Quando anche il tempo diventa un oggetto di consumo

esselungaopinionidi Stefano Liccioli • Capita sempre più spesso che sui giornali e non solo tengano banco dibattiti sull’opportunità che negozi e supermercati siano aperti anche la sera, magari fino a mezzanotte o oltre. Abituati ormai a vedere persone che di domenica vanno a fare la spesa nei grandi centri commerciali, sembra infatti che stia cadendo un altro muro temporale. Le polemiche sovente si concentrano su questioni sindacali, ma sono in gioco, a mio parere, anche problematiche più ampie, direi antropologiche, oltre che a quelle religiose, facilmente intuibili.

Pare che ormai il tempo non basti più, che ventiquattro ore siano insufficienti a fare tutto quello che c’è da fare quotidianamente. Se da una parte possono esserci motivazioni contingenti, più o meno giustificabili, che portano le persone a chiedere aperture più prolungate dei supermercati (ad esempio in molte famiglie lavorano sia il marito che la moglie e non hanno modo di fare acquisti, magari anche necessari, se non in tardi orari), d’altra parte si sta affermando, secondo me, un paradigma per cui anche il tempo è diventato un oggetto di consumo, qualcosa da spremere e da riempire in ogni istante. Siamo presi da un attivismo sfrenato, dettato forse dalla paura di fermarsi a riflettere e dalla convinzione più o meno inconscia che solo il fare, il produrre ci faccia sentire vivi. E non è un problema solo degli adulti, basta guardare le “agende” dei bambini per vedere che questa mentalità viene costruita fin da piccoli, incastrati tra mille impegni ed attività.

A questo proposito ho trovato illuminanti alcune considerazioni che San Giovanni Paolo II fece nella lettera apostolica “Dies Domini” sulla santificazione della domenica. Oggetto della lettera non è soltanto l’importanza di riconoscere il giorno del Signore, ma ci sono anche alcune riflessioni generali sul valore del riposo settimanale e direi anche del sapersi fermare all’interno di una giornata, molto opportune, anche da un mero punto di vista antropologico. Ha afferma il Papa:«Attraverso il riposo domenicale, le preoccupazioni e i compiti quotidiani possono ritrovare la loro giusta dimensione: le cose materiali per le quali ci agitiamo lasciano posto ai valori dello spirito; le persone con le quali viviamo riprendono, nell’incontro e nel dialogo più pacato, il loro vero volto. Le stesse bellezze della natura — troppe volte sciupate da una logica di dominio che si ritorce contro l’uomo — possono essere riscoperte e profondamente gustate».

Per un cristiano, poi, il riposo settimanale non è un semplice week-end o qualunque interruzione del lavoro, ma è visto essenzialmente in rapporto a Dio per celebrare la Sua salvezza, come momento per riscoprire i valori dello spirito, il dialogo e la solidarietà con i fratelli, per attenuare il peso delle preoccupazioni quotidiane, per ritrovare gioia e speranza. Ha osservato ancora San Giovanni Paolo II:«Il riposo è cosa “sacra”, essendo per l’uomo la condizione per sottrarsi al ciclo, talvolta eccessivamente assorbente, degli impegni terreni e riprendere coscienza che tutto è opera di Dio. Il potere prodigioso che Dio dà all’uomo sulla creazione rischierebbe di fargli dimenticare che Dio è il Creatore, dal quale tutto dipende. Tanto più urgente è questo riconoscimento nella nostra epoca, nella quale la scienza e la tecnica hanno incredibilmente esteso il potere che l’uomo esercita attraverso il suo lavoro».

L’augurio che, attraverso questa rivista, rivolgo a tutti i lettori è di sapere usare dei giorni estivi per rigenerare davvero il corpo e lo spirito. Anche nelle vacanze ci può essere infatti il rischio di un attivismo che stressa e non rilassa le persone. Facciamo invece nostro l’invito che Gesù propose agli apostoli:«Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (Mc 6,30).




“Perché non parli?”. Nella prospettiva dell’Assunta Dio si compiace della nostra carne.

appunti-sul-timeo-di-platone_890a0bb023b8eab92d920dab5d8fe2cfdi Carlo Nardi • “Perché non parli?” si narra abbia detto Michelangiolo davanti al suo potente Mosè, tra un compiacimento e un sospiro. Diffati la materia pare resistere sempre alle aspettative dell’artefice. Succedeva anche a lui. È uno scotto da pagare alla nostra umanità. Non siamo il Padre Eterno che la materia se l’ha fatta dal nulla e quindi l’ha in mano, anche se ordinariamente si avvale delle cause seconde, lasciandola organizzare dalle leggi della fisica. È Lui il creatore e, se si dà alla parola “creazione” il suo significato preciso, ha tratto la materia dal nulla, dal nulla di tutto. È articolo di fede, già implicita ad apertura della Genesi.

Secondo molte religioni, con i loro miti e le loro elaborazioni filosofiche, un artefice c’è – il mondo non può essersi fatto da sé e dire che si è fatto per caso è dire un bo? che non contenta troppo – ma si tratta di un dio ordinatore, organizzatore, architetto che la materia prima se la trova davanti. Platone nel Timeo chiama quel dio demiurgo, che vuol dire artigiano. Alla fine della sua opera il divino Artigiano se ne compiace, perché il mondo è bello: è un particolare che ricorda la Genesi con lo sguardo di Dio che si allieta per le sue opere. Sennonché quella radice preesistente, in origine indipendente dalla divinità, e quindi dalla ragione e dal bene, è facilmente avvertita come caos, disordine, irrazionalità, male, in opposizione al dio buono. Se Dio è il bene, la materia è intesa come male. Questa mentalità si diffonde nel mondo greco-romano già dal primo secolo, ha una complicata sistemazione con lo gnosticismo, raggiunge il suo culmine nel manicheismo. Poi quel coacervo di pensieri, ammantandosi di spiritualità, misticismo e tante altre cose ritenute come eccelse, raggiungendo esoterismi massonici e lambendo il new age, accompagna in lungo e in largo la storia del cristianesimo. Ma in modo parassitario. Perché, della fede cristiana manca la creazione con la bontà della materia in sé. Se invece la materia è male, come fa Dio a sporcarsi le mani con la nostra carne? Di conseguenza: niente incarnazione, passione, morte, risurrezione, sacramenti, dove ci vuole l’acqua, l’olio, il pane e il vino, e uomini in carne e ossa, come sono anche i preti.

