Si tratta di situazioni che, oggettivamente, sono eccezionali, come quelle che si possono verificare in territori di missione o in comunità di fedeli isolati, dove il sacerdote può passare soltanto una o poche volte l’anno o quando le condizioni belliche, meteorologiche o altre simili circostanze lo consentano”. (Lett. ap. Motu Proprio Misericordia Dei, su alcuni aspetti della celebrazione del sacramento della penitenza in AAS 94 (2002) 452-459, n. 4, 2°, a). Riguardo al secondo elemento temporale che, in modo concomitante, è richiesto dalla “grave necessità, Giovanni Paolo II precisa “sarà un giudizio prudenziale a valutare quanto lungo debba essere il tempo di privazione della grazia sacramentale affinché si abbia vera impossibilità a norma del can. 960, allorché non vi sia imminente pericolo di morte. Tale giudizio non è prudenziale se stravolge il senso dell’impossibilità fisica o morale, come accadrebbe se, ad esempio, si considerasse che un tempo inferiore a un mese implicherebbe rimanere «a lungo» in simile privazione” (m.p. Misericordia Dei, n.4, 2°, d).

Per la validità, riguardo al ministro sacro devono ricorrere gli stessi requisiti necessari per la confessione individuale, cioè che sia un sacerdote validamente ordinato (can. 965) e che possieda la facoltà di esercitarla (can. 966 §1), salvo il caso del pericolo di morte in cui ogni sacerdote anche privo della facoltà può assolvere validamente e lecitamente (can. 976). L’assoluzione generale senza previa confessione individuale è un vero Sacramento e per questo, nelle modalità richieste per la sua amministrazione, non deve essere pensata o confusa alla stregua di un sacramentale come una benedizione che talvolta viene impartita anche attraverso radio o televisione, per es. la benedizione “Urbi et orbi”. Come nella confessione individuale, in cui non è consentito fare ricorso alla tecnologia di comunicazione (vg. telefono, walkie talkie, citofono, skype, mail ecc), anche nell’assoluzione collettiva, pur mancando la confessione auricolare, ma per la natura stessa del Sacramento, il sacerdote deve essere presente ai penitenti e parlare loro direttamente in modo che possano ascoltare le sue parole anche servendosi di un megafono o di un microfono. Invece non è ammesso che il sacerdote comunichi attraverso impianti di diffusione interna a una struttura vasta come per esempio, contemporaneamente in più reparti di un ospedale, attraverso un microfono da una centralina di trasmissione, oppure, rimanendo all’esterno sul piazzale dell’ospedale, attraverso impianti centralizzati collegati con apparecchi di diffusione come possono essere la radio o il televisore. In questo modo si ricadrebbe nel caso della confessione fatta tramite telefono e verrebbe a mancare il rapporto personale tra confessore e penitenti, quale esigenza intrinseca alla celebrazione del sacramento. Una caratteristica dell’assoluzione generale è data da un gran numero di penitenti raccolti insieme che si relazionano tutti direttamente con lo stesso sacerdote confessore.

Pertanto, il penitente deve essere consapevole che sta celebrando il Sacramento della penitenza e che per ricevere ad validitatem l’assoluzione deve avere le disposizioni generali, fare un atto di contrizione insieme al proposito di accusare a tempo debito i singoli peccati gravi che al momento non si possono così confessare (can. 962 §1). Il sacerdote, o chi per lui, prima di impartire l’assoluzione collettiva deve istruire i penitenti sui requisiti suddetti (can. 962 §2) e che per ricevere una seconda assoluzione in modo collettivo deve essersi prima accostato alla confessione individuale, tranne che sia sopraggiunta una giusta causa (can. 963).

