Presentazione degli articoli del mese di maggio 2016

imagesAndrea Drigani nel far memoria di San Celestino V, passando per l’enigma dantesco del «gran rifiuto», svolge alcune considerazioni sulla rinuncia agli uffici ecclesiastici, compreso quello del Romano Pontefice. Dario Chiapetti recensisce un libro del cardinale Walter Kasper che intende contribuire ad una migliore comprensione del senso teologico della liturgia, distinguendo, tra l’altro, i simboli «primari» dai «secondari». Francesco Romano commentando un invito di Gesù, ricorda che la giustizia umana è perfezionata dalla giustizia evangelica nella promozione del prossimo riconosciuto come fratello. Giovanni Campanella presenta un volume del giornalista Federico Rampini sulla recenti vicissitudini del mondo bancario, ed annota circa la necessità di saper dirigere il sistema finanziario e di non farsi dirigere da questo. Alessandro Clemenzia dall’Esortazione Apostolica «Amoris laetitia» propone alcuni parallelismi tra il Mistero trinitario e la famiglia in particolare circa la fecondità, la donazione e l’essere-uno, l’inabitazione e la missione. Gianni Cioli riflette sulla teologia della storia, partendo dall’edizione, a cura di Andrea Riccardi e Augusto D’Angelo, di una raccolta di missive inviate da Giorgio La Pira a Paolo VI. Giovanni Pallanti pubblica l’introduzione al suo recente libro che ripercorre la storia dell’«Ultima», la rivista ispirata dall’ultimo Giovanni Papini. Stefano Liccioli partendo dal Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, osserva che comunicare vuol dire uscire da se stessi per incontrare gli altri, creando ponti per dialogare ed arricchirsi reciprocamente. Carlo Nardi trae spunto da un verso di Alessandro Manzoni sull’universalità della Pentecoste per rammentare che il Vangelo, va predicato, inteso e a sua volta detto, perché sia pienamente compreso, in ciascuna lingua. Francesco Vermigli affronta la questione del rapporto la teologia e il diritto canonico, tenendo conto di due libri che vedono tale argomento con angolature diverse, ma in qualche modo complementari. Leonardo Salutati prende l’occasione dal 125° anniversario della «Rerum novarum» di Leone XIII, per riaffermare, anche alla luce dell’esperienza, il ruolo positivo, in termini di sussidiarietà, dell’intervento dello Stato nell’ambito economico. Antonio Lovascio dinanzi alla grave situazione di illegalità e di corruttela, che sembra in crescita progressiva, indica alla scuola-istituzione un grande compito etico: insegnare l’onestà. Francesco Vita propone la lettura di un volume curato da Ermes Ronchi per continuare a rimanere nello spirito della Pasqua anche dopo la festa. Stefano Tarocchi compie una disamina sulla parola «mondo» nel Vangelo di Giovanni, osservando come Dio abbia amato questa realtà che però lo ha rifiutato, lasciando aperta la strada a quanti non lo hanno rifiutato, bensì accolto.




Famiglia e natura divina nell’«Amoris laetitia»

image006di Alessandro Clemenzia Si preferisce, in teologia, evitare il parallelismo fra Trinità e famiglia, soprattutto per non giungere a un’affrettata conclusione che applicherebbe il ruolo di padre, madre e figlio/a alle funzioni delle tre Persone divine. Ciò nonostante rimane aperta una domanda: la famiglia ha ancora da dire qualcosa sulla trinità di Dio? E la Trinità, oltre a svolgere la funzione di modello etico, cosa dice di sé mettendosi in relazione all’ovvio scorrere quotidiano della vita in una famiglia? Per rispondere a queste domande, ho cercato nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia i lemmi “Trinità”, “trinitario” e “trinitaria” in riferimento alla famiglia. Più che esporre ogni singolo riferimento, metterò in luce i diversi significati riscontrati in questo parallelismo.

In primo luogo, il rapporto fra Trinità e famiglia è all’insegna della fecondità. Papa Francesco introduce questo aspetto sin dal n. 10 dell’Esortazione, a cominciare dall’evento più sorprendente della Creazione, dove l’immagine di Dio «ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”». In essa viene spiegato che tale affermazione non vuole applicare a Dio differenziazioni sessuali, ma fonda il legame tra divino e umano sulla fecondità della coppia, tanto da divenire «“immagine” viva ed efficace, segno visibile dell’atto creatore». Proprio nell’amare e nel generare la vita, la coppia «è la vera “scultura” vivente […], capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio». E conclude: «In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente». Essendo l’amore fecondo la realtà che più di ogni altra caratterizza l’essenza divina, si arriva ad affermare che «la famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina». E ciò si manifesta in un’inquietudine dell’uomo che gli fa cercare «“un aiuto che gli corrisponda” (vv. 18.20), capace di risolvere quella solitudine che lo disturba e che non è placata dalla vicinanza degli animali e di tutto il creato» (n. 12). La creatura cerca nell’altro/a una relazione frontale che rifletta quell’amore divino di cui è impregnata.

In secondo luogo, il rapporto fra Trinità e famiglia è all’insegna dell’unione, composta dalla donazione e dall’essere-uno. Questi due elementi, distinti tra loro, sono strettamente correlati: nel primo, viene espressa la modalità attuativa, nel secondo, il fine cui si tende e il risultato finale. Di entrambi si parla in più parti dell’Esortazione. L’unione matrimoniale è caratterizzata dalla «donazione volontaria d’amore» (n. 13), e ha come frutto «“diventare un’unica carne”, sia nell’abbraccio fisico, sia nell’unione dei due cuori e della vita e, forse, nel figlio che nascerà dai due, il quale porterà in sé, unendole sia geneticamente sia spiritualmente, le due “carni”» (n. 13). La condizione di possibilità di entrambi gli elementi, donazione ed essere-uno, viene rintracciata nella dinamica cristologica e trinitaria; l’amore tra gli sposi «è un peculiare riflesso della Trinità […], nella quale però esiste anche la distinzione. Inoltre, la famiglia è un segno cristologico, perché manifesta la vicinanza di Dio che condivide la vita dell’essere umano unendosi ad esso nell’Incarnazione, nella Croce e nella Risurrezione: ciascun coniuge diventa “una sola carne” con l’altro e offre sé stesso per condividersi interamente con l’altro sino alla fine» (n. 161).

In terzo luogo, il rapporto fra Trinità e famiglia è all’insegna dell’inabitazione e della missione ad extra. Si afferma: «Abbiamo sempre parlato della inabitazione di Dio nel cuore della persona che vive nella sua grazia. Oggi possiamo dire anche che la Trinità è presente nel tempio della comunione matrimoniale» (n. 314). Queste parole ribadiscono una verità profonda: c’è una presenza di Dio non solo “nella” singola persona, ma anche “tra” diverse persone che vivono in comunione; per questo la famiglia umana è a immagine e somiglianza della Trinità (cf. n. 71). Questa inabitazione, tuttavia, fa sì che tale amore familiare assuma sempre più una connotazione sociale (manifestando così il suo essere “Chiesa domestica”, come ripetuto più volte nel documento): «L’amore sociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé stessa, perché rende presente il kerygma con tutte le sue esigenze comunitarie» (n. 324).

Proprio in forza di questo rapporto con la vita divina, la famiglia umana non deve mai sentirsi «una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C’è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità» (n. 325).




«L’Arabo, il Parto, il Siro …» Pensieri di Pentecoste

images (1)di Carlo Nardi • «L’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì» (La Pentecoste, 47-48) . Il Manzoni rammenta soltanto tre popoli tra quelli elencati per la Pentecoste dagli Atti degli apostoli. Certo, la lunga lista trasmette il senso dell’universalità delle genti che si affacciarono in un discreto numero sull’incipiente realtà cristiana. Tant’è – si racconta – che un giovane chierico in un fervoroso esercizio di sacra eloquenza ci avrebbe messo anche pellegrini a Gerusalemme provenienti ‘dalle … remotissime Americhe’, anticipando piuttosto i tempi.

Ma l’universalità è quella riferita dagli Atti e di conseguenza dal Manzoni, per cui ciascuno dei presenti sentì e capì nella propria lingua. Mi spiego. L’effetto della Pentecoste, frutto e dono dello Spirito Spirito, non è la strutturazione di una lingua della Chiesa. Piuttosto la Chiesa può e dev’essere intesa nella sua globalità in tutte le lingue. Non c’è una lingua cristiana, ci sono – e ci devono essere – cristiani che nella loro totalità parlano tutte le lingue.