Di questo pensiero evanescente ma accattivante si erano già accorti san Giovanni nel suo vangelo, san Paolo o chi per lui nelle lettere cosiddette pastorali e, tra i primi scrittori dopo gli apostoli, specialmente sant’Ignazio, vescovo di Antiochia e martire a Roma nel 107, preoccupato, come poi sant’Ireneo, di smascherare le idee dei cosiddetti doceti. Secondo questi tali, proprio per loro disagio nei confronti della carne, il Figlio di Dio si sarebbe fatto uomo «in apparenza» (in greco dokései), non davvero. Per alcuni di loro, come riporta Tertulliano nel trattato La carne di Cristo, Gesù sarebbe sceso bell’e grande dal cielo. Una specie di Wanda Osiris che sentimentalmente discende tra lustrini e bagliori. Un’apparizione incantevole: tutti a bocca aperta e via. Sarebbe ridurre il cristianesimo a una iridescente bolla di sapone …

Meno male c’è il credo. Basta quello breve, dove si legge tra l’altro: «Nacque da Maria vergine; fu crocifisso, morì e fu sepolto; risuscitò. Credo la risurrezione della carne». Vera nascita, vera morte, vera risurrezione, quella di Cristo per la nostra vera risurrezione. La festa dell’Assunta sa di tutto questo, e noi fratelli e figli ne possiamo odorare il profumo. Un profumo di immortalità, avrebbe detto sant’Ignazio di Antiochia.




Bernardo di Chiaravalle, il combattente di Dio

Z_CAP005_052di Francesco Vermigli Bernardo di Chiaravalle, chi era costui? Se non siamo al livello del Carneade di don Abbondio, tuttavia c’è il rischio che il nome di questo abate sia ricordato solo per una preghiera alla Madonna che il divin poeta ci presenta recitata dal Nostro alla fine del suo capolavoro. Oppure, potrà esser capitato che un qualsivoglia appassionato di quel medioevo che risuona dei nitriti dei cavalli e dello sferragliare delle armi dei cavalieri, si sia imbattuto nel nome di questo asceta, alla predicazione della seconda crociata. Il teologo attento alla storia della teologia, infine, se lo ricorderà protagonista della vicenda dolorosa e complicata della condanna degli scritti di Abelardo. Insomma, quando il medio lettore pensa a Bernardo apre – per così dire – una serie di link a: Maria Vergine, Dante, una certa iconografia, crociate, Abelardo… Ma Bernardo fu molto più di questo.

Perché il secolo XII può ben dirsi il “secolo di Bernardo”, lui che nacque attorno al 1090 e morì il 20 agosto del 1153. In effetti, sulla sua figura convergono tutte le energie di questa stagione straordinaria che annuncia e prepara l’epoca della Scolastica e delle Università, degli ordini mendicanti e delle autonomie cittadine. Bernardo è figlio di quella regione che nel nome Borgogna (da Burgundi) porta iscritta una storia diversa dal resto della Francia. Appartiene alla piccola nobiltà cavalleresca della zona; e c’è da chiedersi se quel temperamento battagliero che le cronache dell’epoca e i suoi scritti ci trasmettono, non debba molto a questa sua origine. Succede che questo giovane rampollo dell’aristocrazia borgognona attorno al 1113 decida di incamminarsi sulla strada della vita religiosa e abbracciare il monachesimo cisterciense; quel monachesimo che prende il nome da Cistercium, cioè dal luogo in cui un gruppo di monaci andava sperimentando da una ventina d’anni una religio riformata rispetto alla tradizione benedettina, in modo particolare rispetto alla forma di vita cluniacense. Zelanti agiografi ci faranno sapere in seguito che tale scelta e la fortuna che il monachesimo bianco avrebbe riscosso durante la vita di Bernardo, erano state preannunciate alla madre in forma allegorica in un sogno, mentre ancora era incinta del figlio. Perché, in effetti, quando Bernardo giunge a Cistercium / Cîteaux lo slancio originario della riforma monastica pareva già essersi estinto; ma il giovane borgognone – oltre a doti personali che ben presto avrebbe dimostrato – portò una trentina circa di amici e parenti a rimpinguare l’esausta comunità religiosa. Poco dopo il suo ingresso a Cîteaux fu mandato dall’abate a fondare una nuova comunità, quella di Clairvaux (italianizzata in Chiaravalle) che – assieme alle decine di altri monasteri collegati a questa fondazione – resterà per sempre segnata dalla figura e dal nome di Bernardo.

Ed è in questo ambito monastico riformato che l’abate esercitò anche la sua arte letteraria, che nel panorama della cultura mediolatina si distingue per tratti inconfondibili: quel tono oratorio, cioè, quella trama intrecciata di riferimenti biblici, quello stile mai piano, ma avvolgente, debordante di immagini e suggestioni; e poi quel ritornare continuo su tematiche ascetiche, l’invito lanciato ai monaci ad avere presente da dove provengono e a vedere con l’occhio di una tenace speranza la meta a cui tendere; e nel cammino che unisce l’origine e la meta l’esortazione a resistere nella fatica, ché quel cammino conduce a partecipare alla stessa Gerusalemme dei cieli. Perché, per Bernardo, chi entra al Cistercio è già in qualche modo cittadino della città celeste, separato dai santi e dagli angeli solo dalla pesantezza del corpo terrestre: all’arcivescovo di Lincoln fa sapere in una lettera che un tale Filippo prete di quella diocesi che era partito per la Terrasanta, si era fermato a Chiaravalle; ma così facendo – aggiunge Bernardo – ha raggiunto la meta tanto desiderata, non la Gerusalemme terrena, ma quella dei cieli, eterna, madre nostra.

Eppure quell’appassionato delle gesta della cavalleria medievale e delle crociate che abbiamo immaginato sopra, potrebbe far notare la contraddizione con i dati della biografia di Bernardo di cui è a conoscenza: perché, sì, Bernardo affermava la superiorità della religio cisterciense, ma predicò il pellegrinaggio armato nei Luoghi Santi. Oppure lo storico della teologia potrebbe far notare lo stridente contrasto tra la pacifica vita claustrale e l’intraprendenza un poco guascona e furbesca con cui risolse la questione-Abelardo. Ma sappiano – tanto l’ipotetico appassionato di crociate, quanto l’eventuale storico della teologia – che sono in buona compagnia, se Bernardo definì se stesso la “chimera del suo mondo”, un essere che viene additato da tutti come bizzarro; come accade ad un monaco che passò metà della sua vita a promuovere la crociata, a combattere le eresie, a ricomporre gli scismi, a sedare le intemperanze teologiche. Perché questo fu Bernardo: monaco, sì, ma anche pellegrino per le strade di un mondo molto più vasto del suo monastero.




La collaborazione tra le Facoltà Teologiche per promuovere la qualità degli insegnamenti e della ricerca.

logo_facoltadi Stefano Tarocchi • È noto che la S. Sede ha una propria agenzia, l’AVEPRO deputata a valutare e sostenere la qualità degl’insegnamenti e della ricerca delle Facoltà e delle Università riconosciute dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica. La stessa Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (FTIC) ha recentemente ricevuto la visita della commissione incaricata di stilare un parere esterno motivato, che va ad affiancarsi al rapporto di autovalutazione che è stato prodotto dalla medesima istituzione accademica.

