“Il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo” (Lc 16,22). Annotazioni sul capitolo 16 del Vangelo di Luca

image_previewdi Gianni Cioli • La storia del ricco e del povero Lazzaro (Lc 16, 19-31) conclude il sedicesimo capitolo del Vangelo di Luca che, iniziato con la parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-9), pone il cristiano di fronte al problema della ricchezza e del suo buon uso. Nel corso del capitolo Luca mette in guardia dal pericolo che la ricchezza comporta, perché non si può «servire a Dio e a mammona» (Lc 16,13), e al tempo stesso invita il credente a fare un buon uso dei suoi beni favorendo poveri con generosità. Saranno essi, infatti, ad accoglierlo nelle dimore eterne (Lc 16,9). Nel giudizio finale il Signore s’identifica in qualche modo con loro! (cf. Mt 25,31-46). In Luca 16 si coniugano bene le due preoccupazioni fondamentali relative alla ricchezza già chiaramente presenti nell’AT: la preoccupazione ‘sapienziale’, la quale avverte che la ricchezza può essere un male più grande della miseria quando distoglie il cuore da Dio; la preoccupazione ‘profetica’, che ricorda che nessuno è padrone dei suoi beni, ma soltanto amministratore temporaneo. I beni materiali diventano benedizione, e possono contribuire a realizzare l’essenziale della vita: accogliere il dono della salvezza, solo se usati nella logica del Dio dell’amore: Se hai, hai per dare! (cf. E. Chiavacci, Teologia morale 3/2, Assisi 1990, 157-168).

La parabola del ricco e di Lazzaro, riportata soltanto dal Vangelo di Luca, si costruisce attorno a due punti focali: l’avvertimento che il regno di Dio comporta un rovesciamento delle sorti, e l’invito ad ascoltare la Parola. Il ricco senza nome si trova abbandonato da quel Dio che accoglie «nel seno di Abramo» il povero Lazzaro. I poveri ottengono la salvezza perché la sofferenza li assimila a Gesù «che si profila dietro a Lazzaro come il risorto dai morti». I ricchi, d’altra parte, sono invitati ad ascoltare la parola di Dio che chiede loro di guadagnarsi l’amicizia dei poveri mediante l’utilizzo giusto della ricchezza. «“Mosè e i profeti”, dunque interpellano con forza specialmente i ricchi» (J. Radermakers – Ph. Bossuyt, Lettura pastorale del Vangelo di Luca, Bologna 1983, p. 357).

La missione della chiesa è, prima di tutto e soprattutto, quella di annunciare la risurrezione del Signore. Questa è la vera buona notizia da accogliere e da trasmettere. È da quest’annuncio che la chiesa nasce e rinasce nel corso delle generazioni. La parabola del ricco e del povero Lazzaro, tuttavia, vuol forse mettere in guardia i cristiani dal travisare il messaggio della risurrezione, dimenticando o sottovalutando l’appello alla giustizia nei confronti del debole e del povero che attraversa l’AT. Il Signore Gesù Cristo, con la sua vittoria pasquale, non ha certo abolito l’appello alla giustizia della Legge e dei Profeti ma, al contrario, lo ha portato a compimento. Non si può essere testimoni della risurrezione se non si è affamati e assetati di giustizia (cf. Mt 5,6). Il primo effetto della pasqua del Signore, accolta nella fede, deve essere quello di liberarci dall’indifferenza, facendoci passare dalla morte di un egoismo che rende ciechi, alla vita di un amore capace di vedere il prossimo.

Forse la colpa più grave del ricco della parabola lucana è proprio la sua indifferenza: il non accorgersi affatto del povero che giace alla sua porta. Se vogliamo essere testimoni del Vangelo dobbiamo dunque, prima di tutto, lasciarsi guarire dalla miopia esistenziale che ci fa percepire soltanto i nostri problemi. Questo oggi significa anche aprire gli occhi sui drammi del mondo.

San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Sollicitudo rei socialis (30.12.1987), paragonava l’odierno mondo globalizzato alla situazione descritta dalla parabola lucana e avvertiva che il voler ignorare la condizione di miseria che affligge la maggioranza degli abitanti del pianeta «significherebbe assimilarci al “ricco epulone”, che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta» (n. 42).

La globalizzazione annulla le distanze e ci rende tutti in qualche modo corresponsabili della situazione. Forse non abbiamo una risposta immediata su come affrontare la povertà del mondo che «giace alla nostra porta», ma quello che la Parola ci chiede è innanzitutto di non rimanere indifferenti, di accorgerci comunque degli altri.

Si tratta, in primo luogo, di ripensare i nostri stili di vita alla luce del Vangelo per riscoprire l’essenziale della vita: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33).

È vero che è solo la fede in Cristo crocifisso e risorto, e non il nostro stile vita, che ci può salvare. Ma è anche vero che questa fede muore (cf. Gc 2,17) se non opera attraverso la carità (cf. Gal 5,6). Il vangelo di Luca ci avverte che la novità della risurrezione esige donne e uomini nuovi, con stili di vita nuovi: «il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi» (Lc 5,38).