Certo le Scritture ispirate si ricevono in ebraico – con qualche brano in aramaico – e in greco. In tal modo s’imparano parole care alla fede, al culto e alla vita cristiana, parole che sono detti da custodire e trasmettere. Ancora. Sono parole che, in qualche modo e con qualche rischio, vanno tradotte. Lo chiede la concretezza del Figlio di Dio che ha voluto parlare con lingue di uomini, in prima istanza in ebraico, aramaico e in greco. Egli ci dice che il vangelo va predicato, va inteso e a sua volta detto, e, perché sia pienamente compreso, va detto in ciascuna lingua.

Tra i popoli il Manzoni cita arabi, parti, ossia persiani, e siri. Le lingue del titolo della croce erano ebraico, greco e in latino ed esprimevano una loro legittimità all’interno all’Impero romano. Invece negli Atti i popoli della Pentecoste parlano dialetti o lingue a mala pena tollerate, marginali rispetto al greco e al latino. Anzi, i popoli ricordati nella Pentecoste del Manzoni sono in gran parte fuori dell’Impero. C’è perfino la lingua dei nemici allora più pericolosi, i persiani. Ma tutti sono chiamati a intendere e dire l’unico vangelo.

L’ignoto autore della Lettera a Diogneto nel secondo secolo lo fa ben capire, quando dice che i cristiani non si distinguono dagli altri uomini per territorio, lingua, modo di vestire, perché ogni terra è loro patria ed ogni patria è in certo modo terra straniera, perché il cristianesimo non è un ritrovato umano, ma rivelazione e dono di Dio. Si direbbe: non è un pezzo di mondo accanto ad altri, ma è l’“anima del mondo”. Secondo il vangelo, il cristianesimo è lievito della pasta: non è come il mondo, non è come la pasta, ma è nel mondo, nella pasta. Perché è per la vita del mondo. Del resto d’altri modi per fare il pane non ce n’è.




«Ti sei rivelato a noi e non al mondo?»

3-1-660x350di Stefano Tarocchi • La VI domenica del Tempo Pasquale introduce il testo del Vangelo di Giovanni – peraltro omessa dal libro liturgico – con la domanda dell’apostolo Giuda (si noti, «non l’Iscariota»), che si rivolge a Gesù: «come mai ti sei rivelato a noi e non al mondo?».

È noto l’autorivelazione del Cristo è definita nel Vangelo di Giovanni come luce: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12) e «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre (Gv 12,46). Si riprende il medesimo tema quando il Vangelo dice: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9,5).

La stessa presenza del Cristo, come Verbo, era già definita in questo modo: «veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Oppure: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvage» (Gv 3,19).

Del resto anche la prima lettera di Giovanni scrive: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato» (1 Gv 1,5-7).

Tuttavia, nel momento in cui sta per arrivare la sua passione, quella che il Vangelo chiama “glorificazione”, la rivelazione del Cristo avviene solo davanti ai discepoli e non più al «mondo». In sostanza si potrebbe sostenere che il «mondo», creato da Dio per mezzo del Verbo, si è ribellato in maniera radicale a Dio e al suo Figlio, il Verbo che «era nel mondo». «Il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,10). Ma lo stesso Verbo «a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).

Non è un caso che il tema del «mondo» dòmini la scena nel Quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni, non fosse altro che numericamente, per le sue settantotto ricorrenze (!) sulle cent’ottantasei dell’intero Nuovo Testamento. Potremmo aggiungerne anche trenta, nelle prime due lettere dello stesso Giovanni.

Qui tenterò di riprendere una parte dei testi in questione per definire una immagine della potenza divina che non viene sopraffatta dalle tenebre, la condizione negativa dell’umanità in quanto opposta a Dio: «la luce splende nelle tenebre» e tuttavia «le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5). Che è come dire che il Cristo si è rivelato davanti alla condizione umana, che lo respinge ma non è capace di sconfiggerlo.

La totale opposizione tra il «mondo» e il Padre è espressa quindi con estrema chiarezza: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Ma il Vangelo dice di più: Dio ha amato quella realtà (il «mondo») che lo ha rifiutato, lasciando aperto la strada a quanti si sono posti in una posizione diametralmente opposta: non di rifiuto ma di ascolto, di accoglienza.

A quel mondo che si oppone a Dio, questi offre un’altra strada, come emerge dalle parole con cui il Battista annuncia Gesù: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Si parla proprio al singolare («il peccato»), perché esso riassume ogni altra colpa. Anche la prima lettera dell’apostolo Giovanni precisa: «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).

E non è un’opposizione formale tra Dio e quanti gli si oppongono, se Gesù dice ai discepoli «il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; letteralmente: «maligne», come il nemico di Dio e delle sue creature), mostrando qui una nuova declinazione della sua missione di luce. Questo si dice con chiarezza anche nella guarigione dell’uomo cieco: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39).

Perciò i discepoli devono sapere che «se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15,18-19). E più avanti Gesù aggiunge: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,6.9.11.13).

Nella stessa preghiera che Gesù pronuncia avanti la sua passione, mentre si trova ancora con i discepoli egli dice: «Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; [prego] perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato» (Gv 17,5.14-16.18.21.23-25).

Pertanto il «mondo», che è stato oggetto dell’amore di Dio e del Cristo, una volta che ha scelto definitivamente la sua strada non può più cambiare il proprio cammino; perciò il Cristo, da un certo momento in poi della sua missione, prega per i discepoli e non più per coloro che si sono radicalmente autoesclusi dalla salvezza. Ne è conferma il fatto che in precedenza il vangelo dice di Gesù: «non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47). Per questo aggiungerà ai discepoli: «Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).

In conclusione potremmo chiosare con le stesse parole del Vangelo, nella sua conclusione definitiva: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25). La potenza del Cristo, che ha vinto la sua opposizione radicale nella sua gloria, cioè la passione e la risurrezione, riduce il mondo, stavolta in senso neutro, a semplice contenitore delle sue parole.




Quell’incontro fecondo tra comunicazione e misericordia

udienzaradiodi Stefano Liccioli • E’ dedicato al tema della misericordia il messaggio del Papa per la cinquantesima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il prossimo 8 maggio. In particolare il Santo Padre c’invita a riflettere su come ogni nostra parola ed ogni nostro gesto debba esprimere la compassione e la tenerezza di Dio.

Uno degli assiomi della comunicazione, secondo Paul Watzlawick e la scuola di Palo Alto, è che “non possiamo non comunicare”. Accogliendo l’invito del Santo Padre, proviamo allora pensare a quanto il nostro linguaggio e le nostre azioni, anche quelle che ci sembrano più insignificanti, possano trasmettere realmente misericordia. Comunicare vuol dire uscire da se stessi per incontrare l’altro, vuol dire creare ponti per dialogare ed arricchirsi reciprocamente. Occorre però che il nostro parlare vada in questa direzione, favorisca cioé l’incontro, il perdono, la riconciliazione e spezzi l’odio e l’incomprensione. E’ uno stile questo – sembra far intuire il Papa – che dobbiamo vivere nel quotidiano, a cominciare dalla famiglia perché «tutti sappiamo in che modo vecchie ferite e risentimenti trascinati possono intrappolare le persone e impedire loro di comunicare e di riconciliarsi». Ciò dovrebbe valere anche per i rapporti tra i popoli: il linguaggio della politica e della diplomazia si deve lasciare guidare dalla misericordia e, nello specifico, saper trovare ciò che unisce piuttosto ciò che divide.

In quest’ottica un richiamo da parte del Pontefice anche alla Chiesa ed ai suoi pastori, a far attenzione, si potrebbe dire, ad evitare di separare prima del tempo il grano e la zizzania:«Lo stile della nostra comunicazione sia tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti. Noi possiamo e dobbiamo giudicare situazioni di peccato – violenza, corruzione, sfruttamento, ecc. – ma non possiamo giudicare le persone, perché solo Dio può leggere in profondità nel loro cuore. È nostro compito ammonire chi sbaglia, denunciando la cattiveria e l’ingiustizia di certi comportamenti, al fine di liberare le vittime e sollevare chi è caduto». In maniera molto pastorale Papa Francesco osserva come «parole e gesti duri o moralistici corrono il rischio di alienare ulteriormente coloro che vorremmo condurre alla conversione e alla libertà, rafforzando il loro senso di diniego e di difesa».

E’ interessante mettere in risalto che il Santo Padre non limita le sue riflessioni ai luoghi fisici d’incontro, ma pensa che anche le reti sociali possano essere spazi in cui si comunica con misericordia:«L’ambiente digitale è una piazza, un luogo di incontro, dove si può accarezzare o ferire, avere una discussione proficua o un linciaggio morale. La rete può essere ben utilizzata per far crescere una società sana e aperta alla condivisione».