Meno noto il fatto che va avanzando a grandi passi con l’aiuto della stessa AVEPRO, come conseguenza delle varie valutazioni, il procedimento di accreditamento delle Facoltà Teologiche situate nella nostra penisola presso il Ministero italiano dell’Università e della Ricerca (MIUR) in vista dell’adesione alla carta Erasmus plus, per la mobilità di studenti e docenti, e della partecipazione ai programmi operativi regionali e nazionali. Questo è un passaggio delicato verso un obiettivo da tempo dichiarato in attesa del compimento del “processo di Bologna”: riconoscimento civile dei titoli rilasciati da una facoltà teologica riconosciuta dalla S. Sede, che in questo caso garantisce i propri titoli (baccalaureato, licenza e dottorato), ma anche i titoli rilasciati dagli istituti superiori di scienze religiose, e dagli istituti teologici affiliati ed aggregati.

Si tratta di un percorso non semplice, data la singolarità situazione italiana in cui sono presenti alla trattativa oltre alla Conferenza Episcopale nazionale ed il MIUR, anche Segreteria di Stato, e che oltre al tipo di riconoscimento che prevedeva il Concordato del 1984.

Una delle chiavi dell’accreditamento della ricerca teologica condotta in una comunità accademica come quella di una Facoltà teologica, indipendente o inserita nel contesto di una università, è la capacità di intessere relazioni anche con altri istituti analoghi in Italia e nel mondo, per uno scambio effettivo di studenti e docenti che va oltre lo specifico linguistico in una chiave rafforzata di grande collaborazione, seppure nelle rispettiva autonomia.

In tale contesto, la FTIC ha firmato recentemente a Breslavia (Wrocław) il quarto accordo di collaborazione e di scambio di docenti e studenti, nonché di programmi di ricerca comuni, con la Pontificia Facoltà Teologica della città che nel 2016 sarà capitale europea della cultura.

L’accordo con Breslavia segue quelli con Cracovia e Lublino (entrambe le Università, riconosciute dallo stato, sono intitolate a Giovanni Paolo II), con Poznań (Università Adam Mickiewicz), in attesa del perfezionamento di un quinto accordo con un’istituto polacco: quello con l’università di Varsavia, l’università statale Stefan Wyszynsky.

Quest’anno significativamente un docente di Cracovia terrà un corso alla FTIC, che avrà anche un docente invitato proveniente da Varsavia. In questo caso la lingua di insegnamento sarà l’italiano, favorita dalla formazione italiana (nello specifico romana) degli stessi docenti.

Come si evince quella polacca è al pari di altre realtà europee (come Austria e Germania) un mondo a parte, dove la teologia è ammessa a pieno titolo nel numero delle facoltà riconosciute e sostenute dallo stato, sebbene con modalità diverse a seconda delle situazioni geografiche. Anche qui è interessante la chiave linguistica: lo stato polacco finanzia infatti le riviste degli istituti teologici a patto che si aprano a lingue come l’inglese, il francese e anche l’italiano.

L’italiano, sia detto in parentesi, è la quarta lingua maggiormente insegnata nel mondo (dopo le “lingue inglesi” – ossia l’inglese come lingua franca –, il cinese, lo spagnolo), che ha i suoi punti di forza nelle sue espressioni di successo (dal cibo, alla moda, alla musica, alle Ferrari!) e uno sponsor d’eccezione come papa Francesco.

È per ragione anche della lingua italiana che il preside della FTIC è stato chiamato all’interno di almeno due comitati scientifici, come «Poznań Theological Studies / Adam Mickiewicz University in Poznań – Faculty of Theology», e alle riviste delle Facoltà di Lugano e di Breslavia.

Ritornando alla facoltà di Breslavia fu esclusa dal numero delle facoltà dell’università statale dopo il II conflitto mondiale, anche se nel 2004 ottenne nuovamente il riconoscimento statale. Per la sua storia e il suo prestigio il decano della medesima facoltà (corrispondente al preside di una facoltà teologica in Italia) conserva il titolo di Rettore, attualmente il prof. Włodzimierz Wołyniec, e il consiglio della stessa istituzione è denominato “senato accademico”. Si tratta una facoltà che ha attualmente circa 700 studenti. Nella sua sede, collocata accanto alla Cattedrale della città, in una splendida posizione lungo il fiume Odra (Oder in tedesco), è in costruzione il nuovo edificio della biblioteca, progettato con criteri ultra avanzati caratterizzati da una tecnologia raffinata, che conterrà circa cinquecentomila (!) volumi, in larga parte “a scaffale aperto”. Il rettore ha posto la firma insieme al prorettore per le relazioni internazionali, prof. Sławomir Jan Stasiak, e alle autorità accademiche della FTIC: il preside e il segretario generale uscente.

L’accordo con Breslavia si accompagna a quello con lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, e gli accordi con le Facoltà e Università Teologiche, dalla Facoltà Teologica di Lugano a quella dell’Italia Settentrionale (Milano), come capofila, fino alla Pontificia Università Gregoriana, al Laterano e all’Angelicum, dalla S. Croce alla Facoltà Teologica del Triveneto (Padova) che partecipano alla Summer School di Archeologia e Geografia Biblica, organizzata sempre a Gerusalemme da diversi anni (dal 2008). Quest’anno prevedeva anche per la prima volta un lettorato di ebraico biblico, all’interno di un corso di introduzione al giudaismo. È altresì allo studio il perfezionamento del II livello del corso di Archeologia e Geografia Biblica.

Accordi sono stabiliti infine anche con l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano per l’assegnazione di diplomi congiunti di dottorato.




La Rivoluzione economica della “Laudato Sì”

Udienza generale di Papa Francescodi Leonardo Salutati • Nel V capitolo dell’enciclica Laudato si, nel IV paragrafo dedicato a Politica ed economia in dialogo, al n. 193 riflettendo sul tema dello «sviluppo sostenibile», Papa Francesco osserva che sono maturi i tempi per «una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti», richiamando a proposito Benedetto XVI che, nel Messaggio per la giornata mondiale della pace del 2010, rilevava la necessità «che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso». In questa sua considerazione Benedetto XVI riprendeva quanto già espresso nellaCaritas in veritate (n. 49) che, a sua volta, si rifaceva ad affermazioni di Giovanni Paolo II nel Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1990 e di Paolo VI nella Populorum progressio.

Queste precisazioni per dire che il parlare di Papa Francesco di «decrescita» merita qualche puntualizzazione, per evitare di cadere nell’equivoco di ritenere che il pontefice sposi la teoria della decrescita. Infatti per il contesto in cui è inserito il termine “decrescita” sarebbe più corretto dire “redistribuzione” (Zamagni), in quanto la teoria della decrescita vuole essere piuttosto una critica ai processi economici attuali che determinano il superamento della capacità di carico della Terra, con un giudizio fortemente negativo sulle tendenze socio-economiche del mondo intero, che arriva lapidariamente alla condanna dello sviluppo: non di un certo tipo di sviluppo, identificabile magari con il liberismo più estremo, ma proprio dello sviluppo come tale (S. Latouche, W. Sachs, L. Brown, M. Wackernagel). In particolare nel movimento della decrescita troviamo un’”anima conviviale”, che richiama ad una civiltà non dominata dal principio di razionalità strumentale e che non vuole che tutto sia organizzato per settori funzionali e per corpi professionali. In breve si tratta di un’ideologia efficace in fase critica, ma non in fase propositiva, che da adito a galassie di esperienze economico-sociali scoordinate, caratterizzate da precarietà e frammentazione, nella convinzione che tutti indistintamente devono “decrescere” per evitare la miseria di tanti ed essere così più felici (Latouche).