Le antifone maggiori dell’Avvento: 17-23 dicembre

di Francesco Vermigli• PT_AC_Framm_80L’Avvento è tempo di preparazione alla Buona Novella della nascita del Signore. Come può sperimentare chiunque – nelle attese umane più cariche di affetto (come in vista della nascita di un figlio o nella preparazione ai momenti più significativi della vita) – la trepidazione cresce di pari passo con l’approssimarsi all’evento. Se la liturgia è rito di uomini che volgono i propri pensieri e i propri cuori al cielo, sarebbe incoerente con questa abituale esperienza umana se nell’avvicinarsi al Natale, la preghiera della Chiesa non si facesse più bella, esplicita, insistente.

A smentire questa improbabile evenienza, vengono anche le cosiddette antifone maggiori dell’Avvento, vale a dire le antifone al Magnificat dei vespri dal 17 al 23 dicembre; celebrandosi già i primi vespri del Natale del Signore la sera del 24. Esse sono il frutto di un mirabile intreccio biblico: ad esempio per la prima antifona, nelle parole «O Sapientia, quae ex ore Altissimi prodisti, attingens a fine usque ad finem, fortiter suaviter disponensque omnia: veni ad docendum nos viam prudentiae» (“O Sapienza, che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo, arrivi ai confini della terra e disponi tutto soavemente: vieni, insegnaci la via della prudenza”) si notano almeno i riferimenti a Sir 24,3a (ma 24,5 nella versione latina della Vulgata: «sono uscita dalla bocca dell’Altissimo») e a Sap 8,1 («la sapienza si estende vigorosa da un’estrenità all’altra e governa a meraviglia l’universo»). Così accade anche nelle antifone successive, dove le allusioni scritturistiche – nell’approssimarsi al Natale – tendono ad essere ricavate progressivamente dal Nuovo Testamento: ad esempio nella frase «lapisque angularis, qui facis utraque unum» (“pietra angolare, che riunisci tutti in uno”), che compare nell’antifona del 22 dicembre, il riferimento a Ef 2,20 è evidente. Inoltre, se considerate assieme con un solo colpo d’occhio, esse ci sorprendono per l’uniformità della loro struttura: tutte esordiscono con un’invocazione – introdotta sempre con l’interiezione “O”, da cui il nome di “antifone in O”, con cui anche sono conosciute – a cui seguono alcune frasi o apposizioni che sono una sorta di amplificazione dell’invocazione. Chiude l’antifona una richiesta, che sempre si apre con l’imperativo “veni!”.

Ma, se questa è la preghiera della Chiesa subito prima di Natale, cosa significa ciò che preghiamo? Come si sa, lex orandi, lex credendi è un antico principio: con esso si vuole affermare – pena un lacerante bipolarismo della vita di fede ed ecclesiale – che ciò che preghiamo nella liturgia, è anche ciò che dobbiamo credere. Non si può dare, infatti, che ciò che crediamo e ciò che celebriamo siano altra cosa. Ebbene, quando la Chiesa ogni anno prega queste antifone, ci invita a porre attenzione a Colui al quale ci stiamo rivolgendo e a cosa stiamo chiedendo. Ci rivolgiamo a Colui che è nato a Betlemme di Giuda e che ci attendiamo rinasca di nuovo nel nostro cuore e nel cuore della Chiesa: siamo invitati a credere che Egli sia Sapienza, che esce dall’Altissimo (il 17 dicembre); Signore, che ha donato la legge sul Sinai (il 18); Radice del tronco di Iesse, che mette a tacere i re della terra (il 19); Chiave di Davide, che può aprire e chiudere tutto (il 20); Astro che sorge dall’alto e Sole di giustizia (il 21); Re delle genti e pietra angolare, su cui poggia l’unità (il 22); e, infine – con un crescendo – Emmanuele, Re e Legislatore, Speranza delle genti e loro Salvatore (il 23). E cosa siamo invitati a chiedere? Che Egli ci insegni la via della sapienza (il 17), che venga a redimerci (il 18), che venga a liberarci e che non tardi (il 19), che strappi (il 20) e che illumini (il 21) coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, che venga a salvare colui che ha plasmato nel fango (il 22) e che venga a salvare noi (il 23), Lui che è il Signore, nostro Dio. Così, le antifone maggiori terminano con parole che riecheggiano la più grande professione di fede dell’intero Nuovo Testamento, quella di Tommaso, otto giorni dopo la Risurrezione: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).

Come è noto, se considerate in ordine inverso, le prime lettere di ciascuna invocazione (Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel) formano la frase ero cras, cioè “sarò domani”. Quello che notavamo all’inizio – quella crescita dell’attesa all’avvicinarsi dell’evento, come fatto umano sperimentato da chiunque – trova in questo acrostico una conferma liturgica di significato eccezionale. Una tensione dinamica guida questo corpo di preghiere ricchissime, che sono le antifone maggiori dell’Avvento. Ad esempio, ai riferimenti all’Antico lentamente si sovrappongono quelli al Nuovo Testamento. Così, l’ultima antifona nella parte conclusiva professa che colui del quale verrà celebrata il giorno successivo la nascita, è lo stesso Dio. Soprattutto – quando si aggiunge la prima lettera dell’invocazione dell’antifona del 23 e si completa l’acrostico ero cras – la Chiesa dichiara la propria fiducia incondizionata nel Dio che non mente.




