Presentazione degli articoli del mese di agosto 2017

0815-wwAndrea Drigani nel centenario della Lettera di Papa Benedetto XV ai Capi dei popoli belligeranti riflette sul ruolo del diritto internazionale per la promozione della pace nel mondo. Giovanni Campanella presenta il libro di Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo che tratta il tema del rapporto tra il sistema pensionistico ed il mercato del lavoro. Dario Chiapetti introduce alla lettura di due saggi di Hans Urs von Balthasar, per la prima volta tradotti in italiano, al fine di contribuire alla comprensione della dimensione escatologica della teologia. Antonio Lovascio tenendo conto dei dati statistici richiama l’attenzione sul grave problema dell’occupazione giovanile che fa emergere, accanto alle immigrazioni, anche le nuove emigrazioni. Alessandro Clemenzia dalla recensione di alcuni studi sulla riforma ecclesiale dal Vaticano II a Papa Francesco, rileva che la molteplicità trova nell’unità la sua forma relazionale attuativa. Mario Alexis Portella nel ricordare la visita del Presidente USA Richard Nixon in Cina, che segnò l’inizio rapporti commerciali con l’Occidente, ma non della tutela dei diritti umani, illustra lo stato attuale delle relazioni tra la Santa Sede e la Cina. Francesco Vermigli in occasione della festa liturgica, il 9 agosto, di Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) ripropone il suo pensiero filosofico e teologico come antidoto alla crisi della civiltà occidentale. Carlo Parenti annota sulla recente pubblicazione del carteggio tra monsignor Loris Francesco Capovilla, segretario di Giovanni XXIII, e padre Davide Maria Turoldo, che costituisce un ulteriore contributo alla storia del cattolicesimo italiano del Novecento. Stefano Tarocchi per contribuire ad una maggiore comprensione dell’annuncio evangelico, si sofferma sulla distinzione e sulla correlazione tra «parabola» ed «allegoria». Gianni Cioli svolge alcune osservazioni su un Documento della Santa Sede, di qualche tempo fa, sulla tossicomania, che contiene però indicazioni di grande attualità sia per l’aspetto morale che per quello pedagogico. Leonardo Salutati da un messaggio di Papa Francesco alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali sull’ampliamento della nozione di giustizia, trae alcune conclusioni da applicare al sistema bancario e finanziario. Giovanni Pallanti dopo un viaggio nell’Italia Meridionale esprime delle considerazioni circa quell’ambito culturale e religioso. Stefano Liccioli commentando la lettera dei vescovi delle diocesi interessate al Cammino di Santiago, ripropone il senso teologale di ogni pellegrinaggio: la preghiera, il discernimento personale e la cura del proprio rapporto con Dio. Carlo Nardi ancora in compagnia di San Martino ci invita a tener sempre presente la verità e la difficoltà del rapporto tra la «potestas sacra» e l’«imperium».




Nel solco di papa Giovanni XXIII. Lettere inedite di David Maria Turoldo e Loris Francesco Capovilla

padre-Davidedi Carlo Parenti • David Maria Turoldo e Loris Francesco Capovilla sono due uomini che hanno scommesso la loro vita sul vangelo al servizio della Chiesa, partecipi delle vicende della società e attenti ai bisogni degli “ultimi”. Due uomini che hanno attraversato il Novecento, accomunati nel loro credo, nell’aver capito la “svolta” del Concilio ecumenico vaticano II e l’indicazione giovannea dei “segni dei tempi”, uniti nel loro amore per la Parola, ma anche per la poesia, la cultura. Due uomini chiaramente diversi, ma che hanno condiviso la passione per l’annuncio, una sensibilità autentica nelle modalità per portarlo agli uomini del loro tempo e per testimoniare, di fatto, la loro quotidiana esperienza di cristianesimo, incarnandola nella storia del “secolo breve”.

Il 26 maggio 2017, in occasione del primo anniversario della morte del Card. Loris F. Capovilla, è uscito il libro di David Maria Turoldo e Loris Francesco Capovilla “Nel solco di papa Giovanni– lettere inedite ” a cura di Marco Roncalli e Antonio Donadio, con la postfazione di Gianfranco Ravasi e Bruno Forte (Servitium editrice).Questo epistolario “a due voci” è formato da cinquantasei testi in larga parte autografi risalenti al periodo 1963-1991: diciannove inviati da Turoldo a Capovilla e trentasette da Capovilla a Turoldo.

È Giovanni XXIII, scrivono i curatori, «il silente terzo protagonista» di questo intenso scambio epistolare: «Ci è parso bello, dopo aver riletto più volte quel che è stato possibile sino a oggi recuperare della loro corrispondenza, custodita tra le carte regestate nell’archivio di Fontanella, farne partecipi altri lettori».

Pur se dalle lettere non si evince la completa e complessa biografia di queste due grandi figure i curatori osservano che esse costituiscono tuttavia una valorosa testimonianza perché «possono ancora dirci qualcosa in più di questi due uomini che tanto hanno parlato e scritto». E con riferimento alla comune attenzione di Capovilla e Turoldo alla fede e alla poesia scrivono: «Aveva ragione Mario Luzi, amico di padre David, ad affermare che fede e poesia sono due (ammesso lo siano) termini o polarità di cui è impossibile parlare distintamente. Chi li ha chiari e certi e li vive in consapevolezza, non importa se armoniosa o disarmonica, dentro di sé non può tenerli separati, non ci riesce, non gli è dato» .

Leggendo l’epistolario emerge come Turoldo venga accompagnato con calore e stima da mons. Capovilla nel dareCapovilla.cardinal2014 forma alla sua iniziativa di fare di Fontanella di Sotto il Monte un luogo aperto al dialogo, all’accoglienza, un “laboratorio” di rinnovata spiritualità e di linguaggio liturgico. Del pari mons. Capovilla viene compreso e sostenuto da Turoldo nel servizio chiamato a rendere alla Chiesa nella diverse sedi cui è stato destinato e infine nel luogo del suo ritiro a Sotto il Monte.

Mi colpisce una lettera di Turoldo (3 marzo 1967) che ai tempi –a cagione dell’essere un resistente sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso di ispirazione conciliare- veniva accusato di non essere fedele alla Chiesa: «Dio sa la mia fedeltà alla Chiesa, alla gerarchia, sa la particolare devozione al Pontefice; e sappiamo tutti cosa costa una vocazione. E che dire di questa stampa, di questa nostra stampa italiana, letta e prediletta soprattutto in certi nostri ambienti romani? Sa i dispiaceri che ho avuto io in passato a causa del Borghese? E certi Monsignori che si muovevano in base ad accuse del Borghese o del Tempo, o altro di simile! Io sono pronto a patire di più che per il passato, ma per cose nobili, per ragioni che valgono e non per questi atti che spesso non sono neppure testimonianza di amore alla verità e alla Chiesa. Perché amore alla Chiesa vuol dire anche rispetto all’uomo chiunque esso sia: nel nome del Signore. Che, se vogliono sapere, io non mi sono mai trovato bene — nella Chiesa — come ora: e non ho che da lodare Iddio per essere sacerdote nel mio tempo. Ma non posso rispondere di quanto altri dicono o pensano di me. Invece sono pronto, come sempre ad accettare tutte le correzioni e i richiami che mi vengono dai miei superiori in carità fraterna. E di ciò non ho che da ringraziare il Signore perché così mi aiutano a salvarmi da eventuali errori. Scrivo, predico, e sono un bersaglio facile: ma sono anche contento di soffrire qualche cosa per la Chiesa. Tanto più quando sono aiutato da una carità e da una amicizia come la sua. Pronto dunque ad altri richiami e sempre disposto a dire grazie».

