La funzione pedagogica della legge

 di Andrea Drigani • Sant’Isidoro di Siviglia, l’ultimo Padre della Chiesa Latina, vissuto nel VII secolo, dà una definizione di legge umana che verrà poi ripresa da San Tommaso d’Aquino, circa seicento anni dopo, nella quale si dice che la legge umana (cioè la legge posta dalle autorità civili) deve essere: «onesta, giusta, possibile secondo la natura e le consuetudini del paese, proporzionata ai luoghi e ai tempi». La legge deve essere onesta, cioè in armonia con la legge divina, giusta cioè conforme alla legge naturale, possibile cioè a vantaggio della salute pubblica, in quanto adatta agli uomini di quel tempo e di quel luogo. San Tommaso è uno dei primi a sostenere la funzione pedagogica della legge, perché la legge ha il fine di condurre gli uomini alla virtù (homines inducere ad virtutem), assicurando quel minimo indispensabile di moralità che renda possibile una quieta e pacifica convivenza umana («Poiché non mancano ribelli e soggetti inclinati al vizio, che non si lasciano muovere facilmente dalle parole, era necessario ritrarli dal male con la forza e col timore, affinchè desistendo dal mal fare, rendessero quieta agli altri la vita»). San Tommaso inoltre precisa che: «L’intenzione del legislatore è di rendere virtuosi i cittadini. Ma non si può essere virtuoso se non si astiene da tutti i vizi. Dunque la legge umana deve reprimere tutti i vizi». Il Dottore Angelico da un’ulteriore e saggia indicazione di politica legislativa, quando osserva che: «La legge umana mira a condurre gli uomini alla virtù non d’un solo colpo, ma progressivamente, gradatamente (non subito, sed gradatim) e perciò non impone immediatamente a una massa di persone imperfette cose riservate a persone già virtuose, come l’astensione di ogni male. Altrimenti questa gente imperfetta, nell’incapacità di osservare una legge simile, cadrebbe in mali maggiori». Si è visto che la legge umana è in ordine alle virtù. Ma di quali virtù si tratta? Di quelle che si chiamano le virtù cardinali (in quanto cardini dell’esistenza umana) o anche virtù morali o virtù naturali che sono quattro: la fortezza, la temperanza, la giustizia e la prudenza. Queste virtù sono largamente presenti nella cultura precristiana in particolare nell’Antica Grecia (Pitagora, Platone e soprattutto Aristotele). La dottrina della Chiesa, in special modo con San Tommaso, le ha accolte, cioè le ha fatte proprie (Gratia non tollit naturam, sed perficit), insieme alle tre virtù teologali o soprannaturali: fede, speranza e carità, che ci vengono infuse a cominciare dal Sacramento del Battesimo. E’ evidente, allora, che la funzione pedagogica della legge umana è in riferimento solo alla promozione delle quattro virtù cardinali. Una legge che non avesse una funzione pedagogica, sarebbe antipedagogica, cioè diseducativa (homines inducere ad vitia) poiché rende viziosi i cittadini. L’alternativa, anche per un legislatore, è tra educare o diseducare, non esiste una posizione neutra (tertium non datur), non si può presumere di stare fermi, poichè l’accidia o pigrizia è un vizio.  Le considerazioni sulla funzione pedagogica della legge si possono estendere a tutti coloro che, in vario modo, esercitano la potestà politica e amministrativa. Il fondamento, infatti, che giustifica la potestà politica ed amministrativa, a qualsiasi livello, è uno solo: il «bene comune». Per San Tommaso il bene è il fine delle singole persone esistenti in una comunità (Bonum commune est finis singularam personarum in communitate existentium) e precisa che: «Lo scopo infatti che spinge le persone umane a riunirsi è che stando insieme possono condurre una vita buona. A sua volta però la vita si dice buona quando è ispirata alla virtù. La conclusione, dunque è che il fine dell’unione in cui si stringono gli uomini è la vita virtuosa. Una conferma concreta sulla validità di questa dottrina la troviamo nella constatazione che della società fanno parte soltanto coloro che hanno un forte rapporto comunitario proprio con la vita buona : altrimenti, se gli uomini si radunassero soltanto allo scopo di vivere, anche gli animali costituirebbero una parte del raggruppamento civile; se invece lo scopo fosse quello di accumulare beni di fortuna, tutti coloro che hanno tra di loro rapporti di mercato, apparterrebbero alla stessa città; così vediamo che vengono annoverati come facenti parte di una società soltanto coloro che sono  guidati  a una vita buona dalle medesime leggi e da un unico governo». Pertanto tutti quelli che ricoprono, in qualunque grado, incarichi nelle istituzioni nazionali o locali, poiché chiamati ad operare per il bene comune, svolgono anche una funzione pedagogica, in caso contrario, non operando per il bene comune, si compiono azione diseducative.




L’opzione preferenziale per i poveri nel magistero sociale della chiesa

di Leonardo Salutati • Nel momento in cui il magistero della Chiesa è chiamato a pronunciarsi con la sua Dottrina sulla questione sociale e sulle questioni sociali che, con nuove ed inedite modalità, si presentano nella società, l’invito biblico e tradizionale a prendersi cura del “povero” è ulteriormente sviluppato e arricchito. Nella Rerum novarum del 1891, al n. 29 si ricorda che lo Stato nel tutelare debitamente i diritti, deve esercitare una opzione preferenziale per i poveri e per i deboli, i quali più di tutti hanno bisogno di essere sostenuti dallo Stato.

Secondo quanto riportato quaranta anni dopo da Quadragesimo anno al n. 13, nel 1931, in un contesto di forte liberalismo economico, Rerum novarum apparve scandalosa proprio per affermazioni di questo tenore. La stessaQuadragesimo anno però si impegna a sua volta in una dura analisi della situazione “classista”, denunciando la volontà dei ricchi di lasciare solo alla carità la soluzione del problema della povertà, in modo da non riconoscere alcun compito attribuibile allo stato (QA 4 ss.)