La dignità del cristiano

Herrera_mozo_San_León_magno_Lienzo._Óvalo._164_x_105_cm._Museo_del_Pradodi Andrea Drigani •  San Leone Magno, Papa e Dottore della Chiesa, vissuto nel V secolo, in uno dei suoi sermoni Natalizi diceva: «Riconosci cristiano, la tua dignità, e reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati – continuava – chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro. Ricordati che, strappato dal potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del Battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo!» Queste parole ci sollecitano, nella ricorrenza del Natale, a chiedersi, di nuovo, chi è il cristiano? Vi è una risposta molto semplice, ma anche molto profonda: cristiano è colui che è di Cristo (christianus dicitur qui Christi est), cioè appartiene a Cristo, col Battesimo, e a nessun altro. L’appartenenza a Cristo è primaria e principale, ed è superiore ad ogni altra appartenenza, ancorchè lecita. La dignità di cui ci parla San Leone Magno è il rispetto che il cristiano, consapevole della propria fedeltà al Signore, deve sentire nei confronti di se stesso e tradurre in un comportamento conseguente. San Giovanni Paolo II, tenendo conto dell’insegnamento di questo suo grande predecessore che è stato ribadito dal Concilio Vaticano II, nei due Codici canonici da lui promulgati (quello latino nel 1983 e quello orientale nel 1990) ha voluto inserire la definizione di «fedeli di Cristo» (Christifedeles), rispettivamente al can.204 § 1 e al can.7 § 1, con questo medesimo testo: «I fedeli di Cristo sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il Battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo loro proprio dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono chiamati a attuare, secondo la concezione giuridica propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo.» La dignità del cristiano riguarda tutti coloro ai quali è stato conferito il Battesimo, dal Papa al bambino che ha ricevuto questo sacramento nelle ultime ore, passando per i vescovi, i preti, i diaconi, gli sposati, i consacrati, i celibi. Bisogna ricordarsi, e far ricordare, secondo l’esortazione di San Leone Magno, chi è il nostro Capo e di quale Corpo siamo membra. Nell’approssimarsi del 25 dicembre, si assiste a un crescendo festaiolo, con negozi e strade addobbate, con pressanti inviti per fare e ricevere auguri e regali, ma si ha, talvolta, la paradossale sensazione che si stia procedendo verso una festa senza sapere, però, chi è Colui per il quale si dovrebbe far festa. Di fronte a tale ignoranza, che ha il sapore dell’assurdo, fare recriminazioni, è tempo perso; occorre, invece, che ogni cristiano sia conscio della sua dignità, poiché – ancora San Leone Magno – è stato reso partecipe della natura divina (divinae consors factus naturae), e di questa dignità ne dia testimonianza con la propria vita, che è il miglior modo di propagare la Fede. Il potere delle tenebre (potestas tenebrarum) è vero che incombe, ma è ancor più vero che da questo potere Gesù Cristo ci ha liberati per collocarci nel suo Regno, e la sua venuta tra gli uomini, celebrata dai cristiani il giorno di Natale, è motivo di immensa felicità, infatti aggiungeva San Leone Magno: «Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne». C’è, tuttavia, il rischio che il cristiano, misconoscendo la propria dignità, finisca in una condotta indegna («L’uomo vecchio con la condotta di prima» [Ef 4,22]), non rendendo testimonianza alla Verità e inducendo gli uomini alla menzogna. La testimonianza alla Verità è la santità, che è la vocazione universale di tutti i cristiani, già adombrata nell’Antico Testamento: «Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono il Signore, vostro Dio. Osservate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica» (Lv 20,7-8).  Non è un caso, allora, che in entrambi i Codici della Chiesa cattolica è stato collocato un canone che stabilisce: «Tutti i fedeli, secondo la propria condizione, devono dedicare le proprie energie al fine di condurre un vita santa e di promuovere la crescita della Chiesa e la sua continua santificazione» (CIC can.210 e CCEO can.13). Sempre, ma in particolare nel periodo antecedente al Natale, vi è, dappertutto, una soverchiante congerie di luci artificiali e artificiose, ma quel giorno il cristiano, con la sua dignità, vuol far presente a se stesso e agli altri che viene Gesù «la luce vera quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).

 




Il diritto al lavoro tra La Pira e Renzi

Giorgio-La-Pira_dibattito-sull-aborto_uomo-di-pacedi Antonio Lovascio • La riforma del lavoro ha trasformato il Parlamento, le piazze e perfino i “talk show”  in una trincea. Nella quale si confrontano e spesso si scontrano le centinaia di migliaia di italiani che il posto l’hanno perso, quelli che invece temono di essere rottamati dal Jobs Act , i milioni di giovani precari o da anni alla disperata ricerca di un’occupazione; i sindacati che vedono sempre di più appannarsi il loro ruolo di rappresentanza e , divisi, agitano (CGIL e UIL) l’arma spuntata dello sciopero generale; una classe politica troppo confusa e rissosa, attenta per lo più ad interessi di bottega.  E naturalmente il Governo, che – per spingere il Paese fuori dalle sabbie mobili della depressione economica e far galoppare il “cavallo di battaglia” della Crescita, per convincere l’Europa della bontà del suo programma innovatore – fatica non poco a mantenere una giusta linea di equilibrio che plachi le tensioni sociali affiorate nelle ultime settimane. Un compromesso ( il reintegro “per alcune fattispecie ingiustificate” di licenziamenti disciplinari) accolto nella maggioranza di governo dal Ncd ma non dalla minoranza Pd, che, dopo lo “strappo” sul voto alla Camera, minaccia addirittura una scissione.