Infine -come scrive Gabriele Nicolò sul L’Osservatore Romano del 24 maggio 2017- “non meno significativa, e assai toccante, è la lettera che Capovilla scrisse a Turoldo, da Chieti, il 27 ottobre 1969”: «Mio caro Fratello, le voglio bene… La prego di programmare una passeggiata sin qua. Allora avremo modo di parlare a ruota libera». E nel constatare che le delusioni non mancano mai, Capovilla sottolinea che «i contatti veri sono difficili». Quindi è bene coltivarli e tutelarli. E infine dichiara: «Salvare la propria libertà è una tragedia continua»”.




Per un cammino autentico verso Santiago de Compostela

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di Stefano Liccioli • Sono sempre di più le realtà ecclesiali (ma non solo) che, soprattutto nei mesi estivi, rilanciano la proposta di compiere, tutto o più spesso in parte, il Cammino di Santiago de Compostela.

I destinatari della proposta sono in particolar modo i giovani, anche se quella del Cammino è un’esperienza accessibile pure a chi ha diverse “primavere” alle spalle.

In questa sede non intendo né ricostruire la storia del Cammino né offrire delle indicazioni pratiche su come affrontarlo. Dal momento però che in questi ultimi decenni è aumentata la filmografia e la pubblicistica sull’itinerario “compostelano”, così come sono molte le persone che, per vari motivi (non solo religiosi, dunque) e da diverse parti del mondo, lo compiono, ho trovato significativa la lettera pastorale scritta in questo mese dai vescovi responsabili delle diocesi che sono attraversate dal Cammino. Il messaggio è rivolto principalmente a chi fa accoglienza e ospitalità cristiana lungo l’itinerario (santuari, chiese, case religiose e monasteri), ma le indicazioni contenute sono, a mio avviso, importanti anche per i pellegrini, per vivere in maniera autentica questa esperienza.

I prelati dunque danno alcuni consigli pratici: tenere i prezzi accessibili a tutti, rendere “visibili, ma senza esagerare” i segni esteriori delle strutture d’accoglienza cristiane, mettendo un crocifisso all’entrata o nelle sale, un’effige di San Giacomo apostolo, consegnare ai pellegrini una guida informativa sul Cammino, proporre alle persone in viaggio la partecipazione a liturgie specifiche in diverse lingue. Interessante anche la raccomandazione dei vescovi sul modo di accogliere i pellegrini: non come giornalisti che intervistano gli ospiti né come psicologi che obbligano gli altri a parlare. Un luogo che si definisce “cristiano” – precisano i prelati– è per natura “aperto a tutti, fraterno e gioioso” e “nessuno sarà obbligato a esprimersi”. Un’ospitalità, dunque, improntata all’esempio ed alla gioia, che conduca il pellegrino per il cammino di san Giacomo e lo aiuti a meditare, a ritrovare se stesso e a scoprire Dio nel suo profondo”.

Preghiera, discernimento personale, cura del proprio rapporto con Dio: sono gli elementi principali che caratterizzano l’esperienza del Cammino di Santiago e lo posso testimoniare in prima persona. Nell’agosto del 2010 in occasione dell’Anno Santo Compostelano ho partecipato alla proposta estiva del Centro Diocesano di Pastorale Giovanile di Firenze che mi ha portato, insieme ad altri giovani, a fare a piedi alcune tappe del Cammino per un totale di 160 km.

Mi sono sono reso conto che il Cammino già di per sé costituisce una scuola di vita che insegna la conoscenza di sé, il valore della fatica per arrivare alla meta, l’importanza di saper discernere le cose essenziali per il viaggio, la solidarietà con gli altri compagni, la bellezza del Creato che invita a pensare. Fare il Cammino significa percorrere una strada segnata in centinaia di anni dai passi di uomini e donne di ogni estrazione sociale, vuol dire seguire un itinerario che non è subordinato alle logiche della moderna viabilità finalizzata alla rapidità degli spostamenti, ma che intende educare spiritualmente le persone. E come non ricordare poi tutti quei paesini che nell’era della globalizzazione non meriterebbero forse di essere menzionati, ma per un pellegrino sono preziosi perché rappresentano l’arrivo, l’accoglienza di ospiti generosi.

Infine la città di Santiago, i luoghi in cui nel 1989 sono risuonate le parole di Giovanni Paolo II alla Giornata Mondiale della Gioventù, il passaggio attraverso la Porta Santa della Cattedrale, la Messa, la preghiera sulla tomba di San Giacomo che venne ad evangelizzare la Spagna.

Ovviamente c’è chi percorre la strada per Santiago anche per motivi culturali, turistici o comunque non religiosi. Ma guardare al Cammino solamente come ad una bella esperienza di trekking è molto riduttivo.

Concludo con una nota più nostrana e che riguarda la Via Francigena. Mi auguro che in vista del prossimo Anno Santo del 2025 questo itinerario che attraversa anche una parte del nostro Paese possa essere rilanciato e valorizzato (soprattutto per quel che concerne le strutture, lungo il percorso, destinate all’accoglienza) in maniera sistematica, con un stretta collaborazione tra realtà civili ed ecclesiali, rifuggendo inutili particolarismi locali.




Parabola o allegoria?

allegoria-sacra-particolare-bambinidi Stefano Tarocchi • La liturgia delle domeniche di questa estate ci mette di fronte ad una sezione importante dei Vangeli sinottici, quella detta delle parabole. Fra l’altro nella lingua italiana dal termine greco «parabola» deriva il nostro «parola».

Ora, secondo il dizionario della Treccani, la parabola è la «narrazione di un fatto immaginario ma appartenente alla vita reale, con il quale si vuole adombrare una verità o illustrare un insegnamento morale o religioso; nell’ebraismo rabbinico la parabola era molto comune nella predicazione e nell’insegnamento e fu questa appunto la forma originale dell’insegnamento di Gesù. Il termine è riferito oggi esclusivamente alle quarantanove contenute nei Vangeli sinottici».

Contemporaneamente, secondo la stessa fonte, l’allegoria (dal greco “parlare d’altro”) è una «figura retorica, per la quale si affida a una scrittura … un senso riposto e allusivo, diverso da quello che è il contenuto logico delle parole. Diversamente dalla metafora, la quale consiste in una parola, o tutt’al più in una frase, trasferita dal concetto a cui solitamente e propriamente si applica ad altro che abbia qualche somiglianza col primo, l’allegoria è il racconto di una azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato apparente».

Così leggiamo nel vangelo di Marco, dopo che Gesù ha raccontato la parabola che apre il capitolo 4: «Quando furono da soli [con Gesù], quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli diceva loro: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato». E disse loro: «Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole?» (Mc 4,10-13). Qui ovviamente non è possibile affrontare tutta la complessa questione evocata dal racconto del vangelo secondo Marco, e poi confluita nei paralleli di Matteo e Luca. Vorrei invece opporre il racconto della parabola vera e propria alla sua riscrittura allegorica.

Cominciamo accostando la parabola del seme e del seminatore, così come si trova nello stesso vangelo di Marco: «Cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva. Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento: «Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno». E diceva: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!» (Mc 4,1-9; cf. Mt 13,1-9; Lc 8,4-8).