Tutto questo ci porta a riflettere sull’estrema difficoltà nella situazione attuale dovuta alla pandemia da Covid-19, anche per i cappellani di ospedale, di accedere direttamente e di persona nei reparti di rianimazione o di medicina in cui sono degenti i pazienti infetti da coronavirus per amministrare validamente e lecitamente il Sacramento della confessione e provvedere a tutti gli adempimenti richiesti dal Legislatore universale nell’impartire l’assoluzione generale. Come sarebbe possibile comunicare, secondo la ratio della norma, ripetutamente confermata dai Pontefici, con pazienti intubati o sottoposti ad altri trattamenti strumentali sanitari, in preda alle conseguenze che comporta lo stato febbrile e ad altre sofferenze fisiche, in una condizione psicofisica fortemente debilitata, rimanendo il confessore sul piazzale antistante l’ospedale, ammesso che al cappellano sia concesso l’accesso ai reparti, visto il regime di assoluto isolamento per motivi di sicurezza, ma anche per non intralciare il frenetico lavoro dei sanitari?

La preoccupazione dei due santi Pontefici, Paolo VI e Giovanni Paolo II, che nella modalità di amministrazione di questo Sacramento si potessero insinuare abusi, si riflette nella formulazione del can. 961 §2 in cui è demandata ai Vescovi diocesani il munus pastorale nei casi concreti di verificare la presenza o meno delle condizioni stabilite dal Codice di Diritto Canonico, alla luce dei criteri “concordati con gli altri membri della Conferenza Episcopale”, per impartire l’assoluzione generale. Il Vescovo diocesano “non è autorizzato a cambiare le condizioni richieste, a sostituirle con altre, o a determinare la necessità grave secondo i suoi personali criteri, comunque degni” (Insegnamenti di Paolo VI, vol. XVI, p. 293). Un abuso sarebbe senz’altro anche quello commesso dal presbitero che ricorresse all’assoluzione generale senza aver prima ricevuto le direttive del Vescovo diocesano. Riguardo agli abusi sull’assoluzione impartita in forma generale, Giovanni Paolo II ebbe a scrivere: “sulla base di un allargamento arbitrario del requisito della grave necessità, si perde di vista in pratica la fedeltà alla configurazione divina del Sacramento, e concretamente la necessità della confessione individuale, con gravi danni per la vita spirituale dei fedeli e per la santità della Chiesa” (m.p. Misericordia Dei, Introduzione).

La “Nota esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 1996 precisa che “il Vescovo non può stabilire i criteri e non ha in alcun modo il potere di modificare, aggiungere o togliere le condizioni già stabilite nel Codice e i criteri concordati con gli altri Membri della Conferenza episcopale”, bensì egli ha, “nei casi concreti e alla luce dei criteri fissati dalla Conferenza Episcopale, il ruolo di verificare la presenza o meno delle condizioni stabilite dal Codice di Diritto Canonico”. Proprio questo è quanto raccomandava San Giovanni Paolo II nell’Esot. Ap. Reconciliatio et Paenitentia: “Il Vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell’ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l’uso della terza forma (vg assoluzione generale), darà questo giudizio graviter onerata conscientia, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati – sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte – con gli altri membri della Conferenza episcopale” (AAS, LXX–VII, 1985, n. 33).

Per esperienza personale, quale docente del corso di diritto sacramentale, mi sovviene che ogni volta che arrivo all’esegesi di questi canoni si pone la domanda su quando la forma di assoluzione generale possa trovare applicazione, almeno nel nostro Paese. Si pensa sempre come ipotesi remota al caso di guerre o di gravi calamità naturali, oppure alle comunità nei Paesi di missione che il sacerdote può visitare solo poche volte all’anno. Ma la preoccupazione del docente è di richiamare anche l’attenzione sul rischio di abusi per iniziative personali, come sempre capita, e come gli stessi Pontefici hanno espresso con puntuale premura, per non dire acrimonia. Nessuno avrebbe potuto immaginare questa pandemia che affligge intere popolazioni costringendole a vivere come se stessero vivendo sotto un bombardamento continuo. Eppure, guerre e bombardamenti, come anche gravi calamità naturali, sono sempre presenti in ogni parte della Terra. Nel nostro Paese, se è lontano il ricordo della guerra, non mancano nelle diverse regioni ricorrenti eventi sismici o alluvioni al punto di travolgere e spazzare via interi centri abitati e di vedere ridotte in macerie chiese e case. Mai però si era ancora pensato, fin dal tempo dell’ultima guerra, di ricorrere all’iniziativa pastorale dell’assoluzione collettiva.