Pio XII nel Radiomessaggio del 1 settembre 1944, esprime un duro giudizio sul concetto di proprietà. Egli afferma che quando il capitalismo si arroga un diritto illimitato sulla proprietà, sconvolgendo e dominando l’economia, generando il concentrarsi della proprietà in soggetti limitati, sottraendosi ai propri doveri sociali e privando altri della necessaria disponibilità di beni, promuove un concetto assoluto di proprietà da ritenersi come contrario alla legge naturale:

Nel 1961 Giovanni XXIII con Mater et magistra interviene a sua volta perché è preoccupato dei poveri e perché la Chiesa, coerentemente con la sua dottrina, difende i diritti dei poveri (MM 2 e 9). Questa sollecitudine per i poveri accompagnerà Giovanni XXIII fino alla fine. Infatti, nell’indire il Concilio Vaticano II, cui aveva assegnato il compito di rimettere in luce l’autentica missione della Chiesa, la volle direttamente proporre al mondo nel messaggio teletrasmesso l’11 settembre 1962: «Il Concilio dovrà contribuire alla diffusione del senso sociale e comunitario che è immanente nel cristianesimo autentico. Solo così la Chiesa potrà presentarsi come la Chiesa di tutti, ma anzitutto come la Chiesa dei poveri».

Nel 1967 la Populorum progressio di Paolo VI ribadisce, arricchendolo ulteriormente, il tradizionale insegnamento cristiano in tema di economia; invita esplicitamente ad abbassare il livello di vita dei ricchi per aiutare i poveri; denuncia l’idolatria del mercato e la riduzione dell’uomo alla sola dimensione economica, manifestando tuttavia fiducia nell’uomo anche contro l’apparente evidenza di una certa ineluttabilità nel processo storico (PP 22; 23).

Nessun popolo può … pretendere di riservare a suo esclusivo uso le ricchezze di cui dispone. … Di fronte alla crescente indigenza dei paesi in via di sviluppo, si deve considerare come normale che un paese evoluto consacri una parte della sua produzione al soddisfacimento dei loro bisogni (PP 48).

Una cosa va ribadita di nuovo: il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri. … I ricchi saranno del resto i primi ad esserne avvantaggiati. Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le civiltà attualmente fiorenti finirebbero coll’attentare ai loro valori più alti, sacrificando la volontà di essere di più alla bramosia di avere di più (PP 49).

Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis del 1987, nel richiamare che la tradizione della chiesa ha sempre scorto nel lavoro umano una finalità trascendente in quanto è in relazione all’opera stessa di Cristo ricorda che:

Fa parte dell’insegnamento e della pratica più antica della Chiesa la convinzione di esser tenuta per vocazione – essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri – ad alleviare la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo col «superfluo», ma anche col «necessario». … Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino; al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo. Come si è già notato, ci viene qui indicata una «gerarchia di valori» – nel quadro del diritto di proprietà – tra l’«avere» e l’«essere», specie quando l’«avere» di alcuni può risolversi a danno dell’«essere» di tanti altri. (SRS 31).

Da notare, di passaggio, l’arricchimento del concetto di proprietà che, pensato nel quadro di una gerarchia di valori tra l’avere e l’essere, denuncia il degrado dell’essere della persona quando si assolutizza l’avere invertendo il fine, la promozione dell’uomo, con il mezzo, i beni e la ricchezza a disposizione.

In conclusione non è una novità, ma anzi appartiene alla più antica tradizione cristiana l’affermare di Papa Francesco di volere una chiesa per i poveri, attenta ai bisogni del povero, e una chiesa povera, che si pone come istanza critica di ogni separazione tra gli uomini, nella rinuncia esplicita di ogni tentativo di costituire una casta privilegiata e con la coscienza di appartenere pienamente alla famiglia umana, anzi di esserne il fermento, così come insegna il Concilio Vaticano II inGaudium et spes:

La Chiesa, che è insieme “società visibile e comunità spirituale”, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio (GS 40).