Infine alcune riflessioni personali sul mondo giovanile a partire dall’argomento del messaggio del Papa. Oggi, ragazzi e ragazzi, possono entrare in contatto tra di loro con tanti mezzi diversi: telefoni di ultima generazione, dispositivi digitali, computer. Dialogano continuamente con messaggi e telefonate, ma spesso mi domando se comunichino veramente, se condividano cioé con i coetanei gli aspetti importanti delle loro vite. Comunicare significa infatti condividere e la condivisione richiede l’ascolto, l’accoglienza. Anche se il mondo degli adulti in molti casi non ha dimostrato particolare attenzione e volontà di ascoltare i giovani, dobbiamo educare i giovani all’ascolto, per «essere capaci di condividere domande e dubbi, di percorrere un cammino fianco a fianco, di affrancarsi da qualsiasi presunzione di onnipotenza e mettere umilmente le proprie capacità e i propri doni al servizio del bene comune».




Lezioni di etica nella scuola: ce lo raccomanda l’Ocse

268x179xImagoMundi_48721-268x179.jpg.pagespeed.ic_.5EAXj_b5S7di Antonio Lovascio • Non possiamo dire che la Scuola abbia in questi anni trascurato il tema della legalità. Seminari in tutte le città italiane, viaggi di studio di intere classi suoi luoghi della memoria di don Puglisi e Piersanti Mattarella, dei giudici Falcone, Borsellino, Livatino, Chinnici; del gen. Dalla Chiesa e di numerosi altri servitori dello Stato registrati tra le oltre 5 mila vittime della Mafia e della Camorra. Ricostruzioni ed approfondimenti guidati da uomini coraggiosi come il compianto maestro del pool palermitano Antonino Caponnetto, come Giancarlo Caselli o Gherardo Colombo, scrittori sotto scorta come Roberto Saviano. Insegnanti e giovani studenti si sono appassionati a questo “culto del ricordo” alimentato dalla generosa attività di “Libera”, la benemerita associazione fondata da don Ciotti, incoraggiata dalla Chiesa di Papa Francesco e dei suoi predecessori. Ora però, di fronte al dilagare del malaffare nella Pubblica Amministrazione, occorre fare un ulteriore salto di qualità. Purtroppo l’Italia si sta sempre più rivelando il Paese degli scandali. Tutte le analisi internazionali ci presentano dati agghiaccianti. Peggiorano gli indici di corruzione percepita. Un intreccio inestricabile di interessi tra politica, finanza, impresa e burocrazia sembra aver preso il posto di un agire etico, capace di promuovere e tutelare il bene comune. I leaders di partito più degli esponenti dei Movimenti cosiddetti populisti ne parlano scontrandosi con la Magistratura accusata di Giustizialismo. Ma a volte si ha l’impressione che il tutto si riduca ad uno stucchevole confronto tra “guardie e ladri” come nell’ultimo decennio della Prima Repubblica, ai tempi di Mani Pulite, e come negli anni roventi del berlusconismo.

I processi sono lenti e le sentenze non arrivano? Governo e Parlamento hanno tutti gli strumenti per intervenire e porvi rimedio, riformando il sistema-giustizia. Intanto bisognerebbe allungare senza furbizie e forzature (prevedendo paletti più rigidi ed indennizzi) i tempi della prescrizione per questo genere di reati: troppo facile e da irresponsabili far passare tutti i giudici per fannulloni. Dimenticando che in Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da diversi decenni ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare con leggi o scudi troppo generosi, per non dire indecenti.

Così l’illegalità (per dirla con il Capo dello Stato che chiede rispetto reciproco, un’alleanza magistrati-politici contro la corruzione e chiama al riscatto le forze sociali sane) continua ad essere “ un peso per la nostra libertà, per la nostra economia e per il futuro dei nostri figli”. I danni che provoca sono enormi. I costi della sola corruzione sono stimati in oltre ottocento miliardi di euro: Gli investitori stranieri diffidano dell’Italia, le imprese nazionali perdono competitività, il cittadino perde fiducia, i giovani brillanti sempre più costruiscono il loro futuro altrove. Molto si è fatto, anche negli ultimi tempi, per contrastare questi fenomeni. In questa direzione, la costituzione e l’operato dell’Autorithy affidata ad un magistrato integerrimo – ma superoberato di lavoro e di “dossier” – come Raffaele Cantone, oltre che normative e controlli sempre più stringenti, sono senz’altro passi avanti necessari ed importanti. Ma non bastano. Intanto bisognerebbero riflettere su un illuminante studio dell’Ocse (“ Trust in Government”) che , analizzando comparativamente la situazione di 29 Paesi nel mondo ben sintetizza la questione: «Il principale impedimento nel raggiungere elevati standard di contrasto risiede nella natura stessa del fenomeno. La corruzione si verifica perché persone prezzolate, che ben conoscono il quadro legislativo disegnato per prevenire gli illeciti, sono in grado di pianificare e commettere, restando impuniti, i crimini che leggi e controlli vorrebbero punire». In altri termini, per combattere efficacemente le tante Tangentopoli è necessario “combinare normative e controlli sempre più stringenti con una solida educazione all’etica e alla moralità. Questa educazione deve iniziare insegnando l’etica della buona cittadinanza nelle famiglie e nelle scuole”.

E proprio qui sta il punto. Il governo Renzi (ma anche le opposizioni!), mettendo da parte le sterili polemiche con le toghe, dovrebbe agire con determinazione per creare una nuova cultura dell’integrità, capace di orientare i comportamenti delle nuove generazioni. C’è un lavoro enorme da fare, qualcosa di cui purtroppo nessuno si sta occupando: insegnare l’onestà. Si inseriscano nei programmi delle scuole elementari, medie e superiori, nei piani di studio delle università, corsi di integrità e di un corretta condotta pubblica. Come suggeriscono alcuni esperti, si selezionino e formino gli insegnanti anche sul senso e i principi della moralità. Si costruiscano, sin da piccoli, i valori che dovranno orientare i comportamenti futuri. Si trasmetta l’importanza e l’orgoglio di un’esistenza integra, rispettosa degli altri, volta a creare le basi della solidarietà. Si trasmetta anche il senso di vergogna per comportamenti non in linea con il dovere di buona cittadinanza, siano essi la corruzione, l’evasione fiscale, piuttosto che la collusione di vantaggi. Si illustrino ai bimbi e ai giovani talenti i tanti esempi virtuosi di imprenditori, di personaggi ma pure di italiani umili che questi principi quotidianamente applicano. Si favorisca l’incontro con queste persone, perché l’etica si può apprendere solo da chi la pratica. Se famiglie, presidi e docenti – oltre a coltivare il “culto della memoria” – sapranno impostare un equilibrato e complessivo programma di etica, forse presto ci dimenticheremo anche che la Scuola è – ahimè – un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico quando non di spaccio di droga.




A 125 anni dalla «Rerum novarum»

leonepadi Leonardo Salutati • Laisser-faire (in francese “lasciate fare”) è una frase tradizionalmente attribuita al mercante Legendre nella sua risposta a una richiesta di Jean Baptiste Colbert, su che cosa occorresse per far prosperare il commercio. Da sempre è utilizzata come espressiva della visione propria del liberalismo economico, che si affida alla mano invisibile del mercato per conseguire il miglior risultato possibile, poiché si ritiene che l’intervento pubblico può solo peggiorare i risultati, non migliorarli, in quanto lo Stato è considerato solo un ingombrante e costoso intralcio al libero dispiegarsi dell’impresa privata che, secondo il mainstream economico andrebbe avanti da sola, senza bisogno di nulla.

In realtà basterebbe riflettere sull’entità dell’intervento pubblico della Federal Reserve statunitense in soccorso delle banche private (si parla di circa 7000 miliardi di dollari), oppure su quello analogo della BCE in Europa (circa 1000 miliardi di euro), per realizzare che non è così. Chi obiettasse che, comunque, tali eventi sono eccezionali e non capaci di smentire la teoria liberista è invitato a riflettere su recenti, e purtroppo, poco conosciute ricerche in campo economico che rivelano una realtà diversa. Infatti non è questione di dibattito ideologico ma è un dato di fatto che sia lo Stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio di investimento iniziale all’origine dell’imprenditoria più audace, dell’innovazione più prolifica e delle nuove e rivoluzionarie tecnologie, che assuma il ruolo di motore dinamico di settori come la green economy, le telecomunicazioni, le nanotecnologie, la farmaceutica. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. Da sempre, il settore pubblico è insostituibile nel promuovere l’innovazione perché si assume rischi che il settore privato farebbe fatica ad affrontare. Esso dispone infatti di “capitali pazienti”, che possono attendere la remunerazione del rischio non entro cinque anni, come i fondi di private equity e venture capital, ma anche in dieci-vent’anni.