Eppure il Premier Renzi, che si è laureato sugli atti amministrativi di Giorgio La Pira, proprio nel giorno (5 novembre) in cui Firenze ha ricordato il suo grande sindaco, ha ricevuto “messaggi” inequivocabili sulla povertà oggi, sulle strade da percorrere per raggiungere lo sviluppo e l’uguaglianza.  In piena sintonia con gli appelli di Papa Bergoglio (l’ultimo da Strasburgo: <Ridare dignità al lavoro!”) e della Cei. Con l’invito a soffermarsi sulle povertà globali, per ritrovare la dimensione che La Pira ci ha insegnato: affrontare i bisogni nella complessità delle dinamiche internazionali, a partire dalle necessità degli ultimi. Lo stesso Professore nell’Ottobre del 1946 parlò di diritto al lavoro e di una forma di assistenza da parte dello Stato nei confronti di chi si fosse ritrovato disoccupato: un principio cui dovrebbe strutturarsi anche la riforma del Jobs Act. Ma ci sono le coperture finanziarie ?

Nel pensiero di  La Pira – è bene ribadirlo –  il diritto al lavoro è, dal punto di vista sociale, uno dei fondamentali diritti di cittadinanza posti dalla Costituzione alla base della comunità civile. Da un punto di vista economico (seguendo la scuola di Keynes) è il cardine di un sano stimolo della produttività:  <La disoccupazione di massa provoca una circolazione monetaria senza corrispettivo di produzione ed è, perciò, quando si prolunga, causa di inflazione>, scriveva  ne “La difesa della povera gente ”. Da un punto di vista morale e religioso, infine, esso è un imperativo categorico : <Se io sono uomo di Stato – questa in sintesi la tesi lapiriana –  il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo: che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro! Nessuna speciosa obbiezione tratta dalle cosiddette “leggi economiche”  può farmi deviare da questo fine> .

E ad Alcide De Gasperi che lo criticava imputandogli di fare con le sue prese di posizione a fianco degli operai il gioco dei comunisti, il Professore rispondeva: “Il gioco dei comunisti lo fanno tutti coloro – operatori economici ed uomini politici – che disconoscendo la santità e l’improrogabilità del pane quotidiano (procurato col lavoro) gettano nella disperazione e nella radicale sfiducia i deboli”. Ma, a parte queste schermaglie dialettiche, De Gasperi con lealtà ed amicizia lo aiutò poi a risolvere l’emblematico caso del Pignone.  Un po’ di storia. Correva la primavera del 1954 (pochi mesi prima della morte dello statista trentino) quando il sindaco di Firenze ed il Presidente del Consiglio convinsero Enrico Mattei e l’ENI ad acquistare – e quindi a salvare – la fabbrica fiorentina dalla chiusura. La nascita del “Nuovo Pignone” ha avuto un’importanza notevole per l’Italia e non solo: oggi è riconosciuto come un centro d’eccellenza nell’industria petrolifera e del gas per turbine, compressori e pompe; esporta macchinari e tecnologie in tutto il mondo. Grazie a quell’accordo, la fabbrica dell’energia iniziò a cambiare definitivamente volto. A ciò ha contribuito anche l’acquisizione nel 1994 del Nuovo Pignone da parte di General Electric, che ha consentito di gettare le fondamenta di quello che ai nostri giorni  è GE Oil & Gas. Un’azienda che opera in più di 100 Paesi con circa 45.000 dipendenti e che non smette di guardare al futuro scommettendo sull’innovazione. La Toscana (e in particolare Firenze,  con le 4.300 maestranze dello stabilimento di Rifredi) è al centro di un progetto illuminante, sul quale Governo, Parlamento, forze politiche, sindacati ed imprenditori dovrebbero a lungo riflettere.  Senza rincorrere cinicamente l’abbattimento delle tutele per i propri operai e tecnici, la multinazionale americana continua ad investire in Italia, ad espandersi assumendo in media all’anno almeno trecento tra ingegneri e manodopera qualificata con soddisfacenti contratti a tempo indeterminato. Con premi di produzione per tutti di almeno tremila euro annuali.

Un’isola felice nell’asfittico, desolante panorama italiano ? Non proprio. Migliaia di piccole e medie imprese – lo sottolineava l’altra sera in Tv mister Tod’s,  Diego Della Valle –  sono allineate su questo modello.  Sono l’altra faccia della recessione; il rovescio positivo della medaglia che alimenta tante resistenze alla riforma del lavoro. Necessaria perché ormai il posto fisso tradizionale è un’icona in via di estinzione, un mito sfumato. Quando invece  i giovani hanno ancora bisogno di un’aspettativa, altrimenti non possono sposarsi, fare un mutuo, comprarsi casa. Senza sicurezze, almeno per cinque o dieci anni, non c’è programmazione familiare. Il precariato viene chiamato elasticità, ma in concreto si moltiplicano difficoltà, non opportunità. Neppure la pensione è una certezza: è stata percepita come un modo per fare altro, per spezzare la rigidità della vita lavorativa. Ora però – come ha ricordato in un’intervista a “La Stampa” il presidente del Censis professor Giuseppe De Rita – il 35 per cento dei lavoratori pubblici, privati ed autonomi teme di perdere il lavoro e di rimanere senza contribuzione, il 25 per cento di finire nella precarietà con una contribuzione discontinua, il 20 per cento di avere difficoltà a finanziarsi, oltre la  pensione pubblica, forme integrative di reddito, finite nel mirino del Fisco, vista la tassazione che Renzi vuole applicare al Tfr da ridistribuire (a chi lo vuole)   in busta paga ed ai Fondi complementari. Si sta insomma raschiando il barile sulle pelle delle fasce sociali più deboli.