Dalla “Nota” della Penitenzieria Apostolica si deduce che nel “caso di grave necessità” dovuto al Covid-19 l’impedimento per i sacerdoti di avvicinare il malato corrisponda alla loro scarsità secondo le situazioni previste per l’assoluzione collettiva. Con ciò devono rimanere fermi i requisiti espressi in modo tassativo dal Codice di Diritto Canonico e confermati a più riprese dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II nei loro insegnamenti dati, come anche dalla “Nota Esplicativa” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Inoltre, anche se è richiesto solo ad liceitatem, spetta al Vescovo diocesano giudicare se ricorrono le condizioni previste dal can. 961 §1, n.2, della “grave necessità”, che è una fattispecie distinta da quella della “imminenza del pericolo di morte” (can. 961 §1, n.1), e attenendosi ai criteri concordati con gli altri Membri della Conferenza episcopale per determinare i casi concreti (can. 961 §2).

Un altro elemento fondamentale è la presenza fisica del sacerdote nella celebrazione di questo Sacramento. “Anche in tempo di guerra nel dare l’assoluzione collettiva ai soldati schierati per la battaglia, si raccomandava di passare tra i vari reparti e assolverli a gruppi, e non tutti insieme, anche qualora tutta l’armata radunata potesse vedere il sacerdote. Questo per non venir meno al modo umano in cui il giudizio sacramentale viene percepito dal singolo penitente”. Seguendo la stessa ratio, è comunque necessario che il sacerdote sia presente, almeno “all’ingresso dei singoli reparti ospedalieri” e che i malati siano avvertiti da poter fare l’atto di dolore e possibilmente da percepire la presenza e le parole del sacerdote.

Il rigore con cui la Chiesa ha sempre raccomandato, seguendo la linea dell’interpretazione stretta come richiede il can. 18, nell’applicazione della norma canonica sull’assoluzione collettiva in via eccezionale, ci deve fare riflettere anche sulla prudenza di Papa Francesco quando nella sua omelia-catechesi del 20 marzo, ha ritenuto più che sufficiente soffermarsi sulla certezza del perdono divino e limitarsi soltanto a incoraggiare il fedele a rivolgersi a Dio con animo contrito e con il proposito di fare ricorso al Sacramento della riconciliazione appena gli sia possibile.




Sant’Anna con antiche testimonianze

download (6)di Carlo Nardi · Già nel primo secolo la Chiesa cattolica assunse come suoi scritti anche, oltre l’Antico Testamento, il Nuovo. Altri, più recenti, sono i cosiddetti apocrifi. Tra questi, sia all’adorazione a Cristo sia alla devozione ai santi, si espresse anche allo scopo di introdurre scritti adatti, ritenuti simili ai vangeli della Chiesa. Pii cristiani infatti, non paghi della sobria essenzialità dei quattro vangeli, ben presto si fecero avanti con uno stuolo di racconti, tra i quali alcuni quanto mai interessanti. Di qui una letteratura che, curiosa e pia, giunse fino a tutto il medioevo.

Uno scritto del secondo secolo circa è La Natività di Maria o Protevangelo di Giacomo, che racconta di sant’Anna e di san Gioacchino, nonna e nonno di nostro signor Gesù Cristo, nato dalla Vergine santa. E, a forza di raccontare, il Protevangelo sembra voler riempire zone d’ombra per temere un vuoto imbarazzante. E del resto, non erano autori assai vari i rapsodi itineranti del ciclo epico greco, con iliadi e odissee a loro modo, per quanto ci è rimasto? (C. Nardi, S. Anna e gli antichi testi, in Sant’Anna dei Fiorentini. Fede, storia, arte, tradizione, a cura di Anita Valentini, Firenze 2003, pp. 73-81; Id., Per chi non lo sa. Le burrasche di sant’Anna, in Il mantello della giustizia in rete, luglio 2017, nonché in Parrocchia di Santa Maria a Quinto in Sesto Fiorentino. Lettera settimanale ai parrocchiani 3 [1 luglio 2017] n. 23, pp. 1-2).