Ed ecco quindi di seguito la sua narrazione allegorica, originata dall’interrogazione dei discepoli, che «lo interrogavano sulle parabole»: «il seminatore semina la Parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la Parola, ma, quando l’ascoltano, subito viene Satana e porta via la Parola seminata in loro. Quelli seminati sul terreno sassoso sono coloro che, quando ascoltano la Parola, subito l’accolgono con gioia, ma non hanno radice in sé stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola, subito vengono meno. Altri sono quelli seminati tra i rovi: questi sono coloro che hanno ascoltato la Parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, soffocano la Parola e questa rimane senza frutto. Altri ancora sono quelli seminati sul terreno buono: sono coloro che ascoltano la Parola, l’accolgono e portano frutto: il trenta, il sessanta, il cento per uno» (Mc 4,14-20; cf. Mt 13,18-23; Lc 8,11-15).

Gesù ha appena detto che ai discepoli, e ai Dodici, «è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4,11-12).

Il Vangelo riprende qui la parola del profeta Isaia, nel momento preciso della sua chiamata, quando davanti alla visione del Signore sul suo trono, circondato dai Serafini con sei ali ciascuno egli esclama: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!». Egli disse: «Va’ e riferisci a questo popolo: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete”. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito» (Is 65,6-10).

La missione dell’uomo di Dio, ossia il profeta Isaia, che dovrà compiere la sua missione davanti alla sua apparente inutilità, viene trasportato all’interno del Vangelo: è Gesù che la continua.

Gesù narra del seme che ad una lettura superficiale viene gettato su suoli dalla natura differente, dovuta alla normale pratica di semina al tempo e nel luogo dove si compie la sua missione.

Questa è la parabola, che ha dunque un unico orizzonte di riferimento, dato dall’apparente vanità di una fatica, su terreni sassosi e spinosi, e sulla strada, compensata però dall’abbondanza più che straordinaria del raccolto sul terreno buono. E qui l’importanza è da collocarsi sul seme e sul seminatore: la parola che egli porta non si fa annientare da nessuna fragilità e debolezza umana: è la missione di Gesù in ogni tempo, che continua nella comunità dei credenti in lui, anche se apparentemente fallimentare.

L’allegoria che accompagna la parabola, nata anch’essa all’interno della prima generazione cristiana, si sposta su un orizzonte complementare: quello del terreno che accoglie la parola. Qui sono importanti i singoli dettagli, che infatti vengono puntualmente spiegati. Ora il terreno che la accoglie la parola è importante, ma non può fermarne la straordinaria fecondità. In altri termini, i credenti dovranno sforzarsi di diventare il terreno fecondo, quello buono, ma non potranno mai sostituire sé stessi all’azione divina che Gesù lascia come compito alla comunità dei suoi discepoli.

Il «mistero del regno di Dio», affidato ai discepoli, e in particolare ai Dodici, verrà rivelato pienamente solo alla fine dei tempi. L’azione di Gesù, prende atto dell’incomprensione delle sue parole per «quelli che sono fuori», e anche della possibile indolenza degli stessi discepoli.

In sostanza, questo «mistero» è stato nascosto mediante le parabole, non «per la loro oscurità e complicazione – come scrive un commentatore –, ma proprio per la loro semplicità…: il significato delle parabole si svela solamente a colui che capisce che hanno a che fare con il Messia Gesù». Con la venuta del suo Figlio, Dio ha stabilito che è ormai il tempo di ascoltare la sua parola. Come scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2).




Chiesa droga e tossicomania. Attualità di un libro a cura del Pontificio consiglio per la pastorale della salute

 

602-408-20120531_125615_8BDFD351di Gianni Cioli • Quello della tossicomania appare sempre più, un problema di tragica attualità, come confermano dolorosi fatti di cronaca recente. Se è vero che la continua produzione di sostanze sintetiche nuove, a basso costo e di facile accesso, fa apparire la tossicomania un fenomeno sempre diverso, più pericoloso e difficile da contrastare a tutti i livelli, è anche vero che alla radice del medesimo possono esservi problematiche di fondo che rimangono sostanzialmente le medesime pur fra notevoli cambiamenti.

Se questo è vero possono essere ancora attuali molte considerazioni proposte nel volume Chiesa droga e tossicomania. Attualità di un libro a cura del Pontificio consiglio per la pastorale della salute (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001), frutto del convegno «Solidali con la Vita», sui problemi della droga e della tossicomania, organizzato dal Pontificio Consiglio della pastorale per gli Operatori Sanitari e svoltosi in Vaticano nel 1997.

L’opera si articola in cinque capitoli, ovvero, I: L’insegnamento di Giovanni Paolo II sul fenomeno della droga e della tossicomania; II: La tossicomania è un sintomo della dipendenza; III. Diventare liberi (dove si propone una riflessione teologico-pastorale, sulla questione della libertà); IV: Educazione e prevenzione; V: Atteggiamenti pastorali al servizio della liberazione della persona.

Il libro, per quanto inevitabilmente datato in molte parti relative alle questioni più tecniche, rimane probabilmente uno strumento utile, non soltanto per coloro che s’interessano in maniera diretta al problema della droga e della tossicomania, ma anche per tutti coloro che operano nel campo della pastorale giovanile in quanto offre criteri per interpretare i sintomi del disagio presente nei giovani, per individuare i soggetti a rischio, per intervenire a livello informativo e preventivo, per percepire i segnali di chi fa uso di sostanze e indirizzare verso terapie adeguate.

Ma, soprattutto, la lettura può risultare utile per una riflessione di carattere antropologico e morale. La droga non è soltanto una grave emergenza della nostra società che diventa urgenza pastorale per la chiesa, chiamata a operare nel campo della carità. È anche il segno di una crisi culturale che ci spinge a riflettere sul significato della vita della persona umana, della sua responsabilità, del suo essere parte della società. È il sintomo di una civiltà malata che deve rivedere, se non vuole implodere, i propri modelli di vita ritrovando valori profondi e comuni, insieme alla capacità di sperare. A partire dagli esiti distruttivi della droga sulla persona, dall’annientamento della sua libertà nella dipendenza, e riflettendo sui percorsi terapeutici necessari per uscire dal cerchio della tossicomania, si può, per antitesi, cogliere il senso della dignità umana e della conquista di una sempre più profonda libertà attraverso l’ascesi. Nella prospettiva della morale delle virtù, la tossicomania può essere letta come espressione limite del vizio d’intemperanza. Così, il valore della temperanza, considerata organicamente nel contesto di tutte le altre virtù, può ricevere luce dall’analisi fenomenologica della sua antitesi estrema. In questo quadro acquista un’importanza chiave il discorso relativo ai desideri e ai piaceri: «I desideri ed i piaceri compiono una funzione importante nell’economia interiore dell’individuo e costituiscono la dinamica su cui si basa la psicologia umana. Volerli trascurare o ignorare è spesso pericoloso per l’equilibrio della persona. Un’ascesi che volesse sopprimerli o un edonismo che cercasse di esaltarli danneggerebbero l’uomo, mentre è soprattutto opportuno saper stabilire una gerarchia tra desideri e piaceri» (pp. 66-67).