L’Europa stanca e smarrita deve ritrovare la sua anima solidale

di Antonio Lovascio • Che cosa ha da offrire al mondo ed a se stessa l’Europa di oggi, che ha scordato la solidarietà  ? E’ giusto che anche  la Chiesa, sorgente di spiritualità e speranze,  si interroghi, a partire dai laici, spronati da Papa Francesco. Senza mezzi termini Bergoglio  l’ha definita “stanca”; per questo “va aiutata a ringiovanirsi, a ritrovare le sue radici” e a ridisegnare il suo destino nel Terzo Millennio. Stanca e divisa, anche a livello di popoli. Lo si percepisce esaminando attentamente la “geografia “ che il voto del 25 maggio  ci ha consegnato, creando più problemi di quanti ne possa risolvere. Colpisce soprattutto (con la disaffezione che ha portato ai seggi solo un terzo degli elettori a Londra, meno della metà a Parigi ed il 58 per cento in Italia)  il contrasto, la disunione tra i vari Paesi della Ue: se in Germania – capofila delle politiche di rigore ed unica ad averne  beneficiato – le forze europeiste tutto sommato tengono, pur arretrando di qualche punto,  in Francia un autentico tsunami porta il “Front National”  anti-europeista ad essere il primo partito, capace di coagulare un quarto dell’elettorato andato alle urne. In Gran Bretagna l’Ukip – nato da una scissione dei Tory – surclassa conservatori e laburisti in nome del no all’Unione, mentre i partiti ostili all’Europa avanzano ovunque, dall’Austria alla Danimarca. E questi gruppi, che a testa bassa, senza sentir ragione,  si battono demagogicamente per il ritorno alle monete e alle sovranità nazionali,  trovano entusiastico ascolto e sostegno anche nella nostra Penisola: all’Europarlamento  Grillo (il più votato dopo il Pd di Renzi)  ha stretto un patto di ferro – pur contestato dalla base del M5S – con Nigel Farage, duro contro l’ingresso sul suolo inglese di nuovi stranieri – anche comunitari –  populista ma “aperto” su droghe leggere e matrimoni gay. Mentre i pasdaran della Lega, rilanciata da Matteo Salvini, hanno addirittura stipulato un’alleanza con Marine Le Pen,  “campionessa” francese dell’ideologia razzista e delle teorie protezioniste.   Perché questo cataclisma ? Perché i partiti tradizionali e le ultime Commissioni esecutive di Bruxelles  non hanno saputo aggredire e dare risposte concrete alla crisi che ha investito il Vecchio Continente, facendolo apparire ancora più fragile all’interno del “Villaggio Globale”.  Così via via l’Europa ha perso – come non condividere le  lucide analisi fatte su “Il Sole-24 Ore” dal cardinale Angelo Scola e  dal vescovo teologo Bruno Forte ? – la sua anima solidale: la crisi è morale e spirituale, prima che economica e politica! Un avvertimento Papa Francesco l’aveva già lanciato nel luglio 2013 da Lampedusa, tuonando contro l’indifferenza e  la logica del “dio denaro” che guida l’economia mondiale ed è  all’origine delle ormai quotidiane tragedie degli immigrati in fuga dalle guerre e dai regimi oppressori. E lo ha ribadito nelle scorse settimane, stavolta in modo più specifico, definendo una “barbarie” il fatto che  75 milioni di giovani europei con meno di 25 anni siano senza lavoro,  con un tasso di  disoccupazione che in alcuni Paesi supera addirittura  il 50 per cento.   Non meno carichi di vigorosa denuncia  erano stati i moniti lanciati dai predecessori, Giovanni Paolo II  (nella sua prima enciclica sociale e in un altro contesto internazionale) e poi Benedetto XVI. <L’economia non funziona solo con un’autoregolamentazione di mercato, ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare in favore del l’uomo>. Papa Ratzinger nell’estate del 2011 a Madrid era stato ancor più esplicito, affermando che “la disoccupazione e la crisi di fiducia nel futuro, che tanto toccano  i giovani, hanno la loro radice ultima in un male morale e nella diffusione di diverse forme di corruzione”. Quindi se queste generazioni non trovano prospettive nella loro vita,  la Chiesa con la sua dottrina deve indicare le strade che portano a rinunciare al massimo del profitto per assicurare giustizia sociale e lavoro a tutti.   Il Magistero ecclesiale può sicuramente aiutare a vincere gli egoismi nazionali e personali, a ricostruire quell’identità che è andata gradualmente scolorendo.  Ma  soprattutto l’esito delle elezioni dovrebbe fungere da elettrochoc positivo, una sveglia impietosa per i leaders di tutta Europa, il cui futuro è più che mai  in bilico: o si cambia o ci si rassegna ad un ulteriore, inarrestabile declino.  Un ruolo importante  – stavolta da protagonista – avrà l’Italia, che dal primo luglio ha assunto  con il premier Renzi la presidenza dell’Unione. Nei prossimi sei mesi, proprio in questo delicato compito di propulsione e  mediazione,  potremo misurare il suo spessore politico:  vedremo se saprà riproporre e ricreare quell’”anima solidale” che si è evaporata come neve al sole all’inizio del Duemila, a  partire dalle sue motivazioni più profonde. Al centro dell’ispirazione dei Padri fondatori dell’Europa unita (non a caso statisti di profonda fede religiosa ed allo stesso tempo di elevata laicità nell’azione politica, quali furono Adenauer, De Gasperi e Schuman) c’era infatti un’idea chiave, un “progetto” maturato nell’alveo della tradizione cristiana: quello di immettere in termini rigorosi nella società plurale del Vecchio Continente una scommessa, tanto affascinante quanto ultimativa: gli uomini non sono solo uguali, ma responsabili gli uni degli altri. Liberi delle proprie scelte, costruttori della propria storia, dotati di una dignità unica, che deve essere riconosciuta e rispettata dagli Stati, dalle comunità civili e religiose e dai i singoli.   Accanto a questa pietra miliare, certo, ci stanno le due priorità invocate dagli europei: l’occupazione e la crescita. Per realizzarle, l’Unione deve però recuperare l’antica saggezza, per essere più aperta, flessibile e competitiva. Serve una leadership autorevole (lo sarà il lussemburghese  Jean-Claude Juncker, fortemente voluto dalla Merkel?) , che sappia dare ascolto ai governi, alle preoccupazioni delle famiglie, degli elettori ed anche di chi,  per protesta, ha disertato le urne. Una guida non sottomessa agli interessi dei Paesi più forti – Germania in primis –  che affronti con coraggio ed equilibrio  le sfide che attendono l’Europa, ora smarrita e intrappolata dalla sua burocrazia, schiacciata da una spesa pubblica insostenibile, da leggi che ne limitano l’espansione economica.




Prospettiva ecclesiale della tutela del diritto alla buona fama (cann. 220; 1390 §2)

di Francesco Romano • Il diritto alla buona fama è connesso con la natura dell’uomo come ius nativum. Il Legislatore canonico enuncia questo diritto al can. 220 del Codex estendendolo a “chiunque”, anche se non cattolico o non battezzato, e lo inserisce nel contesto di una normativa compresa tra i cann. 208-223 che delinea i rapporti all’interno di una realtà ecclesiale vista come comunione.

La dignità dell’uomo viene coronata da una dimensione di onorabilità con l’ammissione ricevuta da Dio ad essere partecipe della stessa che Lui possiede, specie in forza della rigenerazione in Cristo.

Il cristiano, poi, essendo creatura di Dio e unito a Cristo che è la Verità rivelata, ha come esigenza la radicale adesione al supremo comandamento dell’amore e alla verità secondo l’insegnamento pratico sia il vostro parlare sì, si; no, no. Il di più viene dal maligno. L’amore per la verità e per il prossimo si oppone alla falsificazione della rappresentazione della realtà che può sfociare nella calunnia, nell’adulazione, nella falsa testimonianza e nel giudizio temerario.

Nel pensiero di S. Tommaso la fama che possiede l’uomo rientra tra i beni temporali più preziosi. Infatti, le qualità fisiche, morali e sociali generano risonanze nella persona che le detiene, dandole la percezione soggettiva della propria dignità e il senso dell’onore.

La buona fama del cristiano è un bene temporale prossimo ai beni spirituali e include, oltre alle qualità umane, le virtù cristiane, l’integrità della fede, la permanenza della comunione del fedele con la Chiesa e con Dio.