Lo raccontano Internet, su cui ha investito l’Ente pubblico americano di difesa (Darpa); il Web o lo schermo tattile, entrambi nati nei laboratori del Cern grazie ai soldi degli Stati europei; il sistema di scorrimento multitouch frutto della ricerca nell’Università del Delaware e sostenuto dalla National Science Foundation e dalla Cia. È inoltre un fatto che i protagonisti dell’innovazione sono sovvenzionati da sistemi-Paese, anche in luoghi teoricamente dominati dal mercato e dal liberismo, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Per esempio il Governo tedesco sta attualmente investendo significativamente su nucleare, energie eoliche e solari, tecnologie “verdi”; quello statunitense sta destinando alla ricerca farmaceutica – attraverso i suoi programmi statali – collocamenti pari a 30 miliardi di dollari all’anno. Denaro che ha indotto la Pfizer (la più grande società del mondo operante nel settore della ricerca, della produzione e della commercializzazione di farmaci) a trasferire i propri quartier generali dal Kent inglese a Boston. Lo Stato si rivela non solo un grande regolatore che corregge fallimenti ed esagerazioni dei mercati, ma il maggior creatore di nuovi mercati. Potremmo dire il più grande imprenditore esistente, da sempre.

Secondo l’opinione di un importante gruppo di economisti, se non cominciamo a mettere in discussione i tanti “miti” dello sviluppo economico e non abbandoniamo le visioni convenzionali del ruolo dello Stato nello sviluppo, non potremo sperare di affrontare le sfide strutturali del 21esimo secolo e produrre quel progresso tecnico e organizzativo indispensabile per una crescita equa e sostenibile nel lungo periodo.

È quanto ha da sempre insegnato la Dottrina sociale della Chiesa a cominciare da Rerum novarum, di cui ricorrono quest’anno il 15 maggio i 125 anni dalla promulgazione, che invoca il necessario intervento dello Stato per risolvere la questione operaia dell’epoca e per indirizzare verso il bene comune tutte le forze della società (nn. 27-29). Cento anni dopo, in perfetta sintonia con l’enciclica leonina, Centesimus annus precisa ulteriormente le modalità dell’insostituibile ruolo dello Stato nella società e nell’economia: «per assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi. Lo Stato, ancora, ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo» (n. 48). Tutto questo nella consapevolezza che: «Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile (Ibidem).

Una lezione più che mai attuale.




La Pira, Paolo VI e la teologia della storia

97001 (1)di Gianni Cioli • Il recente libro a cura di Andrea Riccardi e Augusto D’Angelo: Giorgio La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI (San Paolo, Cinisello Balsamo 2015), che raccoglie in edizione critica una parte cospicua delle missive indirizzate da La Pira a Papa Montini, costituisce indubbiamente una ricchissima miniera per lo studio storico del Novecento. L’opera risulta altresì una fonte preziosa per cogliere ed interpretare l’affinità e la convergenza sul piano umano, intellettuale e spirituale, pur nelle notevoli differenze, fra due protagonisti della recente storia civile ed ecclesiastica, nazionale e internazionale.

A proposito del rapporto fra i due scrive Andrea Riccardi nell’introduzione: «Montini e La Pira erano quasi coetanei. Il papa era nato nel 1897 e La Pira nel 1904. Furono due personaggi profondamente diversi: il Sindaco appassionato e visionario; il papa da sempre attento, mediatore, riflessivo sul progetto da realizzare, talvolta incerto sulle decisioni da prendere […], ma convinto riformatore, anche se non utopista. Furono due uomini di fede profonda e due amici» (p. 12).

L’amicizia nata negli anni in cui Montini era assistente della FUCI (1925-1933) e si era consolidata quando La Pira, abbandonata Firenze per sfuggire alla polizia fascista, era stato ospite in Vaticano. Il rapporto di conoscenza e stima era stato portato avanti negli anni successivi e – nel periodo dell’Assemblea Costituente – aveva con tutta probabilità trovato un singolare alimento e approfondimento nei frequenti incontri che i “professorini” avevano con monsignor Montini per confrontarsi sulle proposte da portare in assemblea.

Dopo che Montini era divenuto Arcivescovo di Milano La Pira gli aveva preannunciato che sarebbe divenuto papa, e si comprende come si aspettasse molto dalla sua elezione quando questa finalmente si verifico.

Dopo l’elezione di Montini a papa però le lettere di La Pira a Paolo VI sono praticamente un epistolario a senso unico; nel senso che il papa ha scritto a La Pira una sola lettera, nel settembre 1977, circa due mesi prima che quest’ultimo morisse.

Nel silenzio di Montini, anche alla luce della frequente comunicazione intercorsa nel periodo precedente, si percepisce forse un messaggio implicito che potrebbe suonare così: non posso seguirti fino in fondo ma sono contento che tu ci sia con il tuo carisma e la tua profezia a ricordarci che «Lo Spirito del Signore, che anima l’uomo rinnovato nel Cristo – sono parole della Octogesima adveniens n. 37 –, scompiglia senza posa gli orizzonti dove la sua intelligenza ama trovare la propria sicurezza, e sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri la sua azione; egli è abitato da una forza che lo sollecita a sorpassare ogni sistema e ogni ideologia».

Uno dei punti di convergenza fondamentali fra la visione di La Pira e quella di Paolo VI penso che possa essere individuato nella teologia storia, concetto che la Pira evoca sovente nei suoi scritti riferendosi con preferenza, pur senza escludere altri autori come Daniélou, all’opera di Vito Fornari, autore molto amato anche da Paolo VI e sua documentata fonte per l’elaborazione della Ecclesiam suam.

Particolarmente significativo a proposito della sua visione della teologia della storia è un discorso di La Pira del settembre 1962:

«Se la Resurrezione di Cristo è vera (ed è vera), se è vera (ed è vera) tutta la Rivelazione (Antico e Nuovo Testamento), se Pentecoste (epperciò, la fondazione della Chiesa) è vera (ed è vera), allora la storia totale del mondo (cioè della Chiesa e dei popoli di tutta la terra) ha un senso, una direzione ed una finalità ben definita: Cristo è l’alfa e l’omega, il principio e la fine della storia totale del mondo: la storia attua un disegno che ha Cristo come causa efficiente, causa esemplare e causa finale! 
La storia del mondo è cristocentrica: a questa conclusione non si i sfugge (la storia è la biografia di uno, di Cristo, dice Fornari)».

È significativa la corrispondenza di questo passaggio con alcuni testi del magistero di Paolo VI ad esempio una catechesi del 1965 che poi verrà fra l’altro citata nel noto n. 45 della Gaudium et spes: «Gesù è al vertice delle aspirazioni umane, è il termine delle nostre speranze e delle nostre preghiere, è il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, è cioè il Messia, il centro dell’umanità, Colui che dà un senso agli avvenimenti umani».

Fra La Pira e Paolo VI si può riconoscere una convergenza di pensiero dovuta certo alla frequentazioni di fonti comuni, come l’opera di Fornari, ma con molta probabilità anche al confronto diretto avvenuto fra i due negli anni della loro reciproca frequentazione fino all’elezione di Montini a Vescovo di Milano e poi a Vescovo di Roma.

Come ha evidenziato Klaus Demmer, nel magistero di Paolo VI, soprattutto in quello relativo alla pace, è ravvisabile una dimensione profetica che si colloca primariamente nella linea dell’insegnamento morale di Gesù sintetizzato nel quinto capitolo del Vangelo di Matteo e che consiste nel manifestare nuove possibilità e migliori alternative per il superamento delle costrizioni conflittuali che affliggono la storia.

Certo dietro alla tensione profetica del magistero di Paolo VI non vi sarà sicuramente soltanto l’influsso di La Pira, ovvero dei colloqui e degli scambi epistolari intercorsi con lui, ma ravvisare la presenza e la rilevanza di tale influsso è del tutto plausibile.

Secondo quanto afferma sempre Riccardi nell’introduzione, «Montini, da papa, condivise le visioni di La Pira in modo molto più intenso di quanto non si sia finora notato» (p. 26).