Il Jobs Act rivisto e corretto da Renzi (forse avrebbe dovuto trarre qualche consiglio in più da un giovane ma autorevole giuslavorista come l’avvocato Guido Ferradini, che sull’art. 18 ha indicato “la misura giusta” per le nuove tutele in un lucido intervento sul “Corriere”) probabilmente va nella direzione da molti auspicata. Ma non basta, perché crea procedure e non aspettative: è un riordino del mercato del lavoro con qualche punta polemica. Si punta ad un normale funzionamento, nulla di più. Certamente non cancella le paure di chi il posto ce l’ha seppur in bilico, né esalta le speranze dei giovani  precari o ancora in cerca di sistemazione. Che almeno serva – questo piccolo, ma tanto discusso tassello – a creare la consapevolezza che nessuna riforma e nessuna ripresa saranno possibili se non avverrà un cambio di marcia rispetto alla responsabilità di ciascuna persona e di ciascun gruppo nei luoghi di vita e di lavoro. L’autunno rimane difficile. E ci attende un inverno “gelido”. Anzi caldissimo! Sotto gli occhi intanto abbiamo un’amara realtà:  il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali. Aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha. E per molti altri italiani incombe la povertà.




“Se Dio é un Noi, e noi? Noi e gli altri” di Piero Coda

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di Dario Chiapetti • Due dei più grandi problemi dell’uomo, come si constata dall’insistenza di papa Francesco a riguardo, sono certamente le questioni che ruotano attorno alla sua identità e al suo rapporto con gli altri, anzi, alla relazione tra la sua identità e la presenza dell’altro. “Noi e gli altri”: questo il sottotitolo del saggio del teologo Piero Coda Se Dio é un “Noi”, e noi? (Massetti Rodella Editori, 2013) i cui lemmi ‘noi’, ‘e’ e ‘gli altri’ brachilogicamente ne rivelano già la risposta come si può scoprire seguendo la riflessione dell’Autore attualissima per l’uomo.

L’Autore si domanda innanzitutto in che modo la questione di Dio abbia a che fare con l’uomo e parte col riflettere su come ogni immagine archetipica dell’uomo relativa a Dio influenzi il suo modo di pensare e agire, mettendo anche in luce l’antinomia che si stabilisce tra il principio in Dio di ‘universalità’ (in riferimento alla sua pretesa di essere fondamento di tutta la realtà) e di ‘particolarità’ (in riferimento ai diversi culti che se ne fanno nei vari gruppi), facendo diventare lo stesso Dio elemento allo stesso tempo stesso unificante e discriminante tra il ‘noi’ e ‘gli altri’. Certamente l’uomo – prosegue Coda – può rapportarsi all’Assoluto sia come ‘Divino’ (nel numinoso) che come ‘Dio’ (nella Rivelazione), ma in entrambi i casi egli è riportato alla questione circa la sua identità e la valenza, per il suo formarsi, dell’altro da sé: nel primo caso, nel senso di una “giustificazione ideologica della pluralità non conciliata” che può cadere nella “insignificanza delle particolarità”; nel secondo caso, nel senso di un’affermazione d’esclusivismo derivante dall’unicità di Dio; anche se due importanti novità nascono dal monoteismo biblico: il valore dell”alterità’ in quanto ‘alterità’ e la coesistenza in Dio dei concetti ‘unico’ e ‘universale’. Per quanto riguarda la prima novità – osserva l’Autore – Dio, ponendosi come il ‘totalmente-Altro-dall’uomo’ (e di conseguenza l’uomo come il ‘totalmente altro-da-Dio’), si verifica che l”alterità’ definisce l”identità’; per quanto concerne la seconda è fatto notare come quell’unico Dio sia in realtà il garante della pluralità di tutte le forme che abitano il cosmo in quanto ne è la loro condizione di possibilità.

Coda passa quindi a riflettere su come la questione antropologica si configuri quando Dio si svela come un ‘Noi’. “Io e il Padre siamo uno” (Gv 10,30). Nel momento in cui Dio si mostra a noi come un ‘Noi’ il principio dell’alterità viene collocato entro la sfera trascendente di Dio. Ma che l’unità propria di Dio venga declinata con ‘Noi’ ha importante conseguenza non solo sul piano trinitario ma anche sul piano antropologico: a essere una sola cosa col Padre non è solo il Figlio di Dio ma anche il Figlio dell’Uomo; in quel'”Io” giovanneo vi è tanto l’ipostasi del Logos quanto l’umanità assunta e pertanto l”uomo’. L”altro’ acquista così la massima dignità in quanto l’alterità fonda l’unità in Dio vista come “la relazione che in sé fa abitare l’identico e il diverso”. In questa teo-logica “il custode dell’alterità e il promotore dell’unità” è lo Spirito Santo, colui che dona a ciascuno personali lingue di fuoco (cf. At 2,1-4) che vanno a irraggiarsi all’esterno riunendo in sé in unum, il mondo; la croce invece è la massima espressione dell’altro, lo straniero come soggetto talmente definente la divina (e quindi umana) identità che Dio vi si identifica pienamente.