La diffamazione ha come base la violazione della legge della creazione e della redenzione e costituisce un vulnus per il bene comune della Chiesa.

La diffamazione tende a compromettere la posizione del fedele nel Corpo sociale della Chiesa e a menomare il suo status giuridico fondato sul battesimo. Viene compromessa anche l’immagine e la credibilità della Chiesa nell’agire dei suoi componenti con la perdita della bona existimatio, e, infine, la salus animarum di chi delinque e di quanti, attratti dal vortice scandalistico, si associano nello stesso delitto contrario alla carità e alla verità.

La tutela penale del diritto alla buona fama non si ferma al diritto reclamato dal soggetto passivo della diffamazione.

L’ordinamento canonico non può che offrirci una prospettiva ecclesiale in tema di tutela del diritto alla buona fama perché la restaurazione della comunione ecclesiale deve coincidere con la restaurazione dell’ordine della carità che è stata violata. Per questo l’irrogazione della pena non avrebbe alcun senso e valore se non si tenesse conto della finalità salvifica di quanti necessitano di essere reintegrati nella comunità come membra vive della Chiesa.

Società e delinquente rientrano in un unico progetto di restaurazione della comunione in cui l’emendamento del reo segna il reinserimento nel Corpo della Chiesa di un suo membro.

Si comprende, pertanto, perché l’attenzione al reo di diffamazione sia centrale nella prospettiva pastorale del Legislatore. Al diritto di ogni uomo di vedersi tutelata la buona fama di cui “chiunque” gode (can. 220), corrisponde la sanzione penale prevista dal can. 1390 §2 per chi, soggetto all’ordinamento canonico (can. 11), viene meno a questo dovere.

Il danno provocato dal delitto di diffamazione travalica la sfera meramente privatistica della parte offesa per entrare nella dimensione giuridica che attiene all’interesse pubblico della Chiesa.

Il processo penale, benché sia considerato l’extrema ratio, è finalizzato alla restaurazione dell’ordine della carità e della comunione ecclesiale. Al contrario, il ristoro del danno arrecato alla parte offesa, essendo di natura privatistica, può essere reclamato da questi in modo facoltativo e si risolve con un’azione contenziosa prevista dal can. 128, non essendo più contemplato come sanzione penale già inscritta nel Codex previgente del 1917.

In definitiva, l’esistenza di tutta la normativa che ha per oggetto la “buona fama” attesta la volontà del Legislatore canonico di apportare strumenti giuridici sempre più idonei in ordine alla realizzazione del bene comune della Chiesa.




Le virtù e la confessione dei peccati

di Gianni Cioli • Nella riflessione teologico morale recente, anche sotto lo stimolo dei dibattiti etico filosofici registratisi negli ultimi anni, è maturato un crescente interesse per l’etica delle virtù. A giudizio di autori significativi un recupero della prospettiva delle virtù, tipica del pensiero antico e medievale, sarebbe opportuno di fronte agli emergenti limiti della morale moderna che privilegia la categoria del dovere e l’elaborazione di un etica normativa. Talora si è messo in evidenza che quella delle virtù potrebbe definirsi un’etica della prima persona, che privilegia il punto di vista del soggetto agente, mentre quella del dovere sarebbe piuttosto da considerare un’etica della terza persona che privilegia il punto di vista dell’osservatore, del legislatore e del giudice.  Si tratta in realtà di due prospettive complementari che la teologia morale dovrebbe impegnarsi ad integrare.

Un rinnovata attenzione alle virtù potrebbe fra l’altro avere ricadute interessanti e stimolanti sulla celebrazione del sacramento della penitenza, ponendo sotto una nuova luce gli atti del penitente come pure l’opera di discernimento che il confessore deve compiere sulla confessione dei peccati.

Una preparazione al sacramento nell’orizzonte della morale delle virtù, senza negare l’utilità di un confronto con i comandamenti, potrà essere di aiuto al penitente a ponderare meglio le proprie disposizioni interiori da cui i comportamenti esteriori scaturiscono e a lavorare su di esse con l’obiettivo di una conversione sincera. Un esame di coscienza elaborato nell’orizzonte delle virtù non si accontenta di enumerare le trasgressioni ma intende andare alla radice di queste, per riconoscere le disposizioni da cui le azioni sbagliate sono scaturite e potranno verosimilmente continuare a scaturire se non si opera una guarigione interiore. La prospettiva delle virtù aiuta ad interpretare la gravità, ovvero il peso dell’atto, non in se stesso ma all’interno del significato di un vissuto che dovrebbe essere risposta alla chiamata di Dio. Nell’orizzonte delle virtù si prospetta forse meglio la serietà dei peccati di omissione ed acquista un’importanza fondamentale la cura della spiritualità che non può ridursi a una serie di pratiche ma deve essere intesa come la verità profonda del nostro stare di fronte a Dio e, quindi, a noi stessi, al nostro prossimo e all’ambiente che ci circonda.

Per entrare nello specifico, un esame di coscienza strutturato sulle virtù dovrebbe partire dalle teologali, fede speranza e carità, per favorire nel penitente il desiderio di crescere in quell’atteggiamento di fiducia e di amore che si colloca nel cuore del messaggio evangelico: «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).L’esame dovrebbe poi svilupparsi nel confronto con le virtù cardinali.Si dovrà considerare innanzitutto la prudenza come disposizione a ricercare, nel discernimento, la migliore risposta concreta alle esigenze che derivano dalla vita teologale e in particolare dalla carità. Le esigenze dell’amore implicheranno, d’altro canto, la cura della giustizia quale disposizione a riconoscere i diritti dell’altro e a partecipare con spirito di servizio alla vita sociale. La volontà di giustizia richiederà a sua volta la fortezza, ovvero la disposizione al coraggio di affrontare tutti gli ostacoli, i rischi e le fatiche che l’impegno per il bene trova inevitabilmente sulla propria strada. Infine, la ricerca di ciò che è buono e giusto farà anche appello alla temperanza quale capacità di riconoscere, gestire, educare e valorizzare le tendenze, le pulsioni e le passioni, legate normalmente a una qualche forma di piacere, che stanno a servizio della vita umana ma che possono diventare distruttive e ingenerare dipendenze quando non vengono moderate e ordinate.Come si comprende, si tratta di un materiale molto vasto e potenzialmente fecondo. Si può forse suggerire, ai penitenti ben disposti e interessati a confessarsi con regolarità, di prendere in esame una virtù per volta, cominciando ad esempio dalla fede e di incentrare la confessione su quella.