L’Ultima

220px-Giovanni_PapiniSi pubblica l’introduzione di Giovanni Pallanti al suo libro: «L’Ultima. Scrittori, artisti e teologi tra cattocomunismo e fascismo», che esce in questo mese di maggio.

di Giovanni Pallanti Chi prende in mano questo libro, come capita a chiunque entri in una libreria, avrà già letto la quarta di copertina. In sintesi lì c’è tutto quello che «L’Ultima» ha rappresentato nella cultura e nella ricerca teologica della seconda metà del Novecento in Italia e non solo.

Vide la luce subito dopo la Seconda guerra mondiale, con lo sguardo rivolto in modo particolare alla cultura francese ed ebbe una serie di pubblicazioni importanti fino al 1956: l’anno in cui morì Papini e quando padre Ernesto Balducci decise di fondare «Testimonianze». Finì esausta per mancanza di originalità nei primi anni Sessanta del secolo scorso.

Questo libro guarda soprattutto agli anni dal ’46 al ’56.

«L’Ultima» fu la zattera letteraria su cui si arrampicarono molti intellettuali, cattolici e no, naufraghi della Seconda guerra mondiale. Alcuni di loro, come Papini, erano stati interventisti nei primi anni del Novecento e furono fieri dell’Italia vincitrice della Prima guerra mondiale. Vittoria, quella dell’Italia, sostanzialmente effimera, che era costata migliaia di morti e di feriti. Gli scontri tra fascisti, socialisti e comunisti tolsero di mezzo qualsiasi ipotesi di vita democratica nell’Italia degli anni Venti del secolo scorso. Con l’affermazione del fascismo, a cui aderì anche Giovanni Papini, il popolo italiano co-nobbe un regime autoritario che con lo sbarco in Sicilia degli eserciti angloamericani finì nel luglio del 1943. Poi ci fu la sanguinosa parentesi della Repubblica di Salò e della piena e totale dipendenza di Benito Mussolini da Adolf Hitler. Alla Repubblica di Salò aderirono in diverso modo sia Giovanni Papini che Attilio Mordini, scrittore su «L’Ultima» dal 1953 al 1962. In Francia, invece, Francois Mauriac, premio Nobel per la letteratura nel 1952, si schierò con il generale De Gaulle nella resistenza contro il nazifascismo e Maritain diventò, durante la Quarta Repubblica, frutto della resistenza non solo gollista al regime del maresciallo Petain, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. Ambedue fecero una scelta democratica e antitotalitaria.

Molti degli scrittori de «L’Ultima» fecero invece, anche dopo la Seconda guerra mondiale, scelte diverse. Molti di loro, anche per ragioni anagrafiche, furono fascisti. Alcuni lo rimasero anche dopo il 1945. Altri diventarono comunisti, come Gozzini.

Attilio Mordini, già ricordato, fu vicino alla polizia politica della Repubblica di Salò e rimase in modo suggestivo fascista anche dopo la Seconda guerra mondialeI.

Ernesto Balducci e Mario Gozzini maturarono in questi anni la loro scelta: Balducci, come detto, alla metà degli anni Cinquanta, fondò la rivista «Testimonianze» e Gozzini iniziò un percorso politico che lo portò nel 1976 a es-sere eletto senatore nelle liste del Partito Comunista come “indipendente”.

Giorgio La Pira e Piero Bargellini furono nel mondo cattolico fiorentino quelli che fecero la scelta cristiana e democratica alternativa al comunismo e al fascismo come fecero quegli intellettuali cattolici francesi già ricordati. Piero Bargellini era stato anche un eroico combattente nella Prima guerra mondiale, decorato di medaglia d’argento al valor militare. Dopo il 1945 Bargellini si schierò contro ogni totalitarismo. Ambedue diventeranno sindaco di Firenze e parlamentari eletti nelle liste della Democrazia Cristiana.

Quindi «L’Ultima» fu davvero una zattera su cui salirono per poco o molto tempo scrittori, artisti e teologi che fecero negli anni che gli rimasero da vivere scelte alternative tra di loro.

Un’attenta riflessione di quello che succede oggi in Italia e nel mondo fa ben comprendere il dramma, apparentemente lontano, degli Ultimi. Scandali, corruzione e guerre che si combattono in varie parti dello scacchiere geopolitico rendono attuale la lettura di queste pagine.

Silvano Panunzio, ancora un esempio, su «L’Ultima» proponeva un’intesa teologica e politica tra il cattolicesimo e l’islam come fanno alcuni intellettuali ancora oggi. Panunzio, combattente nella Seconda guerra mondiale, rimase chiaramente, anche dopo il 1945, un teorico di un fascismo mistico con lo sguardo rivolto a Oriente: senza esplicitarlo, Panunzio riproponeva nel rapporto positivo tra cattolici e islamici il dna di un fronte potenzialmente antiebraico già sperimentato dal nazismo.

Quindi questo libro è utile per comprendere gran parte di quello che accade oggi o potrebbe accadere domani, di bene e di male, a una civiltà come quella occidentale giunta agli estremi limiti di resistenza dopo i quali c’è il rischio della sua estinzione in nome della “globalizzazione”.




Due libri recenti su teologia e diritto

cop_ecclesiologia_e_canonisticadi Francesco Vermigli • A distanza di pochi mesi sono usciti due libri dedicati ai rapporti tra la teologia e il diritto: S. Dianich, Diritto e teologia, Bologna 2015 e C. Fantappié, Ecclesiologia e canonistica, Venezia 2015. Chi scrive queste righe è stato attratto dalla somiglianza dei titoli e ha pensato di leggere i due libri assieme, con l’idea di verificare se davvero questa somiglianza trovasse riscontro nel loro rispettivo contenuto.

Conoscendo la formazione e l’attività didattica degli autori, ci si poteva aspettare che vi fosse almeno una differenza fondamentale: quella consistente nel punto di vista diverso con il quale Dianich e Fantappié guardano al medesimo tema. E non ci siamo sbagliati, perché – come prevedibile – Dianich guarda al tema dei rapporti tra la teologia e il diritto a partire dalla prima, mentre Fantappié lo fa dal punto di vista del secondo. Paradossalmente c’è una cosa in comune che rende possibile cogliere meglio le differenze tra i due autori: entrambi, infatti, raccolgono nelle loro pubblicazioni quasi sempre materiale già edito, ritornando spesso su temi che sono loro cari, e così facendoci apprezzare meglio i loro tratti diversi. Un lettore critico dirà dunque che i libri sono ripetitivi, nonostante i tentativi dichiarati nelle rispettive introduzioni di sfuggire a questo pericolo. Ma allo sguardo benevolente di chi legge un libro con lo scopo di cogliere le preoccupazioni principali che muovono gli autori, è apprezzabile vedere una certa stabilità degli snodi tematici, all’interno di studi usciti anche a distanza di anni. Ma quali sono tali snodi tematici e tali preoccupazioni?

Il libro di Dianich è coerente alla generale impostazione della sua ecclesiologia, che coglie nell’atto comunicativo legato alla fede nel Cristo Risorto il principio che origina la Chiesa e le relazioni di questa con il mondo. L’obiezione principale che Dianich fa al codice del 1983 è di veicolare ancora un diritto canonico introverso, cioè incapace di cogliere la dimensione dinamica della Chiesa nel suo costitutivo slancio missionario. A questa osservazione fondamentale se ne aggiungono altre che insistono tutte su alcuni snodi tematici che paiono all’autore chiaramente emergenti dalla temperie conciliare: l’inadeguatezza di un diritto che pensa l’appartenenza alla Chiesa solo a partire dal sacramento del battesimo – senza prendere pienamente in carico il senso della fede come atto personale e libero – e la persistente marginalizzazione dei laici dai procedimenti decisionali. La critica al diritto canonico come mera regola della vita interna della Chiesa – e non come normativa della natura missionaria di essa – pare intercettare l’immagine della “Chiesa in uscita”, che ha strutturato l’attuale pontificato fin dagli inizi. Ma, a ben vedere, sono anche altri i luoghi di una certa consonanza con la stagione ecclesiale attuale: la riedizione di alcuni saggi vertenti sul tema della sinodalità nella Chiesa – specialmente di quella che Dianich chiama “collegialità intermedia” tra papa e vescovo – permette di cogliere ciò in modo particolare. In generale si può affermare che il libro presenta una relazione tra diritto e teologia di fatto unidirezionale; laddove al diritto è chiesto un adeguamento ai guadagni e alle conquiste principali della teologia postconciliare e alla vita della Chiesa degli ultimi anni.