Tuttavia alcuni antefatti dei Vangeli sia di Matteo sia di Luca con l’infanzia di Gesù si ritrovano in alcune parti del Protevangelo. Tra i molti scritti apocrifi di tipo devozionali è notevole lo Pseudo Matteo in latino, noto al dottissimo Girolamo, peraltro assai sospettoso per una letteratura di bassa lega.

E di nome Anna sono altre le donne tra sacre Scritture, e diventano in nomen omen. La prima Anna è la madre di Samuele, gratificata dal figlio insperato per volontà divina, al quale il piccolo è donato. Di fatti Anna era sterile, ma Dio intervenne e così fu madre. Fu come nel caso di Sara, moglie Abramo e madre di Isacco, e infine nel Nuovo Testamento – finalmente una donna! – Elisabetta, la madre di Giovanni Battista: madri, consacrate per essere chiamate a grandi cose in una totale dedizione a Dio.

Anche Anna di Samuele è liberata da un’incresciosa sterilità, del tutto simile alla ragazza Sara, un tempo all’incapacità di convolare a nozze vitali e feconde, finalmente all’inatteso incontro con Tobia, poco più che ragazzo.

La ‘nostra’ Anna, come la futura sposa Sara del giovane Tobia, è schernita per il suo ventre infruttuoso, e invece negli antichi testi cristiani si diffonde, qual profumo, d’una orazione da risvolti cosmici: tant’è che Anna rende partecipi della sua sventura uccelli d’aria e bestie acquatiche e terrestri; e come Sara junior in preghiera accorata, alfine esaudita, il tutto umanamente e ancor piamente.download (7)

Non senza un perché il nome Anna parla in ebraico di ‘grazia’ e ‘consolazione’, e comunica un pudico affetto sponsale, traboccante devozione. E Maria, la figlia, anche lei desiderata e insperata, e offerta a Dio per Tempio – parla ancora il Protevangelo – nella verginità. Sceglie decisiva la sua vita, accentua, rispetto alla madre bramosa di prole, il suo irrevocabile “faccia di me secondo la tua parola” (faciat me secundum verbum tuum), pressoché inaudito di una verginità in sintonia con l’assoluta iniziativa divina con la nascita del figlio di Dio senza concorso d’uomo. Se pertanto la figlia assume nell’integrità verginale la maternità fisica, – nel Protevangelo è una delle più antiche testimonianze della verginità in partu e peraltro in parto senza doglie -, Anna, come l’antica Sara, assurge a matriarca, ultima a garantire la discendenza fisica, abramitica, del Figlio di Dio che è figlio dell’uomo.

Da queste premesse è quanto mai logico che nel prosieguo della sua leggenda agiografica, sant’Anna succeda alla ‘bugiarda pronuba’ (Manzoni) per mostrare poi nell’iconografia la piena umanità del divino Nipote. Sono sviluppi successivi, ma impliciti negli antichi documenti. Penso in particolare al Protevangelo, fatto conoscere dall’erudizione fiorentina: del papirologo Ermenegildo Pistelli (Protovangelo di Jacopo. Prima traduzione italiana con introduzione e note. Segue un’appendice dello Pseudo Matteo, Lanciano 1920.1929), di don Giuseppe Bonaccorsi (Vangeli apocrifi, Firenze 1948) e di don Enrico Bartoletti (Postilla al testo, in Sant’Anna dei Fiorentini …, pp. 69-73). Pertanto congiunture storiche che sembrano ancor più unite nel patrocinio della santa Anna con la nostra Firenze (Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di Anna Lenzuni, Bologna 2004, con Manfredo Manfredi, Elena Giannarelli, Carlo Nardi, Paolo Carrara, Laura Bocciolini Palagi, Paolo Sacchi, Paolo Marrassini; C. Nardi, Mario Naldini e la papirologia, in I papiri letterari cristiani. Atti del convegno internazionale di studi in memoria di Mario Naldini a dieci anni dalla sua scomparsa. Firenze, 10-11 giugno 2010, a cura di G. Bastianini e A. Casanova, Firenze 2011, pp. 1-20). Ed ora due o tre parole: Sant’Anna / di Giovacchino sposa, / madre della Madonna, / [e] nonna del buon Gesù. Sono detti d’una mia parrocchiana, la Sira. Ho sentita dire l’anno passato, quando la canicola era assolata e assetata. Si desideravano le piogge, ma tuttavia … ‘che Dio ce la mandi bona e senza vento’. Dopo i calori, ecco, una qua e una là, le burrasche di sant’Anna verso il ventisei luglio, la festa appunto di sant’Anna e san Gioacchino.