Quell’insopprimibile desiderio d’immortalità

di Stefano Liccioli • «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Sono parole di Aldo Moro scritte in una lettera indirizzata alla moglie Eleonora quattro giorni prima di essere ucciso. Mi ha sempre fatto riflettere che lo statista democristiano mettesse a nudo, in maniera così semplice e diretta, il desiderio di sapere «come ci si vedrà dopo». Chissà quante volte avrà pensato alla morte nei suoi cinquantacinque giorni di prigionia e che sincerità nel confessare che «se ci fosse luce sarebbe bellissimo». Moro, il credente, il cristiano che come ultimo desiderio del condannato chiede ai suoi carcerieri (e da lì a poco carnefici) di ascoltare la Messa, esprime la desiderabilità della vita eterna, un aspetto che non può essere marginale nella fede.

A nessuno piace morire o meglio a nessuno piace pensare che la propria vita finisca nel nulla, neanche ad un ateo che però non riesce ad ammettere ciò che la ragione non osa sperare. A tal proposito significativa la riflessione dell’umanista Settembrini  che ne’ “La Montagna incantata” di Thomas Mann considera la cremazione come un modo per rispondere all’umano bisogno di durare nel tempo, la cenere come parte imperitura dell’uomo.

La mia convinzione è che il bisogno di vivere in eterno sia un’esigenza connaturata agli uomini e le donne, riluttanti (e quasi disgustati) all’idea della morte. A sostegno di questa mia tesi porto il pensiero di Miguel de Unamuno, filosofo e scrittore spagnolo, morto nel 1936, all’alba della guerra civile. Celebre per essere l’autore dell’Agonia del Cristianesimo, Unamuno è un non credente, un ateo perseguitato dalla nostalgia della fede. Infatti per dimostrare che l’immortalità è una sete  insita nell’uomo, quale miglior metodo che prendere in considerazione un autore non riconducibile ad una fede definita che implichi l’accettazione di un Aldilà e quindi il credere in una sopravvivenza dopo la morte?

Unamuno sostiene che l’ansia di perpetuazione nasce dall’istinto più elementare di conservazione e costituisce un’esigenza inalienabile. E poco importa se la ragione nega tutto questo oppure non riesce a dimostrarlo. C’è una certezza d’ordine morale che ci fa dire che l’uomo desidera vivere in eterno e lo provano tutti quei surrogati d’eternizzazione come le imprese eroiche o la fama che però non sono la maniera giusta di concepire l’immortalità e non placano lo spirito frenetico di perpetuazione. In questa ottica Dio si presenta come ragione dell’essere di noi stessi e soprattutto garantisce la nostra immortalità e colma l’insufficienza di appagamento da parte delle realtà terrene.

In una lettera ad un amico che gli rimproverava, quasi fosse presunzione e orgoglio, la sua ricerca d’eternità Unamuno rispondeva in questi termini: «Non dico che meritiamo un Aldilà, né che la logica ce lo dimostri, dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Senza di essa non c’è più gioia di vivere…È troppo facile affermare: “Bisogna vivere, bisogna accontentarsi di questa vita. E quelli che non se ne accontentano?”. Non è chi desidera l’eternità che mostra di non amare la vita, ma chi non la desidera, dal momento che si rassegna così facilmente al pensiero che essa debba finire». Questa confessione così sincera, quasi gridata, è così umana, così rispondente al desiderio di tutti quello che “non si accontentano” e vogliono vivere per sempre. Quello di Miguel de Unamuno è un Dio “tappabuchi”, come direbbe Bonhoeffer? Forse sì, ma da un ateo, seppure inquieto, come Unamuno non possiamo pretendere di più. Ci basta che abbia messo in luce quanto l’esigenza d’immortalità sia connaturata all’uomo. La Rivelazione cristiana s’inserisce su questo dato antropologico. Illuminanti a tal proposito le parole, con cui concludo, della Gaudium et spes, quando al numero 18 parla del mistero della morte:«L’ uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’ istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’ eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore. Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l’ uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene».




«In Gesù Cristo il nuovo umanesimo». Note a margine del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze

di Francesco Vermigli • Come noto, nel novembre del 2015 si terrà a Firenze il quinto Convegno nazionale della Chiesa in Italia, intitolato «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo». Da molti mesi la macchina si è mossa, pubblicando già dall’ottobre scorso un «Invito» che nelle intenzioni del Comitato preparatorio ha l’obbiettivo di condurre i vari organismi della Chiesa a prendere coscienza dell’altezza delle questioni, che si celano al di sotto del titolo scelto.

Queste righe non hanno la pretesa – che sarebbe a dir poco bizzarra – di elencare quali dovrebbero essere, a giudizio di chi scrive, le priorità tra le problematiche che si addensano attorno alle parole “Gesù Cristo” e “nuovo umanesimo”. Vorremmo solo verificare se un luogo classico del magistero conciliare possa illuminare di una “luce nuova” il tema del “nuovo umanesimo”. Mi riferisco a Gaudium et spes, 22 che nella teologia è chiamato in causa ogni volta che le questioni cristologiche e antropologiche si intrecciano. Vi si legge: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo […] Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione». Parole dense e forti; chiare nel riconoscere l’ordinazione di tutto l’uomo a Cristo, prototipo dell’umanità. Chi voglia sapere come dovrebbe essere l’uomo, a quali orizzonti “sovrumani” sia chiamato, guardi a Cristo e alla rivelazione che nella propria vita Egli fa dell’Amore del Padre.