Ma in che termini – si domanda l’Autore – il mistero trinitario può rimodellare il modo di vivere il rapporto tra noi e gli altri? Gettato uno sguardo sul mistero dell’unità in Dio, a partire dall’alterità accolta in sé, Coda tenta di individuare analogie e implicazioni in campo antropologico: “si tratta di proporre alla storia degli uomini un paradigma di relazioni che sia interiormente plasmato da e in quella stessa dinamica di vita che sussiste in Dio, unità nella molteplicità”. Da un lato l’unità con l’alterità è elemento che costituisce l’identità, dall’altro, con l’incarnazione, con l’incontro tra il divino e l’umano, col totalmente-altro-da-sé Dio pone nell’uomo il medesimo principio: l’uomo è unità-con-alterità. Quattro sono le intuizioni che l’Autore offre infine al lettore: “Lo straniero è per noi il ‘caso serio’ dell’altro in quanto altro”; “Io (noi), infatti, sono (siamo) soltanto perché l’altro è [e] io sono perché l’altro sia”; l’io “può incontrarsi con sé solo fuori di sé, presso l’altro” e, infine, “aprendosi all’altro, in lui trasferendosi e ospitandolo verso di sé, in realtà, ci si apre e ci si ritrova in una tenda più grande”.

Qui sta l’originalità: il ‘noi’ non è somma ma contenuto dell’identità dei singoli ‘io’; ogni ‘io’, nell’incontro col ‘tu’, scopre sé come ‘noi’, come essere relazionale e relazionato, costituito ontologicamente da quel dinamismo trinitario che lo rende partecipe di esso, sussistente in esso e ciò in virtù dell’umano essere eterna immagine del Dio tri-ipostatico.




Un libro di Emanuele Pili, “Il taedium tra relazione e non-senso. Cristo crocifisso in Tommaso d’Aquino”

di Alessandro Clemenzia • wdqlLT3hycRi_s4Il fatto che alcuni autori, colonne della tradizione culturale, filosofica e teologica, dell’occidente, sui quali è stato scritto una fiumana di articoli, saggi e tesi, non passino mai di moda, può essere indice di un duplice motivo: da un lato, della profondità mai totalmente esplorata di questi pensatori, per cui unicamente lungo i secoli si scopre la molteplicità argomentativa dei loro scritti (componente oggettiva); dall’altro, di come l’orizzonte all’interno del quale si colloca il ricercatore che vuole investigare questi autori offra una nuova prospettiva e, dunque, una nuova luce sul già conosciuto; il luogo in cui ci si pone per investigare, infatti, non è secondario al risultato dell’osservazione (componente soggettiva).

Si aggiunga a questo un altro elemento: l’autore in questione, Tommaso d’Aquino, è stato così ampliamente e lungamente scrutato nella storia del pensiero che la sua interpretazione ha finito per sostituirsi alla fonte originaria, arrivando addirittura a imporsi su questa; la grande tentazione di ogni epoca, infatti, è stata quella di leggere Tommaso soprattutto per come è stato interpretato.

È proprio in riferimento alla duplice componente soggettiva e oggettiva che si può introdurre l’originale contributo del saggio di Emanuele Pili, Il taedium tra relazione e non-senso. Cristo crocifisso in Tommaso d’Aquino.

Più che ripercorrere i contenuti fondamentali che hanno ritmato i capitoli del testo (anche se resta da notare – ad esempio – come l’Autore mostri che Tommaso privilegia, in riferimento al Crocifisso, il linguaggio della fruitio rispetto a quello della visio), è meglio indirizzare l’attenzione direttamente sul significato che Pili ha fatto emergere del taedium nella visione tomasiana, per cogliere come esso vada a intaccare la riflessione filosofica e teologica odierna.

Attraverso una ricostruzione del contesto remoto del significato di taedium (nel primo capitolo), l’Autore sottolinea l’ampio campo semantico del termine, inteso sia come atteggiamento fisico (ad esempio, la stanchezza) sia come atteggiamento interiore, quale l’angoscia, la disperazione, una sorta di «nausea esistenziale» (p. 79). Nel contesto pagano viene data voce a Lucrezio che, nel De rerum natura, parla del taedium come di una realtà di cui il malato non riesce ad afferrare la causa («causam non tenet»), esprimendo con questo non solo il sintomo del male, ma anche una ricerca insoddisfatta e incompiuta del perché (cf. p. 80-2). Nel contesto cristiano è Bonaventura a offrire un’ulteriore indicazione: il taedium, sottolinea Pili, è qui identificato come «mancanza di relazioni creative e feconde […] e, contemporaneamente, come spinta verso la drammatica chiusura interiore: indica l’abissale esperienza del non-senso, l’assenza del “perché” alla propria esistenza» (p. 93).