La proposta del Papa è chiaramente di altro tipo. Essa mira a promuovere uno sviluppo «sostenibile e integrale» (LS 13), chiedendo espressamente ai Paesi con più mezzi di esercitare la solidarietà. Una categoria fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa, che già Paolo VI aveva declinato con modalità analoghe a quelle di Papa Francesco quando al n. 47 diPopulorum progressio, ricordando che l’esercizio della solidarietà internazionale esigeva «molta generosità, numerosi sacrifici e uno sforzo incessante», invitava ciascuno ad esaminare «la sua coscienza, che ha una voce nuova per la nostra epoca», per verificare se fosse «pronto a sostenere col suo denaro le opere e le missioni organizzate in favore dei più poveri… a sopportare maggiori imposizioni affinché i poteri pubblici siano messi in grado di intensificare il loro sforzo per lo sviluppo… a pagare più cari i prodotti importati, onde permettere una più giusta remunerazione per il produttore… a lasciare, ove fosse necessario, il proprio paese, se è giovane, per aiutare questa crescita delle giovani nazioni».

Pertanto Papa Francesco non è contro lo sviluppo e l’economia di mercato, ma contro una «tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi» (LS 21); contro un mercato che non è capace di contrastare «la cultura dello scarto», di recepire «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta», di considerare «che tutto nel mondo è intimamente connesso», di accogliere «l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso», di stimare «il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale» (LS 16).

Nel solco della grande e tradizionale visione sociale cristiana, è un invito a riformare il modello di sviluppo sociale e globale e un monito a considerare che lo sviluppo umano o è integrale oppure non è sviluppo.




La fraternità non è un optional, neanche nei rapporti economici

Mons_mario_Tosodi Giovanni Campanella Nell’odierno scenario di accentuato individualismo, si ritiene molto spesso che il successo economico sia il risultato di un mix di scaltrezza, aumento e implementazione delle proprie personali potenzialità, esclusiva fiducia in tali potenzialità, velocità nell’anticipare l’altro, capacità di persuadere l’altro a una malintesa “santa rinuncia”. Inserire in questo quadro il concetto di fraternità è una stonatura forte. Al massimo, si può pensare la fraternità come concessione anti-economica in vista dell’ottenimento di “punti paradiso” da far valere nei tempi ultimi. Contrapponendosi a questa visione, il vescovo Mario Toso, già Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, in un suo recente libretto intitolato “Per un’economia che fa vivere tutti” (Libreria Editrice Vaticana, 2015), accenna a considerazioni di pontefici e vescovi sull’utilità “terrosa”, palpabile, che la fraternità può (e deve) produrre. Del resto, le recenti crisi sembrano indicare che piuttosto è la mancanza di fraternità e conseguentemente l’eccesso di individualismo a produrre sensibili disutilità e danni alla collettività.

Nella Evangelii Gaudium (=EG) di Papa Francesco, Toso individua 3 messaggi principali per l’ambito economico. Il primo è che il mercato non può essere totalmente lasciato ai suoi meccanismi spontanei: è necessaria una regolamentazione. Esasperare la teoria della “mano invisibile”, ritenendo che la somma degli individualismi conduca automaticamente ad una allocazione ottimale delle risorse per tutti e probabilmente fraintendendo le originarie idee di Adam Smith, porta a effetti deleteri. Bisogna riconoscere che purtroppo esiste una forza in noi che contrasta il soffio dello Spirito: la minaccia della formazione di oligopoli e la tendenza all’abnorme concentrazione di soldi e potere in poche mani sono sempre in agguato.

In secondo luogo, la EG esorta a valorizzare la Dottrina Sociale della Chiesa (=DSC). Essa evidenzia che le relazioni interpersonali e comunitarie sono ciò su cui maggiormente l’uomo è chiamato a scommettere, traendone poi frutti anche in campo economico.

Il terzo e decisivo messaggio riguarda il nostro concetto chiave, la fraternità: la EG infatti suggerisce che «la fraternità non è una virtù da confinare nelle sacrestie o nelle chiese, ma è il lubrificante che rende le relazioni fertili, è quell’asimmetria del dono in grado di avviare percorsi di reciprocità, che rendono le interazioni umane vive e vitali» (Toso, pp. 9-10). La fraternità può trovare espressione nella prospettiva di un’economia cosiddetta “sociale”.

Alla fine del XIX secolo, già Leone XIII getta le basi dell’idea di economia sociale, pur non nominandola esplicitamente: il pontefice, pioniere della DSC, auspica un intreccio tra economia di mercato, legislazione sociale statale e forme solidaristiche fra lavoratori dipendenti e ceti popolari. Questo concetto è esplicitato chiaramente da Pio XI: c’è economia sociale «quando a tutti e singoli i soci saranno somministrati tutti i beni che si possono apprestare con le forze e i sussidi della natura, con l’arte tecnica, con la costituzione sociale del fatto economico; i quali beni debbono essere tanti quanti sono necessari sia a soddisfare ai bisogni e alle oneste comodità, sia promuovere tra gli uomini quella più felice condizione di vita, che, quando la cosa si faccia prudentemente, non solo non è d’ostacolo alla virtù, ma grandemente la favorisce (cfr. S. Th., De regimine principum, 1, 15; enc. Rerum novarum, n. 27)» (Lettera enciclica Quadragesimo anno, n. 76). Pio XII mette al centro dell’economia sociale la persona nella sua globalità e relazionalità; non l’individuo, come può accadere in un certo sfrenato liberismo, né lo Stato (concepito come soverchiante Leviathan che si attribuisce una dignità superiore a quella dei membri da cui è composto), come può accadere in sistemi economici totalmente e rigidamente pianificati. Giovanni XXIII, nella sua Pacem in terris (soprattutto ai nn. 70-74), guarda con favore alla creazione di un’autorità politica mondiale che possa efficacemente controllare dinamiche di dimensione ormai globale e guidare il moto di fraterna convergenza di tutti i popoli. Dopo la Quadragesimo anno, il concetto di “economia sociale” è esplicitamente ripreso dall’enciclica Centesimus annus (=CA) di Giovanni Paolo II. Per la CA, un’economia sociale prevede la conservazione dei meccanismi positivi del libero mercato, opportunamente sorvegliato dallo Stato e dalle forze sociali, una crescita equilibrata dei vari settori e un capitalismo inteso come «sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia» (CA n. 42). Secondo la Caritas in veritate (=CIV) di Benedetto XVI, la logica del dono, espressione della fraternità, deve trovare posto entro la normale attività economica.