Al tema delle virtù e dell’equilibrio nei desideri e nei piaceri, si collega profondamente la questione pedagogica, ed è uno dei meriti maggiori del libro quello di mettere con lucidità in evidenza la realtà di una crisi degli educatori nella nostra società: «da diverse generazioni gli adulti incontrano serie difficoltà nel collocarsi come educatori». Questa crisi sarebbe da imputare, anche e non ultimamente, a una sorta di ideologia pedagogica «non-direttiva» che avrebbe preso campo nella cultura occidentale negli ultimi anni, con l’obbiettivo di evitare influenze indebite sulla libertà dell’educando. «Questo progetto, degno di stima nelle sue intenzioni, è però apparso privo di contenuto educativo e morale, come anche di una visione dello sviluppo progressivo del bambino. Ben presto, i sostenitori di questa pedagogia ‘non-direttiva’, i quali rimproveravano un eccessivo interventismo da parte degli adulti, hanno favorito un atteggiamento di dubbio da parte dell’adulto stesso e di timore di immischiarsi nella vita del bambino. Quest’ultimo è stato messo su un piano di eguaglianza con l’adulto, come se possedesse in se stesso tutto ciò di cui ha bisogno per svilupparsi. Il bambino inoltre è stato considerato come libero dalla nascita, di una libertà quasi assoluta da non ostacolare. Questa visione manca di buon senso perché il bambino non nasce libero: egli lo diviene grazie all’educazione che riceve, un’educazione legata alla concezione che noi abbiamo della persona umana integrale e dell’esistenza» (p. 128).




Ancora con san Martino. Nella solitudine della sua coscienza.

 

San_Martino_di_Toursdi Carlo Nardi • San Martino non era il tipo del vescovo da sgonnellare a corte. Aveva interrotto bruscamente e, a quanto pare, a suo rischio e pericolo una promettente carriera militare per farsi discepolo di Ilario di Poitiers, quel vescovo che aveva detto di temere gl’imperatori che ricoprivano d’oro la Chiesa più dei persecutori come Nerone o Diocleziano: guardarsi insomma da coloro che stuzzicano la pancia più che da quanti bastonano il groppone, come aveva scritto curiosamente sant’Ilario.

L’imperatore Massimo, da poco acclamato dalle truppe in Britannia e poi passato in Gallia per acquartierarsi in Treviri, mentre Graziano, il precedente sovrano, veniva candidamente fatto fuori, volle Martino a un banchetto a motivo della sua notorietà. Il vescovo obiettava al novello augusto i modi con cui era salito al potere. Quest’ultimo ribatteva che il suo successo non era senza una permissione divina e riuscì a strappargli l’invito. Anche la pia imperatrice aveva insistito perché il vescovo si lasciasse servire a mensa da lei stessa. Non di meno nella solenne mensa Martino non si peritò a passare una coppa onorifica a un suo prete segretario prima che all’imperatore.

Martino intendeva accettarne il potere come un puro dato di fatto? Di fatto il sospettato augusto aveva tutto l’interesse a far intendere che quella presenza episcopale era – come dire? – una spennellata d’acqua santa sul recenti trascorsi. Martino non la intendeva così.

Ritorna da Massimo per salvare la vita all’eretico Priscilliano, vescovo di Avila, e ai suoi seguaci: era giusta, per lui, la scomunica e la rimozione dall’ufficio, ma contestava che si intromettesse lo stato a infliggere la pena – e la pena di morte -, come invece insistevano molti altri colleghi spagnoli, capeggiati da un tale Itacio. Massimo pressato dagli interventisti cedette, e poi era anche il modo per ingraziarsi una discreta fetta di episcopato. Priscilliano fu giustiziato, mentre su Martino si spargeva la voce malevola che fosse in combutta con gli eretici.

E si capisce da chi. Martino torna a corte per mettere i suoi buoni uffici a ché il sovrano mon eliminasse due ufficiali dello staff del precedente imperatore Graziano e non attivasse un’epurazione cruenta di priscillianisti, caldeggiata seppur indirettamente da Itacio e compagni. Martino riuscì a convincere Massimo ad una condizione voluta dal sovrano: che Martino si mettesse in comunione con Itacio e il suo partito. Martino si limita ad assistere all’ordinazione d’un vescovo della cerchia di Itacio, non tra i peggiori. Il tutto però gli doveva essere sullo stomaco. Sulla via del ritorno ebbe bisogno di appartarsi ad esaminare la sua coscienza dilaniata tra i pro e i contra, tra motivi di rimorso e spiragli d’aver agito bene. Gli sarebbe apparso un angelo: gli avrebbe detto di riprendere cammino e le forze spirituali per non mettere a rischio la sua salvezza eterna. Fatto sta che da allora in poi Martino visse più che mai da penitente, in una specie di morte civile.

Il ragazzo Martino con un tratto di spada aveva diviso il mantello, certo delle ragioni del cuore davanti al mendicante infreddolito per immediata carità. Ora, vecchio vescovo, a contatto con gl’intrighi dei potenti, resta, per incerta carità, con un freddo nel cuore più lancinante del gelo che aveva percepito sulla sua pelle nella lontana notte di guardia ad Amiens.




Lavoratori contro lavoratori ?

Alessandra_Bocadi Giovanni Campanella • L’inganno generazionale – Il falso mito del conflitto per il lavoro è un piccolo saggio che tratta di lavoro e pensioni. A prima vista, sembra agile e divulgativo. In realtà, è un libro tecnico, di non facilissima lettura, accompagnato dall’analisi rigorosa di vari dati statistici. Non per nulla, le autrici sono Alessandra del Boca, professore ordinario di Politica economica all’Università di Brescia, e Antonietta Mundo, specialista nel campo statistico-attuariale. Il libro è stato pubblicato dall’Università Bocconi nel maggio 2017 all’interno della collana “Itinerari”.

Sono toccati vari temi, tra cui quello del “nefasto” divario tra facoltà scelte dai giovani italiani e quelle più utili alle imprese e quindi suscettibili di procurare maggiori retribuzioni (questione che invero potrebbe stridere un po’ con il tema cristiano della vocazione se ha come unico faro di orientamento l’utilità delle imprese e la maggiore remunerazione: la visione cristiana non annulla i bisogni degli altri ma chiede però di rispondere alla propria chiamata interiore usando come mezzo di discernimento anche i bisogni esterni), gli effetti del commercio globale e del progresso tecnologico sul lavoro, le ultime riforme del lavoro (tra cui il Jobs Act), le otto salvaguardie a favore di particolari categorie di lavoratori e il problema della riduzione della popolazione.

L’elemento centrale del saggio e forse più interessante (analizzato più in dettaglio nel sesto capitolo ma che percorre di fatto tutto il libro) è però la meticolosa critica alla cosiddetta “Lump of Labor Theory”, traducibile in italiano con “teoria dello stock fisso di lavoro”. Una conseguenza di questa teoria è l’idea che ritardare il ritiro dalla vita lavorativa riduca l’occupazione dei giovani.

«Questa non solo non è una legge generale, è un’idea basata su due ipotesi prive di fondamento empirico: la prima è che l’occupazione totale di un’economia sia fissa, la seconda è che giovani e anziani siano sostituibili tra loro sul mercato del lavoro. Molti studi economici mostrano che, nei paesi dove i lavoratori più anziani sono più attivi, tutti i gruppi di età ne beneficiano e si creano più posti di lavoro. Studi basati su molte fonti – come Ocse, Eurostat, Current Population Survey dell’U.S. Bureau of Labor Statistics – arrivano alla conclusione che il protrarsi della stagione lavorativa dei soggetti più anziani non produce perdite di lavoro per i giovani, ma ha anzi l’effetto esattamente opposto» (pp. 95-96).