Nella sua applicazione cristologica, come sottolinea il sottotitolo del libro preso in esame, già la Scrittura offre una chiara esplicazione del significato di taedium, attraverso un passo decisivo tratto dal Vangelo di Marco: «E prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni e cominciò a sgomentarsi e ad angosciarsi» (Mc 14,33). Girolamo ha tradotto il verbo greco ademoneo (essere angosciato) con taedere.

Tommaso recupera questo lemma per descrivere il male sofferto da Cristo, trasponendolo dal Getsemani all’evento della crocefissione, e sottolineando in particolare il dolore interiore, più che fisico, causato dall’assunzione dei peccati del genere umano, dalla partecipazione al peccato dei Giudei e di quanti contribuivano alla sua morte, dalla paura per l’imminente perdita della vita (cf. STh III, q. 46, a. 6 co.). Da rilevare, inoltre, che, mentre il dramma del dolore fisico non è mai stato messo in dubbio nella storia del pensiero, quello relativo all’anima ha creato maggiori difficoltà per il suo riconoscimento.

Il dolore di Cristo nel momento dell’abbandono è stato descritto attraverso tre componenti: la tristitia, un moto interiore che ha per oggetto un male presente; il timor, che ha come causa un male futuro, in cui comunque rimane una prospettiva di speranza, altrimenti sarebbe solo tristitia; e il taedium, come perdita di senso e sete di relazione (cf. pp. 286- 291), sperimentata da Cristo di fronte all’inevitabilità della sua morte.

Ciò che maggiormente colpisce è come Tommaso, sfruttato spesso per ribadire una certa apatia di Cristo davanti alla sofferenza, non si spaventi di applicare questo vocabolo così pieno di significato al Verbo incarnato.

Questa lettura cristologica offre a Emanuele Pili le basi per una comprensione dell’esistenza anche dal punto di vista antropologico: «l’Aquinate “approfitta” del testo biblico per mostrare la più intima vocazione dell’uomo: la propria identità, la propria realizzazione e la personale conoscenza di sé non possono essere definite in assenza del Tu di un Altro. Per questo motivo anche i giusti, in mancanza di questa fondamentale relazione, sono condannati al taedium» (p. 290).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Armenia. Note da un viaggio

armenia_landscapedi Stefano Tarocchi • Periferia di Yerevan in Armenia, domenica mattina. In un quartiere popolare, la parrocchia cattolica si è ricavata uno spazio improvvisato in cui i locali pastorali coesistono con due cappelle ricavate nell’edificio. Un prete ci apre la porta. Ci accompagna per la celebrazione alla cappella più piccola che si affaccia si un giardino. Comincia a preparare, ma non riesce a trovare modo di accendere le due candele dell’altare, sul presbiterio simile a quelli antichi e moderno degli edifici sacri della Chiesa Apostolica, maggioritaria nel paese.

Il prete è in realtà Raphael François Minassian, l’arcivescovo della piccola comunità cattolica, sempre di rito armeno. Fino al 2011 fa risiedeva a Gerusalemme come esarca patriarcale. In precedenza aveva lavorato negli Stati Uniti, come parroco di comunità armene. «Rispetto all’esperienza di Gerusalemme è tutto cambiato», ha raccontato in un intervista. «Ho la responsabilità pastorale degli armeni cattolici in tutte le repubbliche ex-sovietiche e in alcune nazioni limitrofe, un milione circa di fedeli. Per questa ragione sono chiamato a conoscere e a visitare le varie comunità sparse in un territorio vastissimo».

Comincia così il viaggio in una delle terre sante del cristianesimo. La prima testimonianza dell’introduzione del cristianesimo in Armenia risale al I secolo, quando, dice la tradizione, vi arrivarono Bartolomeo e Taddeo, due dei dodici apostoli. L’Armenia fu la prima nazione ad adottare il Cristianesimo, quando il sovrano arsacite Tiridate III, convertito e battezzato con la sua corte da san Gregorio l’Illuminatore, nel 301 dichiarò il cristianesimo religione di Stato.

La Chiesa armena non prese parte al concilio di Calcedonia (451), in cui si affermò che Cristo è una sola persona in cui convivono due nature, quella umana e quella divina. Essa non aderì neppure alle decisioni prese dopo il concilio, tra cui la condanna del Monofisismo (sostenuto dalla Chiesa ortodossa siriaca). Essa si separò definitivamente dall’occidente latino nel 554 (un anno dopo il concilio di Costantinopoli II), quando gli armeni rigettarono le tesi “duofisite” del concilio di Calcedonia. È stata definita «monofisita»; tuttavia essa, pur essendo in disaccordo con la formula stabilita nel concilio di Calcedonia, considera il monofisismo, così come professato da Eutiche, un’eresia. La Chiesa apostolica aderisce invece alla dottrina di Cirillo di Alessandria (370-444), che considera la natura di Cristo come unica, frutto dell’unione di quella umana e divina. Per distinguere questa forma da quella di Eutiche, essa viene denominata «miafisismo». L’arcivescovo Minossian sostiene sia arrivato il tempo che la Chiesa apostolica cerchi una maggiore unità interna, risolvendo questioni legate a sedi e patriarcati indipendenti, per trovare poi un cammino di piena comunione anche con la Chiesa cattolica.