Se l’economia reale deve essere prima di tutto al servizio dell’uomo, lo spirito di diaconia deve allora permeare doppiamente il mondo finanziario monetario: ha poco senso una finanza non al servizio dell’economia reale. Tutta la finanza va ripensata in termini più etici. «Non basta – ricorda la CIV – che si sviluppino “segmenti” di finanza etica, come conti e fondi di investimento. E’ sempre controproducente porre rattoppi nuovi su un vestito vecchio (cf. Mc 2,21)» (Toso, p. 69). D’altra parte, il denaro non va demonizzato: «Gesù non chiede a Zaccheo di cambiare il proprio lavoro, né di denunciare la propria attività commerciale; lo induce solo a porre tutto, liberamente ma immediatamente e senza discussione, al servizio degli uomini» (discorso di Papa Francesco ai membri del Consiglio dei capi esecutivi per il coordinamento delle Nazioni Unite, 10 maggio 2014 ).




Il ministero degli sposi cristiani come servizio alla pace: spunti ecclesiologici e biblici

9faefe5f1bdi Gianni Cioli Severino Dianich e Serena Noceti nel loro Trattato sulla chiesa (Brescia 2002) all’interno del capitolo sui ministeri dedicano un ampio paragrafo al “ministero degli sposi”: se è vero che ogni cristiano, in quanto parte di un popolo sacerdotale è chiamato a servire alla crescita del Regno di Dio nella storia, i coniugi cristiani saranno certamente coinvolti in questo servizio e lo saranno in modo più specifico in virtù del loro matrimonio. Per gli sposi cristiani si prospettano innumerevoli forme di servizio al Regno di Dio nella testimonianza della carità e nell’annuncio del vangelo.

A partire da questa premessa mi sembra opportuno riflettere sulla specifica vocazione della coppia cristiana – nella chiesa che è sacramento, cioè segno e strumento di unità (cf. LG 1) – a essere segno e strumento di pace, ovvero a testimoniare, a partire da legame coniugale, la possibilità di superare il ricorso alla violenza nelle relazioni umane.

La pace in senso biblico non significa infatti semplice assenza di violenza in atto: è il riflesso nelle relazioni umane del progetto eterno di Dio, ed è frutto della giustizia. Si può affermare che il rovescio della pace biblica è il dominio dell’essere umano sul proprio simile.

Su questa base potremmo giungere a interpretare il sacramento del matrimonio come chiamata a superare la tentazione del dominio nelle relazioni affettive.

Per comprendere meglio quest’ipotesi propongo di accostare dialetticamente due brani biblici.

Il primo, Gen 3,16, riporta le parole rivolte dal Signore Dio alla donna dopo che la coppia edenica ha mangiato dell’albero di cui gli era stato comandato di non mangiare: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il brano ha conosciuto una variegata vicenda interpretativa ed è stato letto ora come sentenza divina che impone il dominio maschile a rimedio delle conseguenze della trasgressione, ora, al contrario, come presa d’atto degli effetti del peccato con la descrizione di una dinamica di dominio che dovrebbe essere contrastata.

Il secondo brano, Mt 20,25-28, riferisce invece le parole rivolte da Gesù ai discepoli che si erano indignati per la richiesta avanzata dai figli di Zebedeo di avere una posizione di privilegio nel Regno da lui annunciato: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Secondo Enrico Chiavacci il passo illustra esattamente la logica del Regno di Dio e illumina il senso, intrinsecamente sociale, della morale cristiana (cf. Teologia morale 2, Assisi 1980, 103). Dalle parole del Signore risulta con chiarezza che il cristiano è chiamato a superare ogni logica di dominio nelle relazioni che lo coinvolgono.

In coerenza con questa vocazione fondamentale del cristiano si può cogliere nel sacramento del matrimonio una specifica chiamata a testimoniare la pace individuando nel conflitto uomo-donna la cifra originaria del dominio conflittuale che affligge la storia ma che i cristiani sono chiamati a superare.

Il libello di ripudio (cf. Mt 19,3-8) poteva essere segno emblematico di questo dominio e della rassegnazione umana sull’impossibilità di ritrovare l’antico progetto di pace divino. Gesù, interrogato sul matrimonio, annuncia la novità della pace originaria ridonata («i due saranno una carne sola […] non sono più due, ma una carne sola»: Mt 19,5-6). Alla luce di Ef 5,25-32 si può sviluppare la dimensione battesimale e pasquale della vita matrimoniale («per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato da una parola»: Ef 5,26). La dimensione pasquale può permetterci di evocare l’esodo («l’uomo lascerà…»: Ef 5,31), innanzitutto da se stessi, come condizione necessaria per ritrovarsi nell’altra/altro come in “terra di benedizione”. Il lasciare se stessi, la propria vita, come condizione per trovare nell’altra/altro una nuova pienezza di vita (“una carne sola”) non può prescindere dall’esperienza esistenziale della partecipazione alla croce di Cristo, come via della pace («per mezzo della sua croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia»: Ef 2,16). Tale partecipazione, postulata dalla struttura pasquale della stessa esistenza cristiana inaugurata dal battesimo, trova nel matrimonio una singolare espressione.

La generazione dei figli in un contesto postmoderno può, per certi versi, rientrare nel paradigma dell’esodo pasquale come abbandono di sé: coraggio di perdere la propria vita per trovarla nel dono (cf. Mt 16,25; Gv 12,24-25). Nella società complessa l’accoglienza dei figli sfida la coppia a gestire nuovi motivi di conflittualità (ripensamento e ricomprensione della complementarità dei ruoli); al tempo stesso la presenza di un bambino bisognoso d’amore, d’attenzione e di cure è segno tangibile di quella logica del regno di Dio che gli sposi cristiani sono chiamati ad annunciare e a testimoniare (cf. Mt 18,1-5).




Europa: la lezione di Atene ed il gigante (Germania) senza autorità

ristampamanifestodi Antonio Lovascio  Forse ha ragione un filosofo inquieto ma ficcante nelle sue disamine come Massimo Cacciari, che molto ha tratto dalla lunga esperienza di sindaco a Venezia e di parlamentare: la crisi greca ed ancor più quella che sta attraversando la costruzione dell’unità politica europea, se non altro ci fanno comprendere che le relazioni tra popoli e culture investono problemi leggermente più complessi di quelli che sono in grado di affrontare non solo banche e ragionerie centrali, ma anche diplomazie e politici di professione. Il “realismo degli stenterelli” lascia qualche varco a considerazioni, per così dire, metapolitiche – di natura teoretica e pratica – indispensabili per interpretare la visione che un Paese ha di se stesso e dei suoi rapporti con gli altri. Certo, la storia insegna poco, poiché tutto muta (fuorché l’uomo), ma può tuttavia orientarci.

E non ci sarebbe nemmeno bisogno di scomodare Machiavelli e Guicciardini per spiegare una verità lampante, che è sotto gli occhi di tutti: la Germania nella Ue ha raggiunto con la pace l’obiettivo (già fallito scatenando due guerre mondiali) di conquistare l’egemonia in Europa. Vuole recitare la parte del gigante che comanda, ma i Trattati non le danno questa autorità. E così, come hanno giustamente rilevato molti osservatori – e tra questi l’autorevole Eugenio Scalfari, che fa opinione nel popolo della variopinta Sinistra italiana- da qualche tempo sta aleggiando sul Vecchio Continente uno spirito decisamente anti-tedesco. Che è aumentato dopo il caso-Grecia. Ci sono due componenti che fanno lievitare l’antipatia verso la Merkel e Schäuble, il falco del rigore: l’europeismo che si sente tradito e l’anti-europeismo che vede in Berlino il vero pilastro d’una Europa dittatoriale.