La “Lump of Labor Theory” potrebbe avverarsi nel breve termine, in un momento di particolare staticità dell’economia, ma nel medio-lungo termine i flussi del mercato mutano e invalidano nuovamente tale teoria.

Legando questa questione anche a quella dell’immigrazione, alcuni studi non hanno riscontrato una significativa relazione inversa tra lavoratori immigrati e lavoratori nativi.

«Un altro fenomeno che si è provato a leggere alla luce di questa teoria è la partecipazione all’attività economica delle donne nei paesi Ocse, dalla seconda metà del ventesimo secolo: anche in questo caso, però, le donne aumentando la loro attività non hanno sostituito gli uomini e anzi il passaggio da uno a due percettori di reddito all’interno di una stessa famiglia ha fatto aumentare il reddito disponibile, creando nuova domanda di servizi e stimolando le imprese ad assumere di più» (p. 98).mundo_antonietta

Ritornando al presunto contrasto tra anziani e giovani, le due autrici ribadiscono che normalmente il pensionamento anticipato non solo non aumenta l’occupazione per i giovani ma anzi la riduce. Perché ? Perché il pensionamento anticipato disincentiva l’impresa ad accumulare capitale umano e inoltre aggrava il peso contributivo per le generazioni attive che quindi consumerebbero meno e decelererebbero così l’attività delle imprese stesse, in modo tale da disincentivarle ulteriormente ad assumere. Oltre a ciò,

«le età estreme sono destinatarie di una domanda di lavoro diversa, che sarà sempre più diversa con l’avanzare della tecnologia. La teoria economica suggerisce che qualsiasi sostituzione di un lavoratore con un altro è governata dalla somiglianza delle capacità che essi posseggono e i dati mostrano che lavoratori con competenze simili, che hanno anche solo cinque anni di differenza, sono imperfetti sostituti, cioè non sono facilmente sostituibili. Il progresso tecnico skill-based, caratteristico dell’attuale fase dello sviluppo che costantemente domanda nuove competenze, può ridurre ulteriormente la sostituibilità tra lavoratori di diverse età» (p. 100).

Più avanti, le autrici ammettono, in linea con un recente lavoro di Boeri, Garibaldi e Moen, che, nel caso particolare della congiuntura italiana, l’occupazione giovanile e quella degli anziani hanno in realtà un trend divergente. Ciò è dovuto soprattutto all’inefficienza del mercato italiano del lavoro.

«La riforma pensionistica ha avuto un suo peso nell’aumento dell’occupazione delle fasce più anziane, in questo periodo, perché i lavoratori sono stati trattenuti al lavoro per legge, tuttavia un ruolo importante va attribuito anche al funzionamento del mercato del lavoro: nei paesi in cui funziona bene, dove cioè la domanda incontra l’offerta qualificata o generica, questo fenomeno non si verifica. Purtroppo non è questo il caso dell’Italia, mentre è ciò che accade in Germania e in Norvegia e in altri paesi che pure hanno avuto riforme pensionistiche, ma che hanno un mercato del lavoro che funziona bene e non hanno aumenti della disoccupazione giovanile e dell’occupazione anziana. (…). Lavorare da anziani significa invecchiare meglio, ma anche poter contribuire alle necessità della famiglia allargata ed è un bene per l’intera società» (p. 104-105).

Dunque, niente più diffidenza tra lavoratore e lavoratore ! Ancora una volta la scienza convalida la ragionevolezza e la convenienza della cooperazione tra gli uomini.




«Una pace giusta e duratura» A cento anni dall’appello di Benedetto XV

1148025539380di Andrea Drigani • Cento anni fa, il 1 agosto 1917, Papa Benedetto XV inviava una Lettera ai Capi dei popoli belligeranti. Si tratta di un testo molto importante non solo da un punto di vista storico, ma perché contiene alcune annotazioni di grande e profonda attualità, che anche dopo un secolo meritano di essere rilette e riconsiderate. In questa Nota il Papa esordisce osservando che sin dall’inizio della prima guerra mondiale si era prefisso almeno tre obbiettivi: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti; uno sforzo continuo di fare il maggior bene senza distinzione di nazionalità o di religione; la cura assidua di nulla omettere, per contribuire alla fine di tale conflitto, inducendo i popoli e i loro Capi verso una pace «giusta e duratura», cioè una pace stabile e dignitosa per tutti. Purtroppo, constatava Benedetto XV, il suo appello non era stato ascoltato, e la guerra era proseguita, inasprendosi ed estendendosi per terra, per mare e nell’aria, facendo scendere la desolazione e la morte sulle città e i villaggi inermi. «Il mondo civile – osservava il Papa – dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro a un vero e proprio suicidio?». Benedetto XV dichiara di alzare nuovamente il grido di pace, e di presentare delle proposte concrete e pratiche per invitare i Governi dei popoli ad accordarsi sopra alcuni punti. Il primo e fondamentale – precisa il Pontefice – è che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto, attraverso un accordo sulla diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti e con l’introduzione dell’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo norme e garanzie da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all’arbitro o di accettarne la decisione. E’ il ristabilimento dell’impero del diritto, per Benedetto XV, ciò che può eliminare molteplici cause di conflitto ed aprire nuove fonti di prosperità e di progresso. E’ dunque un grande richiamo al ruolo insostituibile del diritto internazionale quello compiuto dal Papa. Un diritto originato dallo «ius gentium», cioè da quel complesso di norme che i Romani avevano in comune coi popoli civili dell’antichità o che essi vennero a creare nei rapporti con questi. Ma lo sviluppo teorico, in senso moderno, del diritto internazionale nasce nel pensiero cristiano attraverso l’opera del teologo domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (ca.1492-1546) che, col «De iure belli», può essere ritenuto il padre del diritto internazionale. Quanto ai danni e alla spese di guerra, Benedetto XV non vedeva altro soluzione che quella di una intera e reciproca condonazione, giustificata dai benefici immensi del disarmo. Il Papa affermava che uno spirito di equità e di giustizia avrebbe dovuto, poi, dirigere tutte le questioni territoriali e politiche. Benedetto XV riteneva che le sue proposte erano le basi sulle quali doveva posare il futuro assetto dei popoli. Nel presentarle aveva la speranza di vederle accettate e giungere «così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage». Dopo cento anni è da rilevare che tutti i Romani Pontefici, che sono succeduti a Benedetto XV, nel loro magistero e nella loro azione hanno reiterato e sviluppato l’appello per il disarmo, avversando la produzione e il commercio delle armi, hanno inoltre continuato a richiedere il rafforzamento delle organizzazioni internazionali per la promozione ed il mantenimento della pace nel mondo. Qualche passo in avanti è stato fatto, ma rimane ancora tanta strada da compiere. Non resta che rinnovare ai governanti di oggi l’invito col quale Benedetto XV, nel 1917, concludeva la sua lettera: «Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che voi, meritandovi il plauso dell’età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori».