Fantappié appare in generale interessato al modo con cui nel tempo si sono costruite le relazioni tra il diritto e la teologia. Alla fase della simbiosi e della sintesi ha fatto seguito quella della distanza e della parcellizzazione, che viviamo oggi. A suo giudizio, questo è accaduto da un lato a causa di una tendenza – sempre incombente nel diritto canonico codiciale – a imitare il positivismo giuridico della civilistica, dall’altro in ragione di un pregiudizio piuttosto radicato nella teologia postconciliare contro gli aspetti istituzionali e giuridici della comunità ecclesiale. A partire da tale pregiudizio deriva anche la tendenza a considerare negativamente la storia della Chiesa, spesso attraverso letture ideologiche del passato dove prima alla “svolta costantiniana”, quindi alla Riforma gregoriana, infine al concilio di Trento e al Vaticano I viene imputata la degenerazione istituzionale della Chiesa, a paragone della purezza delle sue origini. In generale, Fantappié istituisce tra teologia e diritto relazioni reciproche, riconoscendo tra di essi complementarietà: se la teologia dirige e legittima le statuizioni ecclesiastiche, si deve anche riconoscere il diritto canonico come locus theologicus, poiché esso si pone domande (si pensi alla disciplina del matrimonio canonico, al rapporto tra sacramento e giurisdizione…) che le altre discipline spesso non si pongono, perché esorbitanti dalle loro competenze.

Entrambi i libri hanno il pregio di mettere a tema un problema radicale e di grande attualità. Ma se Dianich pone l’attenzione sull’opportunità che il diritto si faccia portatore degli sviluppi della teologia e della nostra stagione ecclesiale, Fantappié coglie in questa stessa stagione il pregiudizio antigiuridico che, a ben vedere, dovrà essere superato; se si vuole che il diritto contribuisca alla riforma della Chiesa.




Domatori o domati ? Ultime malefatte di Mammona

download (1)di Giovanni Campanella • Passano i secoli, si susseguono le diverse epoche, cambiano i venti, ma il dio denaro continua imperterrito ad attirare e lusingare le sue vittime…… salvo lasciarle poi sul lastrico o letteralmente (quando una persona dedica tutta la vita all’accumulo di denaro e questo malauguratamente si volatilizza in Borsa) o comunque interiormente (quando si fa fatica a comprendere che la vera sete non si estingue con cose che si comprano o che si ottengono con le nostre risorse). Da qui a definirlo “sterco del demonio” è forse un passo più lungo della gamba perché si sa che il denaro, ben domato, ha sempre svolto egregi servizi all’uomo, alla sua crescita, alla sua stessa capacità di servire. E chi maggiormente è chiamato a potenziare il servizio del denaro alla capacità di servizio dell’uomo se non il banchiere? Il problema è che il denaro è sempre stato una brutta bestia da domare; un po’ tutti abbiamo il suo marchio, il suo numero. Il Signore ci chiama a calcolarlo, ad ammettere di esserne un po’ succubi e a prenderne le distanze. Ci aiuta poi ad invertire la direzione del controllo e passare da essere controllati a essere controllori. Senza il Signore, però, colui che è chiamato a essere domatore torna ben presto ad essere domato. E succede che il banchiere passi dal servizio del risparmiatore al servizio del denaro.

Federico Rampini, corrispondente della «Repubblica» da New York, ha scritto un libro breve e agile intitolato Banche: possiamo ancora fidarci ? e pubblicato alla fine di Marzo 2016 dalla Mondadori. Il libro è stato scritto di getto, trattando anche di eventi accaduti recentemente, e a mio avviso riesce nell’intento di rendere digeribili temi finanziari che normalmente risultano abbastanza ostici per i non addetti.

Certe sofferenze bancarie sono spesso buttate sulle spalle del risparmiatore e, d’altra parte, lo stesso impiegato allo sportello è costretto con l’acqua alla gola a piazzare certi titoli per non perdere il suo posto di lavoro, non più sicuro come un tempo. Rampini rileva che nel 2015 ci sono stati almeno 26.000 licenziamenti alla Deutsche Bank. Nello stesso anno, l’Unicredit ha ridotto 18.200 posti, di cui 6.900 in Italia. «Benché non ci siano stati crac paragonabili a Lehman Brothers, anche il 2015 è stato un anno tremendo: a livello mondiale, nei primi nove mesi le banche hanno tagliato 52.000 posti di lavoro, poi nell’ultimo trimestre c’è stato un’impennata, altri 47.000 licenziamenti annunciati solo dal 1° ottobre al 31 dicembre. L’emorragia è pesante anche se commisurata all’occupazione totale del settore. Una delle più grandi banche americane e mondiali, Citigroup, ha perso il 36 per cento dei suoi dipendenti dagli albori della crisi del 2008. La Royal Bank of Scotland a furia di cure dimagranti si è sbarazzata del 53 per cento dei suoi addetti. La svizzera Ubs ne ha cacciati il 29 per cento» (p. 11).

Il povero risparmiatore si trova quindi a dover discernere molto attentamente come impiegare i propri soldi. Rampini ricorda un tristissimo fatto di cronaca recente. Il 28 novembre 2015 a Civitavecchia, Luigino «D’Angelo, titolare di obbligazioni subordinate della Banca Etruria, si è ucciso nella cittadina laziale dopo aver scoperto che aveva perso tutto: circa 100.000 euro investiti in quei titoli all’inizio del 2013. “Chiedo scusa a tutti” ha scritto alla moglie prima di uccidersi “non è per i soldi ma per lo smacco subito”. Cosa sapeva, quanto gli era stato spiegato, sui potenziali rischi di quei titoli ? Quanti altri italiani si trovano in una situazione simile, avendo comprato con i propri risparmi dei titoli di quella categoria senza sapere esattamente cosa facevano e quanto rischiavano ?» (p. 28).

Purtroppo è ancora assai difficile finanziare e aiutare con i propri risparmi l’economia reale “che mette mano alla pala” saltando a pié pari il sistema bancario. Da una parte, solo grandi imprese riescono a farsi finanziare in parte anche direttamente dai risparmiatori. D’altra parte, anche se è «aumentato il numero di risparmiatori, soprattutto in America, che si gestiscono il portafoglio titoli da soli, su Internet», questi «si sobbarcano qualche rischio in più. Chi si affida a un gestore professionale, almeno in teoria, è un po’ più al sicuro perché gode dell’esperienza altrui. A patto, però, che il gestore sia davvero esperto e davvero onesto. Due condizioni non scontate» (p. 46). E si ritorna alla solita questione della lealtà alla vocazione di “addomesticatore” di denaro.

Si sa che la stessa variazione del potere di acquisto del denaro ci mette il suo zampino nel complicare ulteriormente le cose. A tale riguardo, un problema classico è sempre stato quello dell’inflazione: normalmente una quantità di moneta sempre maggiore messa in circolazione fa sì che una quantità fissa del mio denaro compri sempre meno beni col passare del tempo. Oggi ci si trova a misurarsi col fenomeno, più raro e temibile, che prende il nome di “deflazione”. Essa tende a “raffreddare” l’economia: se una quantità fissa di denaro compra più beni col passare del tempo, un soggetto, più spesso ricco o comunque meno nel bisogno, può essere incentivato a ridurre i consumi per attendere ulteriori ribassi. Una riduzione dei consumi provoca una riduzione della produzione, che provoca una riduzione dell’occupazione e dei salari, che provoca un impoverimento generale, che naturalmente grava più sulle spalle di chi è povero.

Ultimamente anche la Banca d’Italia ha avuto qualche défaillance, concretizzatasi in importanti ritardi sulla vigilanza dell’operato di certe banche. Rampini nota che c’è «un equivoco latente sul mandato della banca centrale. Una missione istituzionale della Banca d’Italia consiste nel garantire la stabilità del sistema creditizio, nonché la stabilità patrimoniale delle singole banche. Non è la stessa cosa che garantire la sicurezza dei risparmi degli italiani». Normalmente le due cose vanno in parallelo altrimenti non si spiegherebbe proprio la funzione della Banca d’Italia. Però in certi casi «questi obiettivi sono addirittura in conflitto tra loro» (p. 54).