Ma non mancano altri segnali preoccupanti: c’è uno spirito anti-europeo che domina sempre di più l’opinione pubblica teutonica, che auspica una Germania sola, autosufficiente e autoreferente, “Hüber alles”, come recitava l’inno nazionale hitleriano. Ora fortunatamente Hitler non c’è più, ma a volte scopriamo una realtà amara: chi vive in quella terra quasi snobba gli abitanti delle altre Nazioni che fanno parte della Comunità europea, se si escludono quella che una volta si chiamava Inghilterra e la Francia, avversario storico per quasi un millennio, partner di summit ristretti sull’asse Parigi-Berlino che partoriscono solo soluzioni inadeguate.

La lezione di Atene (dopo che il “NO” alle prime condizioni poste da Bruxelles ha vinto il referendum irritando ancora di più gli altri 18 Paesi di Eurolandia) è chiara e, soprattutto, non va sprecata. Ma il conto del semestre “pueblo unido” del duo Tsipras -Varoufakis, e della carovana internazionale corsa a supportarli, è pesantissimo. In cifre aride: una manovra da 12 miliardi (il “grande no” richiesto a Tsipras valeva 8,5 miliardi di sacrifici) , oltre il 6 per cento del PIL in due anni. E’ come se l’Italia eseguisse un “aggiustamento” di Bilancio da 100 miliardi di euro entro la fine del 2016: una Finanziaria “lacrime e sangue” tipo quella varata nel 1992 dal governo Amato!

A pagare oggi questo “salasso” – nonostante l’immissione di liquidità della BCE di Mario Draghi – saranno i greci, costretti a subire riforme radicali. Non gli armatori o i magnati con i soldi al riparo nei cosiddetti paradisi fiscali; ma i pensionati, gli studenti, i poveri, il variegato fronte che ha sostenuto Syriza e i suoi alleati della destra nazionalista, ha votato No alla consultazione popolare, e ora subisce un piano molto più punitivo di quello che avevano ottenuto i vecchi, screditati partiti. E il conto dei populismi rischia di essere altrettanto salato in altri Paesi. A cominciare dal nostro. Pure un premier intimorato come Renzi (ha appena detto a Bruxelles di “non fare la maestrina”) si sta accorgendo che la battaglia contro l’austerity e per la crescita passa attraverso una tela faticosa di alleanze internazionali, di riforme interne, di tagli alla spesa (finora finiti nelle slides e nei nei libri più che nei bilanci), e infine attraverso un confronto durissimo con una Cancelliera che ha vinto tre elezioni, si appresta ad affermarsi nella quarta (2017) e dietro ha una grande coalizione e un Paese solido.

Ora tutta l’Europa, a rischio di default, paga il prezzo dell’incertezza ed è di fronte ad un bivio, a due scelte ineludibili: o mantiene le attuali regole dell’Unione, accettando il rischio che l’eurozona si ridurrà in un futuro non lontano ad una unione tra Germania e Paesi nordici; oppure chiarisce il contenuto del più ambizioso progetto di Europa politica – uno Stato Federale – elaborato con il Manifesto di Ventotene (1941). Progetto, di cui la Francia è altalenante paladina, rifiutandosi di cedere la necessaria sovranità nazionale. Oltre a dotarsi di nuove regole, l’Ue ha bisogno più che mai di coinvolgere i cittadini – lo ripete spesso Papa Francesco – in un processo che renda visibili i vantaggi e non solo i costi dell’integrazione. Deve chiarire dove (e perché) vuole andare, tracciando un percorso realistico e condiviso, senza farsi trascinare dall’iniziativa di Stati più forti. Lo saprà fare, pur vivendo una imbarazzante crisi di leadership in molte sue Nazioni? Soprattutto saprà convincersi rapidamente che  dopo l’avventura greca, non potrà più essere la stessa? Noi europei dobbiamo soprattutto sperare che si avveri la previsione di Romano Prodi, già presidente della Commissione Ue: <A salvare l’Europa sarà una forza esterna che ci costringerà ad un compromesso». Gli Stati Uniti? La Cina ? Washington e Pechino temono entrambi un evento deflagrante. Hanno paura che uno sfaldamento progressivo dell’euro provochi una nuova tempesta in tutto il sistema economico e politico mondiale. Ancora una volta, come è accaduto in Iraq, in Ucraina e in altri scenari, l’Europa vedrà condizionate le sue decisioni da spinte esterne: americani e cinesi faranno di tutto per salvare la nostra moneta. Ma sarà l’ulteriore dimostrazione che l’Europa ha perso la sovranità su se stessa.




Il per-dono via alla libertà

resizerdi Alessandro Clemenzia È sempre più vicino l’8 dicembre, giorno che ricorda il cinquantesimo della chiusura del Concilio Vaticano II e segna l’inizio dell’anno giubilare straordinario: la vicinanza di tale evento è avvertita non soltanto per lo scorrere del tempo che accorcia le distanze, ma anche dai gesti di Papa Francesco che richiamano a volgere lo sguardo verso quella misericordia di Dio, di cui la Chiesa è e deve essere sacramento, cioè segno e strumento. Da qui si comprende la triplice missione della Ecclesia: predicare, celebrare e praticare la misericordia, come ha affermato il cardinale Walter Kasper nella lectio magistralis tenuta nell’ultima inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Vita-Salute San Raffaele (Milano).

È proprio all’interno di questa autocoscienza ecclesiale che trova la sua contestualizzazione più profonda il discorso che Papa Francesco ha tenuto al Centro di Rieducazione Santa Cruz – Palmasola, in occasione del suo ultimo viaggio apostolico in Bolivia, lo scorso 10 luglio.

In quell’incontro, alla presenza di un numero considerevole di detenuti con le loro famiglie, la misericordia di Dio è stata predicata, celebrata e praticata soprattutto attraverso le profonde testimonianze di chi sperimenta nel quotidiano una mancanza di libertà; di fronte ad esse il Santo Padre si è presentato come colui che ha fatto esperienza di essere perdonato: «Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato». Nessuno può arrivare a perdonare se stesso o gli altri se prima non ha fatto esperienza di essere perdonato a sua volta.

L’uomo deve lasciarsi determinare in modo così radicale dalla misericordia del Padre, vale a dire da Cristo, da riuscire a guardare tutta la realtà che lo circonda con un occhio nuovo, anche quando il luogo, oggetto dello sguardo, è “significato” dagli errori commessi. Afferma ancora Francesco: «Quando Gesù entra nella vita, uno non resta imprigionato nel suo passato, ma inizia a guardare il presente in un altro modo, con unaltra speranza».