La riforma ecclesiale parte dal pensare il pensiero

blog_1394805842di Alessandro Clemenzia È evidente che un medesimo e determinato oggetto può essere colto in modo molto differente a seconda dello sguardo del soggetto. Tale affermazione non implica un’obbligata caduta nel relativismo, ma chiede di porre l’attenzione sul “luogo” in cui si colloca chi guarda, in quanto è esso a determinare lo sguardo prospettico. E questo è ancor più vero non soltanto quando l’oggetto è il medesimo, ma soprattutto quando medesimo è il soggetto. Uno stesso soggetto, dunque, può interpretare in modo differente un oggetto in relazione al “da dove” egli decide di guardare.

Quanto affermato vale per i diversi ambiti del sapere, e, fra tutti, per la teologia. Soprattutto negli anniversari che ricordano il grande Concilio Ecumenico Vaticano II, come è recentemente avvenuto in occasione del cinquantesimo dalla sua chiusura, tale riflessione trova la sua attuazione. Più che parlare di sguardo prospettico o di “luogo”, si fa ricorso al termine “ermeneutica”: si tratta dell’interpretazione di un evento, privilegiando spesso una prospettiva rispetto alle altre. Come si può ben immaginare: non esiste un’unica ermeneutica del Concilio, ma numerose ermeneutiche, che ormai si distinguono fondamentalmente in due gruppi: l’ermeneutica della discontinuità e della rottura, da una parte, e l’ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, dall’altro.

Senza soffermarsi ulteriormente su questo argomento, basti qui ricordare che queste due ermeneutiche si sono spesso trovate in contrasto l’una con l’altra, non soltanto quando dovevano interpretare l’evento conciliare e i documenti da esso promulgati, ma anche quando si volevano contestualizzare teologicamente le parole e l’operato di Papa Francesco.

È uscito abbastanza recentemente un ampio volume della collana “Biblioteca di Teologia Contemporanea”, intitolato La riforma e le riforme nella Chiesa, a cura di A. Spadaro e C.M. Galli (Queriniana 2016). Si tratta della pubblicazione degli atti di un seminario di studi, tenutosi a Roma nella sede della rivista La Civiltà Cattolica (28 settembre – 2 ottobre 2015), che ha visto protagonisti una trentina tra ecclesiologi, canonisti, storici, ecumenisti e pastoralisti, provenienti dalle diverse parti del mondo, che hanno avuto modo di pensare insieme e interdisciplinarmente alcuni temi di maggiore rilievo nell’odierno contesto ecclesiale e sociale. Un evento che esprime il «ministero pastorale della teologia» (p. 11). L’origine, lo sviluppo e la finalità di questo evento, e di conseguenza del volume, come si legge sin dall’introduzione, è quello di «costituire un insieme vario di diversi contributi teologici di altissimo livello per pensare le riforme della e nella chiesa» (p. 9). L’oggetto della discussione, la riforma, ha richiesto ai partecipanti un particolare metodo di lavoro: «Ciascun processo deve essere capito in ogni momento. Per questa ragione la riforma ha bisogno di soggetti disponibili nei confronti dello Spirito e capaci di uscire da sé, in opposizione al fatto di concentrarsi su se stessi nelle forme dell’autoreferenzialità» (p. 11). Il tema della riforma, dunque, richiede un preciso esercizio del pensiero, personale e comunitario, che trova in Cristo la sua modalità espressiva: «il concetto di riforma spinge la chiesa a conformarsi in modo dinamico con la forma Christi» (p. 11).

Due le parole-chiave che fungono da bussola in questo volume: “sinodalità” e “rivoluzione della misericordia”. La sinodalità, lungi dal far riferimento esclusivamente a una forma istituzionale della Chiesa, «è l’espressione partecipativa e dinamica del carattere comunionale e peregrinante della Chiesa» (p. 12); la rivoluzione della misericordia fa riferimento a quella tenerezza di Dio, rivelata pienamente in Cristo, «che fa della misericordia l’asse portante che sostiene la vita, la missione e la riforma della chiesa» (p. 12). All’interno di questo orizzonte condiviso hanno preso le mosse i diversi contributi degli autori.

Recentemente è uscito un altro libro, in risposta al volume citato, scritto dal vescovo Agostino Marchetto, 27_agostino_marchettointitolato: “La riforma e le riforme nella Chiesa”. Una risposta (Libreria Editrice Vaticana 2017). L’autore, che da più di trent’anni ha dedicato la sua ricerca al Vaticano II, pur riconoscendo e apprezzando il lavoro di ciascun autore, scorge un certo tono monocorde del coro. Coro che, secondo quanto scritto nell’introduzione di Spadaro e Galli, ha dovuto comunque fare i conti con quella dinamica – tipica del pensare insieme – dell’uscire ciascuno da se stesso, con tutto il rischio che tale decentramento comporta. Di fronte a tale unilateralità, secondo l’autore, è necessario far sentire un’altra voce, «che si dirà forse tradizionale ma non tradizionalista» (p. 5). Di fronte a una marcata sottolineatura della dimensione sinodale e collegiale della Chiesa, egli desidera recuperare sì il ruolo della sinodalità, ma in relazione al primato petrino. Anche Marchetto, nell’offrire un’altra voce al coro, riprende le parole di Papa Francesco, soprattutto quando, a proposito della Chiesa sinodale, mostra il ruolo di Pietro che accompagna la Chiesa. Fondando la sua riflessione, dunque, sul Magistero pontificio attuale, l’autore rilegge, commenta e si pone in dialogo con ogni contributo, frutto del seminario – già menzionato – del 2015.

L’orizzonte all’interno del quale si è collocato Agostino Marchetto, come ha sottolineato chiaramente nel suo volume, è quello della riforma di rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa. Il recupero di tale ermeneutica, che ha fatto in qualche modo da sfondo a tutta l’elaborazione del volume, in risposta ad alcuni autori si è fatto più marcato.

La difficoltà di affrontare un tema quale quello della relazione tra primato e sinodalità sta nel trovare un metodo logico (teo-logico) che non si accontenti di passare dall’esclusivo “aut aut” all’inclusivo “et et”. Quest’ultima formula, infatti, pur ammettendo la coesistenza di entrambe la parti, non ne spiega tuttavia fino in fondo la dinamica che anima la relazione tra loro: infatti, al di là d’esserci sia l’uno che l’altro (primato e sinodalità), l’uno si dà nell’altro.

Non solo non mi scandalizza questo dibattito fatto di proposte e risposte teologiche, ma trovo in esso il fascino del pensare ecclesiale, che si esprime proprio nel tentativo di spiegare una molteplicità che trova nell’unità la sua forma relazionale attuativa. E in questo tentativo di comprensione si ha quella Ecclesia semper reformanda.




Edith Stein, il superamento dell’individualismo occidentale

58136d02674ca3225680416dlrm3jrdi Francesco Vermigli • Breslavia è la prima grande città che si incontra nell’attraversamento della Slesia, provenendo dalle regioni alpine. Breslavia è stata austriaca, poi prussiana e tedesca; ora – dopo la seconda guerra mondiale – Breslavia è città polacca. Per tutte queste vicende storiche, essa può essere considerata l’emblema di quello che si intende quando si parla di Mitteleuropa. Come la tolkeniana “Terra di mezzo”, la Mitteleuropa è un luogo dell’anima prima ancora che una condizione geografica; il luogo della complessità dell’evo moderno con le sue potenzialità, ma anche con le sue innumerevoli tensioni; la Mitteleuropa è il luogo della crisi di quella modernità che si era cullata nel mito ottocentesco delle magnifiche sorti e progressive. È l’epoca siglata dall’individualismo velato dall’assurdità e dall’inettitudine: quell’individualismo introspettivo e sofferto – fino a giungere alla nevrosi – che si vede ben rappresentato da Josef, protagonista kafkiano del Processo, e dallo Zeno de’ La coscienza di Zeno del triestino Svevo. Nell’ottobre del 1891 in quella stessa Breslavia mitteleuropea nasceva da una famiglia di origine ebraica colei che sarebbe diventata una promettente studentessa e che nella propria tesi – sostenuta a Friburgo, sotto la direzione di Husserl – reca un segnale del superamento della visione monadica dell’uomo, tanto prevalente in quella temperie culturale.