Tant’è che il Padre Eterno la festa l’aveva voluta, e in cielo e in terra. In terra per noi. E se noi umani furono creati da lui, pieni di cose buone e belle, mi fa pensare, ancor di più, che proficuo è ragionare con i nostri Santi coniugi (cf. C. Nardi, ‘Inchiesta su Maria’ di Corrado Augias e Marco Vannini. Note di lettura, in Rivista di ascetica e mistica 39 [Vita cristiana 83], 2014, pp. 857-880).




La religione capitalistica

download1di Alessandro Clemenzia · In una situazione come quella odierna, in cui la quarantena sta obbligando la maggior parte delle persone a cambiare radicalmente il proprio stile di vita, si può insinuare una grande tentazione dietro la buona intenzione di impegnare bene il tempo: non lasciare alcuno spazio vuoto nella giornata. Eppure, nel momento in cui le normali attività vengono meno, l’attenzione dal “fare” può essere spostata al proprio “essere”, e a tutto ciò che lo condiziona. Non solo: ci viene offerta la possibilità di guardarci attorno e vedere cosa, individualmente e comunitariamente, ci afferra e cattura oppure ci genera alla libertà.

Da pochi mesi è uscito un saggio di Luigino Bruni, intitolato Il capitalismo e il sacro (Vita e Pensiero, 2019), che invita a riflettere non soltanto sui grandi sistemi che muovono il mondo, ma anche su un dinamismo esistenziale che ormai fa parte della nostra quotidianità e che è entrato nel meccanismo scontato delle tante abitudini.

Evitando di cadere nello sterile ottimismo di chi si sforza di vedere il positivo dove esso non c’è o – come bravi profeti di sventura – di puntare il dito contro tutto ciò che ci circonda, la realtà nella quale viviamo ha sempre un che di positivo: se non altro per il fatto che essa è la dimostrazione più evidente del fatto che esistiamo e che siamo vivi. Da questa consapevolezza deve nascere un giudizio vero sulla realtà, che chiede di conoscere e indagare il contesto in cui viviamo.

Oramai è un dato certo, al di là di ogni colorazione politica, che il capitalismo rappresenti una deriva antropologica per quella radicalità evangelica che tanti cercano ancora di perseguire. Si è spesso accusata la logica del mercato di voler obliare quella plurisecolare religiosità che ha in-formato la società e la cultura europea. Luigino Bruni nel suo testo mostra quale sia la logica religiosa che sottostà al capitalismo, il quale si presenta al credente non come abolizione del sacro, ma come idolatria, in quanto è una religione che si sta soppiantando, in modo molto veloce, al posto di quella precedente, assumendo di quest’ultima i suoi tratti caratteristici.

La strategia per realizzare questo piano è stata quella di «minare le comunità e isolare le persone trasformandole in individui» (p. 39), vale a dire di eliminare dai singoli quella tensione relazionale che li caratterizza per rinchiuderli in un’esistenza dove non c’è più posto per l’altro. E in questo il capitalismo è stato molto abile, in quanto non soltanto lo ha fatto davanti ai nostri occhi, ma spesso ci ha resi inconsapevolmente protagonisti: «Fino a qualche decennio fa nei mercati si scambiavano anche parole. In seguito, l’atto di consumo perfetto è diventato l’acquisto online, dove il prodotto mi raggiunge a casa senza che tra me e l’oggetto del desiderio si inserisca nessun altro essere umano (possibilmente neanche il postino)» (p. 39).cq5dam.thumbnail.cropped.1000.563

Il capitalismo – recuperando il pensiero del filosofo tedesco Walter Benjamin – ha un suo culto di una durata perenne, non ci sono infatti giorni feriali, e produce un costante senso di colpa; le liturgie ruotano attorno alla concessione di doni, come gli sconti.