L’atto del perdono di sé, dunque, nasce dalla consapevolezza di essere stati perdonati, e non attraverso un atto esterno e dall’alto, ma attraverso un atto interno e dal basso: si ha a che fare infatti con «un amore che ha preso sul serio la realtà dei suoi». Questo «prendere sul serio» ha sicuramente un significato morale, ma anche ontologico: può anche fare riferimento, infatti, a quell’assunzione della natura umana da parte del Verbo divino. E proprio in quanto assunta, tutta lumanità viene “guarita”, “perdonata”, “rialzata” e “curata” dal di dentro (tutti verbi utilizzati dal Papa): attraverso questa entrata nell’umano del divino viene restituita all’uomo la propria identità perduta, «una dignità che possiamo perdere in molti modi e forme».

Questa coscienza di essere perdonati porta a sua volta a “perdonare” se stessi come vero e proprio atto di libertà personale, in quanto è la via di uscita dell’uomo da ogni possibile isolamento: è ciò che lo rende idoneo ad essere-dono-di-sé, e dunque aperto.

Un atto legislativo di con-dono, emesso da una qualsiasi autorità competente, può raggiungere la sua pienezza quando chi lo riceve ha fatto un’autentica esperienza del per-dono.

Non è, tuttavia, solo levento dell’incarnazione a fungere qui da chiave di lettura per comprendere in cosa consista il perdonare; viene recuperato anche levento del Golgota: è al Crocefisso risorto infatti che Papa Francesco chiede di volgere lo sguardo, a Colui che non solo ha assunto la realtà dei suoi, ma ne ha anche condiviso la piaga, manifestando in tal modo la “misura senza misura” della misericordia del Padre.

Anche il perdono, in realtà, ha l’intensità e la forza che manifesta il Crocefisso: una “misura senza misura”. Jacques Derrida, nel suo saggio Perdonare. L’imperdonabile e l’imperscrittibile, in risposta a un testo del filosofo Vladimir Jankélévitch, Perdonare?, in cui affermava che non si può in alcun modo arrivare a perdonare certi crimini contro l’umanità, come le atrocità naziste, dice proprio che il perdono ha sempre a che fare con l’imperdonabile, in quanto è al di là di ogni logica di scambio, ed implica una modalità di relazione totalmente gratuita.

Una tale presentazione di sé da parte del Papa come uomo perdonato funge da bussola per i carcerati, che ogni giorno subiscono le conseguenze dei loro atti, a vivere da subito l’esperienza della libertà come via di uscita dall’isolamento, che porta a perdonare prima di tutto se stessi, sapendo distinguere l’io dalle proprie scelte. A cominciare da questo riconoscimento, un carcere può divenire luogo di rieducazione e riammissione alla vita sociale.




Europa e Sudeuropa

Alcide_de_Gasperi_2di Andrea Drigani Il mito di Europa nasce proprio nel Sudeuropa, precisamente in Grecia: Europa è la figlia di Agenore, re di Tiro, rapita da Giove, trasformatosi in toro, da lui portata nell’isola di Creta e qui, ripreso il suo vero sembiante, Giove avrà da Europa un figlio: Minosse. Con la parola Europa, a partire dal geografo greco Strabone vissuto nel I secolo a.C., si indica un preciso ambito territoriale con una sua configurazione ed è la più piccola delle tre parti della Terra (insieme all’Asia ed all’Africa) tradizionalmente riconosciute nel mondo antico. La civiltà europea esordisce con tre elementi fondanti, tutti provenienti dalla parte meridionale del suo territorio: la cultura greca, il diritto romano ed il cristianesimo. Quest’ultimo nasce in Palestina, ma attraverso la predicazione missionaria degli Apostoli, in particolare quella di San Paolo, approda e si diffonde subito in Grecia, nella penisola Iberica ed a Roma. La poesia di Omero e la filosofia di Platone e di Aristotele si espandono, sia pur gradatamente, all’intero continente. Nel Medioevo, le scholae di Sant’Alberto Magno (1193-1280), del Beato Giovanni Duns Scoto (1265 ca.-1308) e di San Tommaso d’Aquino (1224-1274), raggiungono tutti gli ambienti intellettuali fino agli estremi confini nordici. Il diritto romano, nonostante il caos provocato nella pars Occidentis dell’Impero dalle invasioni dei popoli germanici, continua ad esistere e ad essere vigente, sia perché nella pars Orientis l’imperatore Giustiniano (482-565) fa redigere il Corpus iuris civilis, che costituisce, senz’ombra di dubbio, una delle basi dell’unità politica e giuridica europea, sia poi per la formazione del Sacro Romano Impero, prima quello carolingio poi quello ottoniano. Il monachesimo benedettino, anch’esso d’origine sudeuropea, si incontra e si amalgama con le tradizioni celtiche, germaniche e slave e si propaga in tutto il continente. Dal binomio dell’ora et labora si sviluppa la preghiera, il canto, la lettura biblica in comune, ma anche l’agricoltura, la bonifica di paludi, il rimboschimento, le scuole e le biblioteche che metteranno al riparo e conserveranno la sapienza antica. La monarchia francese di Filippo il Bello (1268-1314), la caduta di Costantinopoli nel 1453 col conseguente espansionismo turco, la riforma luterana del 1517, lo scisma d’Inghilterra del 1534, sono all’insegna di un particolarismo nazionale e religioso. E’ un periodo nel quale l’idea politica di Europa è assai lontana dalle menti dei governanti e degli abitanti, ciò non toglie che un dotto e sensibile umanista il senese Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), che diverrà Papa nel 1452 col nome di Pio II, cominci ad usare la parola europaeus (che con lui entra nell’uso comune) per invitare, appunto, i capi europei ad un’alleanza per difendersi dall’aggressione ottomana, ma per i contrastanti e prevalenti interessi statali e mercantili non venne preso in considerazione l’appello papale per fare una Lega. Nel periodo che va dal secolo XVI al secolo XVIII, contrassegnato da guerre e conflitti per ricercare egemonie ed equilibri, sembra che il «sentire europeo» sia quasi scomparso, eppure lo storico e filosofo napoletano Giovan Battista Vico (1668-1744) dedica la prima Scienza nuova «alle Accademie di Europa», facendo un pubblico riconoscimento di quella unità culturale cristiana che ravvisava nell’Europa del suo tempo. Egli scrive: «L’Europa cristiana sfolgora di tanta umanità, che vi si abbonda di tutti i beni che possono felicitare l’umana virtù non meno per gli agi del corpo che per i piaceri così della mente come dell’anima». Vico constata, dunque, un primato civile dell’Europa, globalmente concepita, ed esclude l’idea di primati particolari che considera un’offesa all’unità spirituale, biasimando la boria delle nazioni essendo tutte egualmente debitrici del loro patrimonio civile ad un unico principio generatore: il cristianesimo. Nell’Ottocento, un modo nuovo di pensare all’Europa principia a farsi strada in maniera assai consistente. Per il Beato Antonio Rosmini (1797-1855) l’unità europea già esiste come unità di civiltà e di storia, da quando il cristianesimo raggiunse l’anima dei barbari; ma ogni tentativo di sostituire una nuova legge a quella di Cristo, donde è nata la respublica christianorum, è fallito sia con l’illusione di una egemonia che con quella della politica di equilibrio. Una buona regola di convivenza fra gli Stati d’Europa non può essere basata sul diritto segregato dalla religione e questa intesa, secondo Rosmini, come fatto interiore che si esplica nella moralità e giustizia delle azioni come delle relazioni internazionali. Nella prima metà del Novecento l’Europa è sconvolta e devastata da due guerre terribili e tremende, come mai aveva avuto nella sua storia, nonché dai totalitarismi, hitleriano e staliniano, tanto da apparire un cumulo di macerie morali e materiali. Ancora una volta dal Sudeuropa viene un ragguardevole contributo per l’unità politica del continente , sono da ricordare il conte Carlo Sforza (1872-1952), Ministro degli Esteri italiano prima e dopo il regime fascista, che nel suo volontario esilio svolse un’opera culturale notevole per favorire l’esprit europèen et international ed in particolare tre capi di Governo della Repubblica Italiana : Alcide De Gasperi (1881-1954), che promosse, tra l’altro, la fondazione del Consiglio d’Europa e della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio); Mario Scelba (1901-1991), che ricoprì l’incarico di Presidente del Parlamento Europeo; ed Emilio Colombo (1920-2013) che per la sua intensa attività di europeista fu insignito, nel 1979, del Premio «Carlo Magno» e nel 2011 della Medaglia d’oro «Jean Monnet». La parola sud, da concetto geografico che indica la regione meridionale di una nazione o di un continente o della Terra stessa, ha talvolta assunto anche una connotazione socio-politica per significare arretratezza economica e culturale, conservazione, con un senso se non di disprezzo almeno di discredito. Questo luogo comune, però, non si può applicare al Sudeuropa, come pare evidente dalla sua storia, che è quella più antica di tutto il continente. Le società sudeuropee possiedono delle peculiarità diverse da quelle nordeuropee, poiché provengono da percorsi complessi per giungere, tuttavia, a traguardi essenziali ed imprescindibili per l’intera Europa.