L’incontro con il professore capostipite della fenomenologia fu – come ben si sa – decisivo per lo sviluppo del pensiero di Edith Stein. È proprio la tematica della sua tesi sostenuta con Husserl a offrirci un’interessante chiave di lettura del posto occupato dalla giovane discepola nel quadro della cultura mitteleuropea. Già il tema della tesi dedicato all’empatia (Einfühlung) la pone infatti in una posizione non consonante con gli sviluppi dell’individualismo a lei contemporaneo. Della fenomenologia è certo l’attenzione al soggetto che conosce e all’interiorità che si relaziona all’oggetto, ma – rispetto ad ogni forma di individualismo solipsistico e straniante – nella Stein v’è anche la percezione che è la realtà che si dà a conoscere. In un film di una ventina d’anni fa dedicato alla sua vita convulsa e grandiosa, da giovane professoressa risponde in questi termini a Franz Heller, collega della Stein e vecchio spasimante respinto: “la mente non può produrre la verità, la può soltanto trovare” (La settima stanza, 1995). Un’affermazione coerente con il suo iniziale interesse per la fenomenologia, ma anche con la sua conversione cattolica e quindi alla vita religiosa; come proveremo ad accennare.

Come si sa, le ragioni personali che condussero Edith prima alla scelta di farsi battezzare e poi all’entrata in religione, sono state oggetto di indagine e di discussioni continue presso la critica. In particolare, ci si è domandati che cosa abbia significato per la sua conversione l’aver convintamente sostenuto la linea della fenomenologia e soprattutto l’essere stata studentessa e assistente di Husserl. Lei stessa affermerà che nel cambiamento fondamentale della sua vita abbia giocato un ruolo assolutamente decisivo la lettura di Teresa d’Avila; mentre dopo la conversione una parte non marginale del suo impegno intellettuale diverrà la ricerca di una conciliazione tra la fenomenologia e la grande speculazione tommasiana. Tali indicazioni – certamente assai generali – ci pongono davanti ad un quadro dell’evoluzione del suo pensiero ricolmo di significati grandissimi. Dell’empatia di cui tratta la tesi diretta da Husserl, è la ricerca di cosa voglia dire da un punto di vista gnoseologico entrare in contatto con il sentimento e l’interiorità dell’altro. Ma tanto l’ispirazione ai grandi carmelitani quanto la redazione delle sue opere – connotate dalla figura epistemologica della “scienza della croce” – inducono a percepire un collegamento tra i fondamenti fenomenologici del suo pensiero e gli snodi salienti della sua spiritualità più profonda.

In altri termini, la conoscenza che si deriva dalla croce di Cristo è la conoscenza di una verità che si dà a conoscere all’uomo nell’offerta suprema del sacrificio. Della mistica carmelitana – e, a ben vedere, di ogni forma di mistica – è il porsi in relazione con Qualcuno che si fa conoscere, prima che si possa esplicare lo stesso sforzo conoscitivo dell’uomo. Della mistica carmelitana – e, a ben vedere, di ogni forma di mistica – è avere a che fare con l’Amore che si comunica; avere a che fare con la realtà amorosa di un Dio che riscatta l’uomo e lo solleva. Per dirla con le parole della protagonista de’ La settima stanza, è avere a che fare con l’Amore che l’uomo non può produrre e darsi, ma che può soltanto trovare.

In conclusione di questa presentazione certo sommaria di un percorso di pensiero assai complesso, ci sembra che l’attenzione alla realtà che percorre l’intero sviluppo dalla fenomenologia husserliana alla mistica carmelitana si ponga come una sorta di antidoto alla crisi di quella civiltà occidentale, che – oggi forse come allora – cova i germi di un individualismo sterile ed esangue, sotto le vesti splendenti di un mondo apparentemente pacificato.




Unione ipostatica e escatologia. Il delinearsi della visione di Balthasar in un saggio del ’54

 

Screen-Shot-2016-07-18-at-9.54.53-AMdi Dario Chiapetti Il 12 agosto 2005, in occasione dei 100 anni dalla nascita di H.U. von Balthasar, furono pubblicati due saggi inediti del giovane teologo svizzero che ora vengono presentati per la prima volta al pubblico di lingua italiana: Escatologia nel nostro tempo. Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo (Queriniana, Brescia 2017, 119 pp.).

Questi due scritti rivestono grande importanza, essi permettono di venire in contatto con le prime intuizioni e trattazioni circa tematiche sulle quali Balthasar tanto si concentrò successivamente e così ricostruirne gli sviluppi. Tali temi sono riconducibili alla più vasta prospettiva rappresentata da quell’ambito della riflessione teologica che è l’escatologia o, meglio, dalla dimensione escatologica della teologia, o, ancor più precisamente – come cercherò di accennare in questa sede, riferendomi soprattutto al primo dei due saggi, Gedanken zur Endlehre. Ein Vortrag (pubblicato poi come Eschatologie in surserer Zeit) – dalla dimensione escatologica della cristologia e, nella fattispecie, dell’evento dell’incarnazione. È questo un aspetto teologico che Balthasar ha colto e che, unitamente alla – o, in virtù della – sua cristologia trinitaria sviluppata successivamente, ha segnato un passo di tutta la riflessione teologica.

Ma brevemente, quali sono i punti salienti del saggio in questione?

Unitarietà dell’uomo e brutalità della morte. Balthasar presenta la morte come termine della vita e perciò nel suo volto brutale che contrasta con le presentazioni che nella storia sono state offerte a partire da tentativi di addolcimento come quelli operati dalla magia, dal platonismo, dall’aristotelismo/stoicismo e dai quali la riflessione teologica lungo il suo percorso ha in vario modo attinto. Tale visione scaturisce dalla concezione antropologica unitaria biblica per la quale l’uomo è un’unità di anima e corpo e ogni evento che gli si presenta riguarda tutto sé.

Cristocentrismo e incarnazione. Tutto l’uomo muore e tutto l’uomo è risuscitato unicamente e totalmente da Dio e, in particolare, in Cristo. Tale cristocentrismo è fondato sulla base del valore teologico riconosciuto all’evento dell’incarnazione e che trova nella passione, discesa agli inferi e risurrezione il suo momento culminante.

Tempo ed eternità. Proprio nell’evento incarnatorio, Balthasar individua la chiave ermeneutica con cui intendere la relazione tra tempo ed eternità, termini escatologicamente significativi, superando le concezioni che li vedeva in opposizione, o in successione cronologica, tra loro. A motivo dell’incarnazione non solo l’eternità è entrata nel tempo ma anche il tempo nell’eternità. Quest’ultima si rende disponibile all’uomo come compimento del tempo che egli vive e Dio si rivela come il Dio dell’eterno e libero atto di comprendere ed esperire.