Eppure questo passo, giustamente celebre, deve essere integrato con il resto del numero 22 della costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. GS 22 dice più avanti: «In virtù di questo Spirito, che è il “pegno della eredità” (Ef 1,14), tutto l’uomo viene interiormente rinnovato, nell’attesa della “redenzione del corpo” (Rm 8,23): “Se in voi dimora lo Spirito di colui che risuscitò Gesù da morte, egli che ha risuscitato Gesù Cristo da morte darà vita anche ai vostri corpi mortali, mediante il suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11) […] la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale». Come si vede, la costituzione conciliare coglie questo punto: che noi siamo chiamati a conformarci a Cristo, ma che questa conformazione di fatto è totalmente nelle mani dello Spirito. Come potrebbe essere diversamente, se Gesù garantisce ai suoi discepoli che Colui che riceveranno, lo Spirito di verità, non dirà niente di diverso e di ulteriore a ciò che Gesù ha detto (cfr. Gv 16,14)? E come potrebbe essere – aggiungo ancora – che non sia lo Spirito stesso a intervenire, dal momento che la vocazione a cui è chiamato l’uomo è niente di meno che quella divina? Gesù non è venuto tra i “suoi” per insegnar loro ad essere uomini migliori, ad essere uomini in grado di attuare le potenzialità di una “natura umana”. Cristo è venuto a svelare che non c’è vocazione degna dell’uomo che la vita stessa di Dio: mirare a qualcos’altro sarebbe mirare troppo in basso e, in ultima istanza, sbagliare obbiettivo.

Cosa c’entra tutto questo con il Convegno ecclesiale? Apparentemente nulla. Ma credo potrebbe esser utile ricordarsi che se Cristo svela l’uomo all’uomo, per fede siamo chiamati anche a credere che lo Spirito è il motore, per così dire, implacabile del processo di realizzazione di quella altissima vocazione. Perché su questo punto si gioca la nostra immagine di Cristo e la conseguente immagine dell’uomo. Se percepiamo Cristo come l’uomo perfetto da contemplare, la nostra conformazione a Lui sarà mimetica: vale a dire che saremo portati a imitare i suoi comportamenti, a ridire le sue parole, come si conviene a chi cerchi di riprodurre un modello. Se invece la nostra vita si manifesta come disponibilità a farsi plasmare dallo Spirito, allora Cristo non sarà un Oggetto da guardare come fonte di insegnamento sull’uomo, ma sarà Colui che viene formato in ciascun uomo mediante lo Spirito. L’alternativa allora è tra cercare di conformarsi a Cristo mediante l’imitazione e lasciarsi conformare a Cristo mediante la trasformazione. San Paolo dice che solo nello Spirito possiamo esclamare “Gesù è il Signore!” (cfr. 1 Cor 12,3). Vale a dire che solo lo Spirito – Spirito di verità – può rivelare sia chi è Cristo sia chi è l’uomo stesso; nel momento in cui viene a formare con una dolcissima potenza l’immagine del Cristo in ciascuno. Ogni “umanesimo”, anche nuovo, da questa felice intuizione conciliare – ad un tempo pneumatologica e cristologica – non dovrebbe, credo, prescindere.




Breve riflessione sulla Dichiarazione congiunta di Francesco e Bartolomeo

di Alessandro Clemenzia • Un alto senso di gratitudine e un profondo stupore dell’opinione pubblica hanno accompagnato il viaggio in Terrasanta di Papa Francesco. Si è potuto assistere ad una gestualità che è veramente riuscita a generare commozione davanti all’“accadere” di una sempre vera novità nell’oggi della Chiesa. Domenica 25 maggio, nella sede della Delegazione Apostolica di Gerusalemme, si è svolto un incontro del Papa con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, durante il quale è stata firmata una Dichiarazione congiunta, di cui ora si proverà a mettere in luce soltanto qualche aspetto.

È un incontro che segna certamente una tappa nuova del cammino “verso l’unità”, intesa quest’ultima «come comunione nella legittima diversità» (n. 2). Non è un semplice camminare l’uno accanto all’altro, in cui ciascuno, in nome della legittima diversità, si impegna a non calpestare in alcun modo i piedi all’altro, ma di una comunione che in se stessa garantisce la distinzione delle parti che compongono l’unità. Interessante il fatto che sia scritto «soltanto lo Spirito Santo può guidarci» (n. 2): si tratta di una comunione che trova nello Spirito il suo fondamento interpretativo, e proprio per questo risentirà delle caratteristiche che lo stesso Spirito assume nel suo essere tra il Padre e il Figlio: una relazione in persona che più tiene uniti i Due, più li distingue. “Trinità” dice in modo inconfondibile che Dio non è Dio senza l’Altro; un’unità e una comunione all’insegna dello Spirito Santo è una forma di relazione in cui ciascuno non è se stesso senza l’altro, e senza che l’altro si riconosca, in relazione all’uno, costantemente distinto: l’assimilazione a sé dell’altro fuoriesce dalla logica trinitaria. L’unità alla quale si tende è già di per se stessa il riconoscimento pieno di una pluralità che non può andare perduta, ma, anzi, conservata e incrementata.

A partire dall’esperienza di questa teo-logica, Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo hanno scritto senza remora di essere “pienamente consapevoli di non aver raggiunto l’obiettivo della piena comunione” (n. 2), non perché l’una e l’altra continuano a co-esistere, ma probabilmente perché ciascuna ancora non si comprende alla luce dell’altra, per l’altra e nell’altra, al fine di realizzare la preghiera di Cristo: «perché tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21) come il Padre e il Figlio sono uno (cioè distinti, altrimenti Ciascuno, senza l’Altro, cesserebbe di essere Se stesso).