A imitazione della Chiesa che tende sempre di più a mettere in luce e a vivere, nella sua autocoscienza, la dimensione comunionale, la religione del business «sta diventando comunitaria, superando anche la stagione del consumo individuale che fino a pochissimi anni fa sembrava essere il destino del nostro capitalismo» (p. 35). Siamo, infatti, nell’epoca capitalistica della post-sazietà, dove l’intento, una volta trasformata la persona in individuo, è quello di creare nuove forme di comunità. L’importanza data all’individuo era solo una fase intermedia per arrivare a un consumo comunitario: «il mercato del futuro sarà sociale e pieno di storie collettive» (p. 41).

E come l’annuncio del Vangelo è una forma essenziale della natura e della missione della Chiesa, così il marketing del XXI secolo si appoggia al fenomeno narrativo dello storytelling, che incanta il consumatore, attivando in lui emozioni, desideri e bisogni, per arrivare a una sua manipolazione. Come il cristianesimo è un’esperienza totalizzante, così anche il capitalismo chiede tutto ai lavoratori, promettendo il paradiso della carriera. Il sacrificio, fondamentale per il culto ebraico e per quello cristiano, esiste anche per le grandi imprese globali: è ciò che viene costantemente domandato ai lavoratori.

La parola “gratuità” è il grande tabù del capitalismo, in quanto le relazioni ideali si fondano sul contratto e sullo scambio commerciale: se le imprese, infatti, lasciassero i lavoratori seguire in modo gratuito le loro doti personali, esse non riuscirebbero più a controllare le azioni finalizzate agli obiettivi aziendali. Per soddisfare ciò che il cuore dell’uomo desidera maggiormente vengono comunque offerte “piccole dosi” di dono (che Bruni denomina “il dono omeopatico”), perché possano sostituirsi al vero dono; per cui, ad esempio, «invece di mettere in discussione la quantità insostenibile di voli aerei, le compagnie aeree ci dicono che pianteranno alcuni alberi per ‘rimediare’ all’inquinamento prodotto col nostro volo» (p. 65). Il dono viene trasformato in incentivo: mentre la dinamica del primo genera reciprocità asimmetriche tra colui che dona e colui che lo riceve e a sua volta ridona, l’incentivo è un contro-dono parziale che l’impresa fa al lavoratore, è un premio finalizzato al contratto, che «mira a chiudere un rapporto senza lasciare posizioni aperte di debito e credito» (p. 69).

Il testo di Luigino Bruni è una seria presa di posizione davanti ciò che accade davanti ai nostri occhi, e mostra come il peggiore avversario della fede non sia l’economia, che per la Scrittura è qualcosa di assolutamente serio, ma l’idolatria, che nelle diverse circostanze cambia volto e nome, ma rimane sempre se stessa.




Il massacro del 1937 dei cristiani in Etiopia

51btoZWebBLdi Giovanni Pallanti · Pochi conoscono, nei nostri tempi, la strage di Debre Libanos avvenuta nel 1937 .A questo grave crimine di guerra dell’Italia in Etiopia ha dedicato un bel libro Paolo Borruso “Debre Libanos 1937” Editori Laterza. Scrive Borruso nella introduzione: “ il 9 maggio 1936 Mussolini proclamò finita la guerra di conquista dell’Etiopia: anche l’Italia al pari di altre potenze aveva finalmente il suo impero coloniale in Africa. Ma sul terreno etiopico gli esiti del conflitto furono ben diversi. Il governo fascista dovette fare i conti con una opposizione decisa a difendere ad ogni costo il Paese. Fu in questa fase post-bellica che il Maresciallo Rodolfo Graziani, nominato Vicerè di Etiopia, mise in atto un azione repressiva rivolta non solo contro le formazioni partigiane etiopiche ma in particolare contro le popolazioni civili di fede cristiana. Il numero di vittime salì in maniera esponenziale nei primi mesi del 1937, in seguito all’attentato da lui subito nel febbraio, dove rimase gravemente ferito, con l’esecuzione dei monaci di Debre Libanos ritenuti conniventi con i due giovani attentatori che lanciarono delle bombe a mano contro Rodolfo Graziani durante una celebrazione civile e religiosa. Fu un massacro pianificato che raggiunse l’apice tra il 20e il 29 maggio facendo migliaia di vittime.”