Quando invece sono le banche a fare la parte dei creditori, forti della loro influenza spesso non esitano a spremere ben bene i propri debitori e l’economia reale. Sicuramente lo fanno anche nell’interesse dei propri risparmiatori. Tuttavia, se da una parte è verissimo che i debiti debbano essere onorati (altrimenti non si andrebbe avanti e, tra le altre cose, tanti risparmiatori-creditori cesserebbero immediatamente di essere tali), bisogna riconoscere che esistono casi in cui rimettere i debiti può essere addirittura più opportuno, economico e vantaggioso per il sistema economico nel suo insieme. Più il creditore è facoltoso, più la remissione si fa doverosa. A questo proposito, Rampini fa collegamenti col Padre Nostro e col giubileo di cui si parla soprattutto in Lv 25. «Certo, dal punto di vista del creditore quel perdono è un vero sopruso nonché un regalo a chi non lo merita. Ma nell’interesse generale, avere un’economia più dinamica, non soffocata dalla pesantezza dei debiti, può essere un vantaggio. Alla fine, anche i creditori ne ricaverebbero qualcosa, forse. Stremare il proprio debitore, dissanguarlo, può dare una soddisfazione morale, il piacere della vendetta: ma che cosa ti resta in mano, una volta che lo hai distrutto ? C’è qualcosa nella saggezza della Bibbia che può servirci oggi ?» (p. 63). Rampini associa l’austerity invocata dalla Germania (punzecchiata dalle sue banche) al fatto che Angela Merkel è «figlia di un pastore protestante che partì da Amburgo per evangelizzare la Germania Est. Dietro la sua difesa a oltranza dell’austerity traspare un concetto di espiazione. Bisogna soffrire per fare penitenza, purgare gli eccessi degli anni di spesa pubblica facile, speculazione finanziaria. Sette anni di vacche magre dopo i sette di vacche grasse (ma fossero “solo” sette! No, in Europa la Quaresima è molto più lunga, i conti non tornano sulla durata del castigo, dalla crisi del 2008 il tempo è scaduto). Del resto, “debito” e “peccato” sono la stessa cosa, in tedesco, questo ormai lo sanno tutti» (p. 64). (Poco più oltre, Rampini fa un sonoro scivolone cadendo nel solito vecchio equivoco per cui la Chiesa ha inventato il Purgatorio nel Basso Medio Evo per fare cassa: dimostra di aver letto la Bibbia riferendosi a Lv 25 ma dimostra anche di non averla letta tutta). Cita poi un’interessantissima lettera aperta di Jeffrey Sachs, direttore dello Earth Institute alla Columbia University di New York, consulente delle Nazioni Unite: «Il punto di vista tedesco è che i paesi dell’eurozona non devono vivere al di sopra dei loro mezzi; devono onorare i debiti; e ingoiare la medicina delle riforme quando è necessario. La Grecia deve prendersela solo con se stessa. Questa ricetta a volte è corretta e a volte no. E’ sbagliata quando per onorare il debito si spinge una società verso il punto di rottura. La saggezza consiste nel riconoscere quando la cura è sbagliata, e in quei casi reagire in modo creativo. Pensare che gli Stati sovrani devono onorare i debiti può essere il principio giusto nove volte su dieci, e può essere un disastro la decima volta. Non dobbiamo spingere una società fino al punto di rottura neanche se la colpa del debito è tutta sua. La Germania del dopoguerra aveva “meritato” il Piano Marshall? No. Il Piano Marshall e poi la cancellazione del debito tedesco nel 1953 consentirono alla Germania di rinascere? Sì. La Russia “meritava” un perdono parziale del suo debito nel 1992? No. Sarebbe stato saggio concederglielo? Sì. La Grecia si “merita” una cancellazione parziale dei suoi debiti? No. L’economia greca è stata governata malissimo e molto a lungo. Ha fatto troppi prestiti, ha alimentato corruzione e clientelismo, non ha costruito industrie competitive. Un perdono parziale del debito greco sarebbe una buona idea? Sì. La Grecia è in una spirale mortifera di austerità, distruzione di ricchezza, fuga di cervelli e di capitali, instabilità sociale. La sua crisi economica è altrettanto drammatica di quella che colpì la Germania di Heinrich Brüning [cancelliere della Repubblica di Weimar durante la Grande Depressione] tra il 1930-33.» (la crisi alimentò quel malcontento che Hitler seppe usare a suo vantaggio). «La Germania di oggi può fare tutte le prediche che vuole alla Grecia, ma la Grecia collasserà comunque se la si costringe a ripagare tutto il suo debito. E’ una ricetta impossibile, come lo era per la Germania di Brüning. Oggi i contribuenti tedeschi pensano di essere stati generosi con la Grecia, ma questo è in parte un’illusione ottica. I contribuenti tedeschi sono stati generosi con le proprie banche più che con la Grecia. Alla Grecia è stato chiesto di utilizzare il primo pacchetto di aiuti, erogato nel 2010, ma anche il secondo e il terzo, per ripagare le banche creditrici, perlopiù tedesche e francesi» (pp. 67-68).

Lobby ancora più potente di quella della banche è quella delle agenzie di rating. Per certe categorie di investimento è vietato l’acquisto di titoli che non abbiano rating. Obama ha cercato di eliminare il valore legale dei rating ma senza successo. Inoltre, la valutazione che le agenzie danno ai titoli è pagata da «chi emette titoli. Il cliente che si fida di quei giudizi di solvibilità può non sapere che sono pagelle pagate da chi riceve i voti» (p. 76).

La Federal Reserve è riuscita a dare un po’ di ossigeno all’economia reale comprando essa stessa titoli privati e aggirando così le banche. La Banca Centrale Europea sta cercando di imitarla ma con maggiore difficoltà perché il sistema economico europeo è più bancocentrico: qui è più difficile aggirare le banche. Così, considerando «l’enorme cautela di molte aziende di credito nell’offrire nuovi fondi alle imprese e alle famiglie, la Bce ha aumentato i suoi tassi negativi, che sono letteralmente delle “tasse” sui fondi che i banchieri non prestano ad altri; lasciarli in deposito alla banca centrale costa sempre di più. Inoltre, dal 10 marzo 2016 la Bce si spinge fino al punto di “pagare” quelle banche che tornino a fare il proprio mestiere, cioè erogare il credito agli investimenti delle imprese. (…). Bisogna anche rimettere in movimento la cinghia di trasmissione tradizionale, che sono le banche commerciali. A queste ultime la Bce ha promesso 1700 miliardi di credito agevolato, a condizioni di favore. La parte che spetta alle banche italiane sono 320 miliardi in quattro anni. La ciliegina sulla torta sono quei 5 miliardi di extraprofitti che le banche italiane riceveranno se fanno decentemente il proprio mestiere. Ora davvero non hanno più alibi» (pp. 105-106).

C’è una figura che il banchiere può prendere da esempio ? Rampini racconta molto brevemente la storia di un italiano nella costa occidentale statunitense a cavallo tra ‘800 e ‘900: «Amadeo Giannini, figlio di immigrati da Favale di Malvaro, in provincia di Genova. Fondatore, a San Francisco, di quella Bank of Italy che poi fu ribattezzata Bank of America e tuttora è uno dei più grandi istituti di credito degli Stati Uniti e del mondo. Perché San Francisco non sarebbe diventata una tecnopoli leader mondiale, senza di lui ? Perché il 18 aprile 1906 quella città fu rasa al suolo da un terremoto, poi seguito da una serie di incendi. Era un cumulo di macerie fumanti, la rovina era tale che forse la sua popolazione si sarebbe arresa, trasferita altrove. Uno dei pilastri dell’economia cittadina, a quell’epoca, era l’industria della pesca. Quasi tutti immigrati italiani, dai liguri ai siciliani. Giannini aveva fondato la Bank of Italy a San Francisco meno di due anni prima, il 17 ottobre 1904, ma era già un imprenditore facoltoso. Di fronte alla desolazione della città dopo il sisma, andò a recuperare i forzieri sepolti sotto i detriti. Li caricò su un carretto, per trasferirli al sicuro a casa sua, nella cittadina di San Mateo (oggi vicina all’aeroporto San Francisco International). E sparse la voce tra i suoi clienti: si fa credito per la ricostruzione, perché San Francisco deve rinascere. Chi erano i suoi clienti? Niente hi-tech, allora. Erano the little fellow, letteralmente “la piccola gente”. Pescatori, artigiani dell’inscatolamento del pesce, fruttivendoli. Arrivavano a casa sua dopo aver perso tutto, anche i documenti d’identità. Lui gli stringeva la mano, “e dai calli sentiva che erano gente per bene, lavoratori”. Apriva la cassaforte, tirava fuori le banconote per il prestito. Perché dovevano poter ripartire, al più presto. Gli storici della California sono concordi su questo punto: se San Francisco rinacque dalle ceneri, più vitale di prima, è perché dietro ci fu l’impegno straordinario del suo banchiere italiano» (pp. 119-120).




Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia

Scognamigliodi Francesco Romano • Attraverso la ragione l’uomo percepisce secondo il diritto di natura di essere legge “per se stesso”. La natura è norma di comportamento a livello di soggettività e oggettività giuridica. La rettitudine e l’onestà nell’agire sono espressione del rispetto dovuto agli altri. E’ la ragione che comanda ciò che si deve o non si deve fare nella costruzione sociale della convivenza umana fino a comprendere con Seneca che tutti gli uomini in forza della natura sono fratelli e devono amarsi anziché uccidersi per divertimento o gioco, “homo, sacra res homini, iam per lusum ac iocum occiditur” (Epistulae ad Lucilium, XV, 3 (95).

Il diritto romano conosceva a suo fondamento la regola espressa da Ulpiano: “Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, uniquique suum tribuere”, mentre il concetto di giustizia si esprimeva nella formula “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi”

Quindi, all’origine del diritto di natura c’è la ragione dell’uomo che lo accomuna agli dei e gli comanda ciò che deve fare e ciò che non deve fare. Per Seneca l’uomo è orientato al bene per la presenza della divinità che è in lui: “Prope est a te deus, intus est […] sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos” (Ibid, 4, 12 [41]). Nella loro stessa natura gli uomini trovano scritta la legge di “non recarsi danno tra loro”, di “vivere onestamente” e di “onorare il diritto altrui”. Anche San Paolo riconosce che i pagani per natura agiscono secondo la legge perché, pur non avendo la Legge mosaica, sono legge a se stessi dimostrando che quanto la legge esige è inscritto nei loro cuori (Rm 2, 12-15).

S. Agostino, a proposito della costituzionalità del diritto divino, afferma che Dio nell’atto creativo dell’uomo ha inscritto nel fondo del suo cuore: “non fare agli altri quello che tu non vorresti che gli altri facessero a te”, nessuno può ignorare questo precetto “iudicis tribunal est in mente tua, sedet ibi Deus, adest accusatrix conscientia, tortor timor” (Enarratio in Ps. 57, 1).

Il passo evangelico di Mt 7, 12 “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” – con i corrispettivi nella legge mosaica in Lv 19, 18 “Amerai il tuo prossimo come te stesso” che giuridicamente in Tb 4, 15 si traduce nel “Non fare a nessuno ciò che non piace a te” – capovolge la prospettiva della virtù della giustizia che veniva riassunta nella formula “non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te”. Quindi il prossimo diventa legge per l’uomo, cioè non sono più le mie esigenze, ma quelle del mio prossimo, il criterio di valutazione dei bisogni altrui.

L’uomo non è legge a se stesso al contrario di quanto affermava Aristotele nell’Ethica Nicomachea “Homo igitur politus et ingenuus sic erit affectus, quippe qui ipse sibi lex sit” (lib.4, 8, 10) , bensì è il prossimo che diventa legge per l’uomo in quanto figlio di Dio creato a sua immagine e somiglianza. La persona come tale è degna di essere definita “homo juridicus” essendo creata a sua immagine e somiglianza e posta al centro dell’universo giuridico così come Dio l’ha voluta. Nelle relazioni interpersonali la misura dell’agire dell’uomo giusto è dato dalla conformità alla legge eterna la cui comprensione e approfondimento non scaturiscono dalla sola intelligenza del singolo, ma anche dall’umana solidarietà.

Pertanto, l’obbligatorietà della legge evangelica che considera il prossimo quale legge per l’uomo a compimento di tutta la Legge e i Profeti, ha come fondamento il momento della creazione in cui il Creatore la inserisce nella natura dell’uomo e la rende coattiva e allo stesso tempo l’uomo creato a sua immagine e somiglianza esce da se stesso ed è reso capace di stabilire relazioni andando incontro ai suoi simili. Per questo la condizione originaria dell’uomo lo rende persona in senso giuridico secondo le relazioni che gli è concesso di stabilire con Dio e con il prossimo. La sua identità di persona in senso giuridico che gli deriva dal battesimo e lo incorpora nella Chiesa di Cristo (can. 96), diventa un completamento della persona già costituita secondo l’ordine creaturale. La Legge evangelica segna il coronamento della Legge mosaica nell’esigenza di vivere l’alterità umana passando dal “non fare agli altri” all’apertura verso gli altri: “anche voi fatelo a loro”. In questo senso sia l’ordine della natura che l’ordine della grazia fanno riferimento a Dio e intercettano qualsiasi creatura umana, come tale, nella sua fondamentale uguaglianza giuridica, in quanto creatura di Dio, e la pongono al centro di ogni costruzione giuridica.

L’ordine della natura e l’ordine della grazia trovano poi l’una il perfezionamento nell’altra. Lo stesso progresso deve essere riconosciuto al precetto evangelico dell’amore che pone il prossimo come legge per l’uomo a coronamento di tutta la Legge e i Profeti e introduce la carità quale principio sociale assoluto che ci spinge a uscire da noi stessi e a renderci reciprocamente portatori dei pesi di ciascuno. Il prossimo diventa non un fardello, bensì nostro fratello e la carità elemento di coesione sociale. Il corrispettivo giuridico di amare il prossimo come se stessi corrisponde al precetto di fare agli altri ciò che vogliamo che sia fatto a noi stessi. Questa legge l’uomo la scopre nella sua stessa natura che si manifesta nell’alterità della sua identità di homo juridicus, con la sua fondamentale uguaglianza giuridica. La prima dimensione giuridica dell’uomo in quanto persona è data dalla capacità di entrare in relazione con il prossimo e con Dio, come Egli ha stabilito nel disegno della creazione. Il precetto di fare agli altri ciò che vogliamo che sia fatto a noi stessi diventa la condizione per amare totalmente Dio e il prossimo

Per S. Agostino: «la legge della libertà è legge di carità» per questo dove si ama non esiste nessuna forma di servitù. Il diritto tutela l’uguaglianza e la libertà dell’uomo, la carità instaura una fraternità che è somma uguaglianza e somma libertà. L’amore sociale promuove la giustizia, rafforzando il rispetto per la persona e salvaguardando i valori autentici dei popoli e delle nazioni. Principio di questo amore sociale è l’ideale dell’amore che si trova in Cristo stesso, come ne testimoniano gli evangeli.

Carità e giustizia non si contrappongono, ma si integrano a vicenda. L’amore verso il prossimo si concretizza prima di tutto nel fargli giustizia e nel rispettare i suoi diritti. La carità è il coronamento del diritto e la conoscenza dei veri bisogni altrui come insegna San Paolo: «la carità rifiuta l’ingiustizia, ma si compiace della verità». Nessun diritto può essere negato in nome della carità. Chi vuol essere caritatevole, prima di tutto deve essere giusto. Principio della carità è ciò che il Signore chiama «fame e sete di giustizia».

La carità fa progredire la giustizia perché quando scopre il prossimo che ha reali bisogni, lo soccorre pur senza che questi abbia alcun diritto da reclamare, come insegna la parabola del “buon Samaritano”. La carità, tuttavia, non è un modo per rimediare all’ingiustizia né una giustificazione per dispensare dalla giustizia, ma la contiene come sua espressione prima e come suo momento essenziale. Prima di insegnare ad amare il valore della povertà, bisogna combattere l’ingiustizia che la genera.

In definitiva, “cercate il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33) significa avere una condotta conforme alle esigenze di Dio manifestate da Gesù nel suo Vangelo. La misura della nuova giustizia rivelata da Gesù è questa: “Il re dirà loro: tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. L’annuncio del nuovo regno si accompagna, così, alla rivelazione della nuova giustizia dove anche il minimo tra i fratelli, defraudato di ogni diritto naturale, viene investito della stessa dignità regale del Figlio di Dio. La giustizia legale scopre nella giustizia evangelica, cioè nella carità, la novità assoluta del superamento della giustizia degli scribi e dei farisei fino ad amare i propri nemici. La giustizia umana è perfezionata dalla giustizia evangelica nella promozione del prossimo riconosciuto come fratello. Nella logica del Regno la carità non esclude la giustizia: il diritto è alla base dell’uguaglianza, ma solo la carità la perfeziona trasformando l’uguaglianza in fraternità.

Nella logica del Regno di Dio la giustizia, che nel diritto naturale si esprime nel precetto di “honeste vivere, alterum non laedere, uniquique suum tribuere”, trova il suo compimento elevandolo al precetto dell’amore verso il prossimo che diventa ispirazione e attrazione del mio agire spronandomi a uscire dal mio stretto diritto, come uomo che è legge per se stesso, per aprirmi al mio simile: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi anche voi fatelo a loro” e considerare il prossimo legge per l’uomo.