Perché si raggiunga quest’unità nella legittima diversità, è già stato avviato un dialogo teologico, che non è «un mero esercizio teorico, ma un esercizio nella verità e nella carità, che richiede una sempre più profonda conoscenza delle tradizioni gli uni degli altri, per comprenderle e per apprendere da esse» (n. 4). La teologia viene qui svuotata di un inutile  concettualismo o nozionismo teorico, per far riaccadere in essa e da essa ciò che realmente è: un esercizio (aschesis, in greco: da cui viene ascesi) nella verità e nella carità, vale a dire sempre “nello Spirito Santo” (come Spirito di verità e carità stessa di Dio). Il cammino allora consiste primariamente nell’esercitarsi ad essere nello Spirito di Dio, perché sia Lui a portarci a quell’unità nella distinzione (attività che Egli stesso svolge in Dio). Proprio per questo, continua la Dichiarazione congiunta, «il dialogo teologico non cerca un minimo comune denominatore teologico sul quale raggiungere un compromesso, ma si basa piuttosto sull’approfondimento della verità tutta intera, che Cristo ha donato alla sua Chiesa» (n. 4). Straordinariamente densa questa affermazione: il dialogo teologico non è riducibile e finalizzato a un compromesso politico e religioso, in cui si aderisce a un concetto (o a un insieme di concetti) posseduto da ciascuno, tale da rendere possibile un’unità di distinti sotto quell’unico e medesimo punto di vista; esso è piuttosto «approfondimento della verità tutta intera», penetrazione in quella realtà verso cui solo lo Spirito (Colui che conduce alla Verità tutta intera) può trans-portare. In altre parole: un dialogo, perché sia teologico, deve introdurre l’uomo in Dio.

Ma perché tutto questo non venga malamente interpretato come un semplice, interiore e soggettivo sforzo mistico, lontano dalla realtà e per i pochi addetti ai lavori, è scritto nella Dichiarazione: «Pur essendo ancora in cammino verso la piena comunione, abbiamo sin d’ora il dovere di offrire una testimonianza comune all’amore di Dio verso tutti, collaborando nel servizio all’umanità» (n. 5). Non si può entrare in Dio se non attraverso l’umano, se non ci si lascia “calamitare” dall’uomo. Si potrebbe quasi paradossalmente affermare che si è veramente in cammino verso la piena comunione nel momento in cui ci si mette a servizio dell’uomo, non come se quest’ultimo fosse strumento al fine prefissato, ma come luogo concreto del dirsi e del darsi di Dio nella storia. L’uomo è la periferia di Dio: senza passare attraverso di lui non si può raggiungere il Centro.




“Concezione mistica dell’antropologia” di Fernando Rielo

di Dario Chiapetti • È possibile una visione intelligente del fenomeno “uomo” che tenga conto di tutti i suoi aspetti che fenomenologicamente si danno a qualsiasi osservatore minimamente attento e che non voglia censurare nulla per non scadere nelle riduzioni che già Guardini aveva individuato e cioè a materia, a forma dello spirito assoluto, a momento della totalità sociale, a ente personale autosussistente, a frutto delle necessità delle leggi universali o a assoluta libertà?

“Concezione mistica dell’antropologia” (ed. San Paolo, 2014) è un testo dello scrittore spagnolo Fernando Rielo (1923–2004), fondatore dell’Istituto di Cristo Redentore di missionari Identes, fondazioni culturali, umanitarie e autore di una vasta opera poetica, filosofica e teologica ancora in gran parte inedita in lingua originale e di cui il presente testo è il primo editato in italiano e che raccoglie appunti che i membri della scuola hanno raccolto durante le sue lezioni. 

Tale volume non vuole essere un testo di antropologia teologica bensì una riflessione che, a partire sì da una particolare visione teo-antropologica, cerca di includere e armonizzare riflessioni scaturenti dai dati forniti dalle scienze esatte così come risulta chiaro dall’impianto di pensiero complesso, non sempre di facile comprensione e espresso con terminologia del tutto singolare. “L’antropologia – afferma Rielo – deve essere integrale e richiede una definizione trascendente dell’essere umano, capace di dare unità, direzione e senso a tutti i suoi livelli […] e dimensioni”.

L’Autore parte dall’esposizione di un’antropogenesi dalla quale perviene a una definizione dell’uomo per poi affrontare il suo carattere peculiare: il suo essere mistico; successivamente affronta gli aspetti che ne conseguono: la capacità umana di ‘visione’ della realtà, l’ascetica, la preghiera e la coscienza filiale, vera “chiave antropologica”. 

Dopo “il big bang della materia” (della vita vegetativa, del tempo e dello spazio fisici) e “il big bang della vita” (della vita psichica, degli esseri animati) la vita stessa si apre all’ingresso in scena dello spirito, il quale definisce l’uomo trascendentalmente come “spirito psicosomatizzato definito dalla divina presenza costitutiva dell’Assoluto”. Tale visione antropologica è fortemente unitaria: l’uomo non è un accostamento di corpo, anima e spirito ma uno spirito che ‘assume’ il corpo e l’anima: “non abbiamo dunque tre vite […] ma una vita spirituale o coscienziale che assume il carattere psichico della vita animica e il carattere somatico della vita organica”. Peculiare è proprio il ruolo decisivo e specifico rappresentato nell’uomo dalla “divina presenza costitutiva dell’Assoluto” che è “concreazionale” (accompagna la creazione dello spirito) e “principio attuale ed epistemico” (agisce in modo tale che l’uomo risponda nell’ordine dell’essere e del conoscere).

 Rielo approfondisce quindi la riflessione individuando e considerando i due elementi che vanno a costituire la configurazione ontologica della persona: quello creato, la natura umana di uno “spirito psicosomatizzato” e quello increato, “infuso che rende l’essere umano ontologica o mistica deità ad immagine e somiglianza della divina o metafisica Deità”. Questo secondo elemento è proprio la natura mistica dell’uomo – oggetto principale della riflessione di Rielo – che lungi dall’essere intesa come fenomeno comportante fughe dalla vita o speculazioni irrazionali consiste nell’“esperienza e impegno spirituale quando questi sono risposta attiva all’azione divina”. L’Ascesi – atto umano di elevazione a Dio – e mistica conducono infine l’uomo a vivere la sua filiazione costitutiva che è un vero e proprio “patrimonio genetico”: la tendenza dell’essere all’infinito, a “essere+” – singolare concetto che meriterebbe forse un approfondimento in relazione al concetto univoco di ‘essere’ – ecco che si giunge alla definizione di ‘persona’ evinta dalla teologia trinitaria che – ancora curiosamente in Rielo – si scinde da un lato, sul piano dianoetico, come struttura binitaria ovvero come “qualcuno in qualcuno” in immanente complementarietà intrinseca (non è tale espressione a guardar bene già trinitaria?); dall’altro, sul piano ipernoetico, come struttura trinitaria ovvero come “il Padre che genera il Figlio, il Figlio che porta al Padre, lo Spirito che è inviato dal Padre e procede dal Padre e dal Figlio”.