Graziani diretto responsabile di quel massacro, ricorda Paolo Borruso, finì la propria carriera militare a Salò come comandante dell’esercito di Mussolini e, dopo la seconda guerra mondiale fu  presidente onorario del Movimento Sociale Italiano (MSI)

Il massacro di Debre Libanos non fu semplicemente una vendetta contro il clero copto perchè sostenitore dell’Imperatore Hailè Selassiè ma bensì contro uno dei pilastri dell’identità etiopica come ultimo impero cristiano d’Africa. Furono uccisi tre vescovi e oltre 2000 tra preti, monaci, diaconi e pellegrini cristiani e poi fu scatenata una guerra di sterminio contro la popolazione amhara tutta cristiana usando le truppe coloniali italiane di origine musulmana somale, libiche e in parte eritree.

L’azione del governo coloniale fascista fu per alcuni aspetti anche rispondente agli interessi della Chiesa etiopica: i Ministri dell’Africa italiana Lessona e Teruzzi trattarono per l’autocefalia della Chiesa cristiana copta abissina dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto.

Riuscendo in questa impresa recuperarono parzialmente buoni rapporti con i vesvovi, il clero e i monaci abissini che erano scampati alle rappresaglie di Graziani e del suo braccio destro Generale Maletti che comandò le truppe coloniali italiane responsabili dell’eccidio del maggio 1937.

La Chiesa Cattolica in Abissinia dopo una dura opposizione all’invasione italiana per merito dell’allora vicario apostolico di origine francese, tentò di approfittare della repressione della Chiesa Cristiano Copta voluta dal vicerè  Rodolfo Graziani per portare quelli che venivano considerati degli “eretici” nella Chiesa Cattolica. I ministri del governo Mussolini, più intelligenti degli esponenti cattolici d’origine italiana presenti in Etiopia nel periodo coloniale, si opposero a questo tentativo chiedendo al Papa Pio XI di richiamare in Italia Mons. Castellani massimo teorico della fusione tra copti e cattolici. La Chiesa etiopica una volta ottenuta l’autonomia dal Patriarcato copto di Alessandria, a tutto pensava fuorchè a diventare cattolica, anche perchè molti vescovi cattolici italiani avevano spudoratamente appoggiato l’impresa coloniale di Mussolini che suscitò una dura condanna internazionale isolando politicamente ed economicamente l’Italia. Il Governo Mussolini , dopo aver proclamato Imperatore d’Etiopia Vittorio Emanuele III, chiese il rimpatrio, come si è detto, di Mons Castellani. Il segretario di Stato Vaticano Cardinale Eugenio Pacelli si oppose alla richiesta convinto anche lui che bisognava tentare di far diventare i cristiani copti, (l’evangelizzazione dell’Etiopia e la nascita della Chiesa Copta risaliva al IV secolo d.c.) cattolici inguaiando ulteriormente la presenza dell’Italia fascista in quella Nazione. Non c’è commento alla cecità e alla insensibilità, in quel periodo storico, anche ecclesiale del Cardinale Pacelli.Brunelli-Lucio

Alla strage di Debre Libanos ha dedicato anche un fondamentale studio lo storico Ian Campbell che ha reso con i suoi studi di dominio internazionale i crimini di guerra degli italiani in Etiopia.

Il libro di Borruso è una ricerca storica italiana, pubblicata con la prefazione di Andrea Riccardi, che fa onore a uno storico cattolico che ha voluto studiare e documentare una tragica pagina nei rapporti tra Italia, Chiesa Etiopica e Chiesa Cattolica.

Hailè Selassiè tornò sul trono di Etiopia nel 1941 grazie all’esercito inglese e ai partigiani etiopici. L’imperatore Selassiè mantenne un rapporto di clemenza cristiana nei confronti degli invasori italiani parlando più volte di perdono e di evitare vendette contro chi aveva fatto del male agli etiopici.