Tralasciando la lettura profondamente teologica della morte di Cristo e la visione, originale e discussa, del suo descensos ad inferos, pongo l’attenzione sulla riflessione di Balthasar circa l’incarnazione, ripercorrendo i passaggi, a mio avviso, più significativi del suo saggio.

Il tentativo di superare i vicoli ciechi di un’escatologia cosmologica, così come la Scolastica ha consacrato, porta Balthasar a concentrarsi su Cristo quale vertice dell’autorivelazione di Dio, e con ciò sul carattere di unitività cristologica, o meno, delle realtà degli éschata.

Il teologo svizzero muove il suo discorso dal piano antropologico, egli riflette sull’uomo come spirito-persona (Geistperson), unità di corpo e anima, e sulla sua generazione quale atto che deriva dalla procreazione parentale (non relativa al solo corpo) e da una immediata azione di Dio (non relativa alla sola anima), mistero per il quale «i genitori generano il bambino nella mano creatrice di Dio» (p. 28).

A gettare luce su tale mistero, in virtù del principio dell’analogia entis, è proprio l’incarnazione: «il mistero della trascendenza d’origine dell’uomo acquista il suo compimento insuperabile nella completa unione ipostatica: secondo l’intenzione divina l’uomo nasce per Cristo, per il suo inserimento in lui come membro del suo corpo mistico. Questo membro viene prodotto dall’unità indissolubile di un atto produttivo umano e divino […] un legame che però già rimanda in avanti, verso una meta ultima ed esuberante in questa creazione concreta: verso l’unione tra natura umana e divina in Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio» (pp. 29-30).

A questo punto Balthasar porta avanti il suo discorso: «E se l’uomo che nasce in quest’ordine, nell’unione tra natura e spirito, diventa spiegabile alla fine come un essere in cammino verso l’incarnazione di Dio in Cristo, anche l’uomo che muore è spiegabile nel suo morire andando alla natura e a Dio come un essere in cammino verso la “risurrezione della carne”, che andrebbe molto meglio qualificata globalmente come risurrezione dell’essere umano» (p. 32). Per Balthasar l’unione ipostatica delle due nature in Cristo è compresa in termini non estrinseci e illumina – e informa – l’unione di natura e spirito dell’uomo.

Infine, l’accesso dell’uomo all’éschaton è aperto da Cristo che al primo offre un «nuovo spazio in Dio». Scrive Balthasar: «nell’unione ipostatica si compie questa realtà fondamentale, che le cose temporali ricevono una possibilità di esistenza, anzi una giustificazione e sono recuperate all’interno della vita eterna di Dio» (p. 35).

Unione, integrazione, morte, risurrezione. Il presente saggio mostra bene come grazie alla riduzione cristologica degli enunciati escatologici Balthasar inizi a pervenire a una comprensione che dia maggior risalto alle suddette categorie che più direttamente cercano di recuperare le prospettive scritturistiche e meglio integrare quelle elaborate dalla filosofia, dall’antropologia e dalla scienza contemporanee. E ciò a partire – è il secondo guadagno di Balthasar – dall’aggancio dell’antropologia alla cristologia e, per la precisione, all’unione ipostatica che funge così da chiave ermeneutica, sia livello esplicativo che ontologico, per la comprensione dell’uomo, a partire dalla sua generazione, dalla sua metafisica e dal suo futuro, l’unione con Dio in Cristo.

Sicuramente i contenuti del presente saggio permettono di aprire ulteriori riflessioni sulle quali Balthasar e tutta la teologia ha mosso e sta muovendo passi: una presentazione più approfondita del carattere di personeità dell’escatologia che qui rimane perlopiù compresa a partire dal discorso sulle nature di Dio e dell’uomo, e perciò non ancora personologicamente esplicata a sufficienza, né a livello trinitario né antropologico; una più esatta specificazione di come intendere l’unione ipostatica, e con ciò la fondazione del discorso in un’ontologia relazionale di unità e alterità; e l’affronto della modalità di unione tra l’uomo e Dio in Cristo, ovvero l’aspetto ecclesiologico-sacramentale, qualificante, dell’antropologia.




Impressioni da un viaggio nell’Italia meridionale

duomo-di-siracusadi Giovanni Pallanti Ho compiuto un breve viaggio nel sud dell’Italia: Sicilia, Calabria e Lucania.

La visita a queste tre regioni mi ha suggerito alcune considerazioni.

1. Il meridione d’Italia, paradossalmente, corrisponde ancora  alla letteratura che lo ha raccontato  negli ultimi centocinquant’ anni: un estensione territoriale pressoché disabitata con  piccoli paesi che cercano disperatamente la dignità di città; un’abitudine consolidata degli abitanti di questi paesi a vivere in solitudine. Nessuno può sospettare, vivendo in questi ambienti, che ci sia sopra queste comunità un’organizzazione criminale come la Mafia e come l’Ndrangheta

Questo è lo status  del meridione d’Italia.

La prova che la società meridionale è governata dalla criminalità consiste  solo nel fatto che se qualche cittadino esce, per reclamare giustizia,  dalle regole del gioco viene fisicamente  eliminato.  Nessuno parla in questi luoghi della condizione storica e sociale  in cui vivono.

2. Il Meridione d’Italia è simile a  tutto il resto del territorio nazionale, in modo particolare per quanto riguarda il numero e l’estensione    di alberghi e ristoranti.

Praticamente quello che unisce oggi la Penisola è un continuo succedersi  di un “mangificio”  spesso volgare e dequalificato per i turisti. Questa attività è l’unica che dalle Alpi alla Sicilia garantisce un livello occupazionale, incerto ma costante,  soprattutto per i giovani che fanno i camerieri o i baristi. In questa connotazione antropologica ed esistenziale in cui si trova anche l’Italia del Centro Nord c’è da domandarsi se non vi siano anche capitali finanziari, dietro a queste attività recettive, della malavita meridionale.

3. Una cosa che mi ha colpito è l’assenza per le strade e per le piazze, in una società che si definisce ancora “permeata di religiosità”, di preti, frati e  suore. E’ più facile vedere in qualche città della Toscana, compresa Firenze, passeggiare per le strade qualche prete. Nell’Italia meridionale o si mimetizzano per non farsi riconoscere o vivono chiusi in casa.

Solo a Rocca Imperiale, un paese della costa ionica della Calabria, ho visto la chiesa principale aperta tutto il giorno e senza mai un fedele a pregare . A Siracusa nella bellissima piazza del Duomo  costellata di palazzi del ‘600 e ‘ 700  siciliano e affogata  dai tavolini dei ristoranti circostanti ho visto il Duomo musealizzato dove è difficile entrare anche per la Messa se non si paga il biglietto d’ingresso. Così anche per le altre Chiese Monumentali.

Queste sono impressioni frutto di un viaggio che per molti aspetti mi ha lasciato sconcertato. A volte si capisce di più una realtà facendogli una breve visita che soggiornandovi a lungo. In sintesi il meridione d’Italia è un grave problema per le sue caratteristiche storiche sociali ed ambientali, dove la socialità e la democrazia sono estranee alla vita di tutti i giorni. Ovviamente ci sono delle eccezioni positive come ho visto a Oriolo Calabro. La Chiesa c’è e non c’è. Probabilmente la religiosità del meridione è più legata alla tradizione e alla superstizione che alla vera fede. Così come il concetto di giustizia e democrazia. C’è, infatti, più interesse per il potere che non per fare l’opposizione. L’opposizione come si sa è uno degli elementi costitutivi di un sistema democratico.