È degno di nota il tentativo di Rielo di porre attenzione sulla questione teo-antropologica e del suo rapporto con le scienze, è apprezzabile lo sforzo profuso per la costruzione del suo così complesso impianto filosofico-teologico dove è dato grande spazio alla concettualizzazione e a una rigida sistematizzazione schematica dei dati che certo poco spazio lascia alla riflessione fenomenologica del darsi dell’uomo e alla mistica (su cui tanto Rielo in verità intende puntare l’attenzione) come ‘visio Dei’, esperienza visiva-estetico-estatica e criterio ermeneutico, fattore ‘scientificamente’ conoscitivo dell’uomo.




Come un’umile compieta. Preghiera della notte

di Carlo Nardi • 16 luglio 2009. Avevo appena licenziate le ultime bozze di un mio articolo per le monache benedettine di Santa Marta a Montughi, intitolato “Salva nos, Domine, vigilantes”. Grazia e poesia della compieta. Storia delle preghiere, uscito nel loro bollettino, Il riposo nella tenda (n. 34, luglio 2009, pp. 33-53). Sennonché, mentre mettevo a posto le carte, come succede quando si vuol celebrare la fine di un lavoro per ricominciarne un altro, ecco affiorare da una specie di caos una carta sciolta, dispersa in qualche faglia geologica del mio scrittoio, risalente almeno a un annetto prima. Nel foglio c’è una preghiera. Preghiera della notte. Se l’avessi vista prima! L’avrei rammentata in quel saggio, dove ci sarebbe stata proprio bene.

C’è da dire che quella preghiera l’ha racimolata dalla memoria la Giuseppina M., un’attempata prrocchiana. Trascritta diligentissimamente dalla nipote sul foglio riemerso, la riporto con qualche intervento a mio parere eufonico. La ricopio anche allo scopo di invogliare qualcuno ad afferrare il testimone e mettersi in compagnia d’una consegna, che in ambito ecclesiastico con parola solenne e sussiegosa si chiama “tradizione”.

Ascoltiamola, l’orazione notturna.

Gesù mio, me n’ vado a letto,

ed il mio Gesù aspetto

 ed il mio Gesù verrà

e ’l mio capo segnerà.

 Segna il capo e ’l capezzale,

segna me che son mortale.

 Acqua santa, tu mi bagni,

con Gesù tu m’accompagni.

 M’accompagni in questa via,

vivo o morto, pur che sia.

 Gesù mio, mi butto giù,

non so se m’alzerò più.

 Tre cose chiedo a Gesù:

 confession, comunione ed olio santo.

Nome del Padre e Figlio e Spirto Santo.

La preghiera merita qualche considerazione. Intanto, c’è un rapporto personalissimo con Gesù: è “Gesù mio”, “il mio Gesù” che fisicamente “il mio capo segnerà”. C’è il segno della croce sul capo. Dev’essere una piccola croce greca, sigillo (sphragís, signaculum) sulla fronte fin dall’antichità, ora nei riti prebattesimali, nella cresima, nell’unzione degli infermi. L’andamento ritmato degli ottonari a rima baciata con riprese e ripetizioni di parole e concetti dà il senso pensoso e placido di una storia raccontata sommessamente tra veglia e sonno, consapevolezza e sogno, dogma e novella. Difatti Gesù farebbe quel segno di croce come un babbo o una mamma sul bambino già addormentato prima d’aver finito l’Angelo di Dio. Delicatamente.

E tale si avverte l’orante, vegliato dal “suo” Gesù in vita e in morte, richiamata, questa, dal sonno, dalla fragile precarietà, dal “capezzale”, parola che rimanda all’agonia.

E ci sono riscontri della presenza di Gesù. Sono segni liturgici, ordinari, pubblici e comuni, parrocchiali. Tra questi l’acqua santa, com’è buon uso, a disposizione per il segno di croce. È l’ultimo segnarsi in attesa di nuovo giorno con altri segni di croce? O è ultimo, definitivamente rispetto al giorno dell’eternità? Dio solo lo sa. Comunque, per “questa via” che è la vicenda umana; “pur che sia”, vale a dire nella continuità dell’esistenza: quell’“acqua” è avvertita come un tutt’uno con quella del battesimo che, “viva”, “zampilla per la vita eterna” (Gv 4,10.4).

Verso la fine il dolce racconto, immaginifico come languido fantasticare nel dormiveglia, si fa brutale: “mi butto giù” fa stridente coppia con un rialzarsi, nient’affatto scontato. È sintesi di raccapriccianti “apparecchi della buona morte”? Famoso quello redatto nel settecento da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, e non tra i più ripugnanti, dato l’autore. Ed era un esercizio spirituale diffuso dalle compagnie della buona morte.

Spicciola, concreta è l’indicazione pratica dei due versi finali, più ampi e solenni, con la successione da rituale: confessione, comunione, unzione. Meno lirico per il suo tecnicismo didattico, il catechismo motiva e comunque supporta la poesia della visita notturna di un Gesù quasi in punta di piedi per non svegliare il dormiente nella sua “via” dal tempo all’eterno. Non solo: se l’acqua richiama condizione e grazia battesimale, se la “segnatura” del Cristo sul capo evoca lo stato permanente di cresimato, ecco infine i sacramenti ricevuti e celebrati ordinariamente, confessione e comunione che il momento supremo rende straordinari: la comunione è “provvista per la via”, come una merenda sostanziosa da mettere nella borsa. Gli antichi romani la chiamavano viaticum, da cui viene la nostra parola “viaggio”. E non solo, come si capisce. Tutto si compie nel nome delle tre Persone divine: tutto, dall’acqua al sigillo, a un dire, ad un mangiare nel viatico, a un estremo lenimento. È quanto ricorda un foglietto: scritto apposta per far la dottrina?