L’opzione teologale per i poveri. Spunti dal pensiero di G. Gutiérrez

2240-8-350x500di Dario Chiapetti A seconda dell’impegno con cui si decide di prendere in esame l’annosa e spinosa problematica della povertà si possono provare a tracciare le linee portanti della risposta a due interrogativi ancora più profondi: chi è Dio e chi è l’uomo. È in quest’ottica che si muove il teologo Gustavo Gutiérrez, che, con la pubblicazione della sua opera programmatica del 1971, Teologia della liberazione, ha dato nome e vita alla corrente di pensiero che tanto ha stimolato la riflessione teologica, non senza vive tensioni e riserve. La teologia, interrogata soprattutto dai problemi presenti nella situazione economico-sociale dell’America latina, e, in sinergia con essa, il magistero ecclesiale, hanno colto la sfida del fenomeno della povertà sia a livello teologico che pastorale e politico. Giovanni Paolo II parlò delle cause umane della povertà, presentata non più come un destino ineluttabile che il povero deve rassegnatamente accettare e il ricco cercare di alleviare solo con le opere di carità; Benedetto XVI, dal canto suo, ne ribadì particolarmente il significato teologico: “l’opzione preferenziale per i poveri – disse ad Aparecida – è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero, per arricchirci con la sua povertà“; Francesco, da ultimo e a partire dalla sua esperienza di vita a Buenos Aires, ha indicato la motivazione del suo invito pastorale rivolto a tutti di attuare l’immagine di una Chiesa in uscita verso le periferie: andare incontro al povero significa andare incontro al Signore; in ultima istanza, comprendere e sperimentare l’amore di Dio stesso.

In Perché Dio preferisce i poveri. La teologia della liberazione è sempre attuale (Emi 2015) Gutiérrez ripercorre, sintetizza e rilancia il suo pensiero proprio alla luce degli ultimi sviluppi in campo sociale ed ecclesiale.

Per una prima comprensione della problematica della povertà il teologo peruviano espone delle riflessioni di carattere sociologico che mettono in luce innanzitutto la sua complessità: essa non è un fenomeno inerente solo l’aspetto economico ma anche sociale, culturale, razziale, di genere; in secondo luogo il suo carattere di realtà globale: i poveri non sono solo i nostri vicini o, di contro, soggetti di un astratto terzo mondo, la povertà è un fenomeno dalle vaste dimensioni e onnipresente nella geografia politica mondiale; da ultimo e soprattutto, il suo significato di menomazione della dignità umana: essa infligge una sorta di senso di insignificanza o, peggio ancora, di inesistenza.

La povertà non è un destino ma un’ingiustizia. Quest’ultima considerazione permette di compiere il passaggio dalla prospettiva sociologica a quella teologica: “alla radice della povertà – scrive Gutiérrez – vi è l’ingiustizia, che è il rifiuto di amare; in altre parole il peccato”.

Nel Vangelo si incontrano due tipi di povertà: quella materiale e quella spirituale, o come la chiama l’Autore, infanzia spirituale. Ebbene, l’opzione preferenziale per i poveri – espressione propria di Gutiérrez – deve essere rivolta verso coloro che appartengono alla prima categoria; la povertà, infatti, non rientra nel progetto di Dio che è fatto per la vita.

Come dire a un povero – si chiede l’Autore – che Dio lo ama? Occorre innanzitutto che vi sia qualcuno che glielo annunci; ma anche che questo qualcuno glielo mostri nella carne, che si faccia uno con lui in tutto, secondo quel principio che altro non è che quello dell’incarnazione: l’opzione fondamentale per i poveri è perciò la modalità per risiedere in tale divino principio dinamico e perpetuarlo.

È solo risiedendo nel suddetto movimento che si manifestano i peculiari tratti di Dio che, a loro volta, assumono l’uomo. L’amore per i poveri è quello che meglio incarna, da un lato, la gratuità dell’amore divino (esso non esige niente in contraccambio); dall’altro, la tensione tra le dimensioni di universalità e particolarità proprie della dinamica auto-rivelativa di Dio: la particolarità (l’opzione per i poveri) è, a ben guardare, finalizzata ad aprire alla concretezza dell’amore e alla sua universalità.

Tale opzione risulta quindi una chiamata universale, per poveri e non. Essa si struttura sia secondo un livello pratico-sociale: essa “richiede di raggiungere i poveri e di camminare con loro. Riguarda la distribuzione del nostro tempo e delle nostre energie e risorse materiali […] riguarda il nostro impegno con la giustizia”; sia secondo un piano teologico: la teologia della liberazione – asserisce l’Autore – parte dai problemi pastorali, l’esperienza è il locus theologicus di ogni riflessione,le domande più profonde sono sempre quelle pastorali […] la teologia per essere buona deve essere utile. Deve aiutare la Chiesa ad annunciare il Vangelo […] nel linguaggio contemporaneo”.

In definitiva, l’opzione per i poveri è la partecipatio compiuta al movimento trinitario: l’Amore si comunica per sua stessa natura, e specialmente nei poveri, che hanno maggior spazio in sé per accoglierlo, trova il suo massimo inveramento.