E qui è necessario parlare dell’ordine Mechitarista, dal nome del suo fondatore, Mechitar, nato nel 1676 e monaco a 15 anni nell’ordine armeno di S. Antonio abate. Mechitar dedicò la vita intera cercando di favorire il rientro della Chiesa apostolica nella comunione piena con la Chiesa cattolica.

Mechitar partì per Roma nel 1696, per approfondire gli studi, ma dopo una grave malattia fu costretto a rientrare in patria. Ordinato prete nello stesso anno, si trasferisce a Costantinopoli nel 1700, dove, con una decina di discepoli, inizia una vita di predicazione e di preghiera. L’8 settembre 1701, festa della natività di Maria, la comunità si consacra al Signore, sotto la protezione della Vergine. Questo crea un conflitto con la comunità originaria, ma anche con la popolazione musulmana, a causa della fede cristiana. Mechitar e i suoi seguaci si trasferiscono nel territorio controllato dalla repubblica di Venezia, nella penisola di Morea. Cinque anni dopo chiedono a papa Clemente XI di approvare il loro ordine.  Ai tre voti originari, che nel monachesimo armeno non venivano pronunciati espressamente, Mechitar ne aggiunse un quarto: l’apostolato fino all’effusione del sangue. Gli aderenti all’ordine, inoltre, dovevano essere armeni, almeno da parte di un genitore. Papa Clemente accolse la loro richiesta, ma impose di scegliere una regola monastica occidentale. Mechitar scelse la regola di s. Benedetto.

Vicende di guerra con i Turchi conducono nel 1715 i monaci a Venezia, nell’isola di s. Lazzaro, acquistata dalla Serenissima. Già sede dei monaci benedettini, nel XII secolo l’isola fu destinata a lebbrosario, quindi ad alloggio di poveri e malati, prima dell’arrivo dei Mechitaristi era stata a lungo totalmente abbandonata. Mechitar vi muore nel 1749. Seguendo l’esempio del fondatore, i suoi monaci continuano il lavoro di riscoperta, di studio, di traduzione e di stampa di antichi scritti armeni e della traduzione in armeno di importanti opere sia classiche che della cristianità: un contributo straordinario allo sviluppo culturale del popolo armeno, per diffonderne la conoscenza anche in Occidente e, al contempo, sviluppare un cammino che riporti alla comunione con la Chiesa di Roma.

Non ci resta il tempo di parlare delle bellezze storiche e architettoniche del territorio armeno, senza trascurare le grandi croci in pietra (khachkar). Voglio solo accennare che nel 2015 sarà ricordato il centenario del genocidio armeno:  i Turchi tra il 1915 e il 1923,  infatti, si renderanno responsabili dello sterminio oltre 1.500.000 armeni residenti nell’Anatolia (gli “Armeni occidentali”). Nell’anno 2015 sarà celebrato il centenario del “grande male”, che segna ancora la storia di questo popolo.

 

 

 

 




La centralità della “persona umana” nel discorso di Papa Francesco a Strasburgo

102101-mddi Leonardo Salutati • Nel discorso al Parlamento Europeo di Strasburgo dello scorso martedì 25 novembre, Papa Francesco ha toccato molti dei i temi di grande rilevanza oggi: l’invecchiamento dell’Europa; la dignità e la trascendenza dell’uomo messe a rischio dalla sua strumentalizzazione e dall’emarginazione; il diritto alla libertà religiosa e la tutela delle minoranze religiose il cui mancato rispetto genera la persecuzione, in particolare quella dei cristiani; il dramma della povertà e quello della mancanza di lavoro che per i giovani ingenera sfiducia nel futuro; il fraintendimento e l’abuso dei diritti umani quando questi non restano saldamente connessi al perseguimento del bene comune; la diffusione dell’individualismo; il problema dell’immigrazione; la prevalenza degli aspetti tecnici su quelli antropologici che produce l’inversione dei mezzi con i fini e che conduce all’abbandono degli anziani, all’eutanasia e all’aborto; la tendenza all’omologazione che rischia di depotenziare i valori democratici; la centralità sociale della famiglia; il problema ecologico; il tema delle radici cristiane dell’Europa. Potrebbe apparire una lista delle solite denunce scontate se non fosse che oggi, tutti questi temi, stanno assumendo una drammaticità particolarmente intensa ma, soprattutto, se il Papa non avesse introdotto nel suo discorso un altro richiamo a quella dimensione dell’esistenza, la cui trascuratezza provoca ogni problema. Papa Francesco ha infatti decisamente ribadito nel suo discorso la centralità del concetto di “persona” che quando è stato posto alla base della convivenza sociale, è stato capace di generare l’ambizioso progetto politico dell’Unione Europea perseguito dai Padri fondatori. Tale concetto che illustra le caratteristiche esistenziali e trascendenti dell’essere umano, ci insegna che l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio Trinità, ha in sé radicate la capacità e la vocazione a maturare dalla chiusa individualità alla vastità del rapportarsi agli altri attraverso il dono di sé, trovando la sua ragione d’essere nella relazione con l’altro. L’uomo, in realtà, è costitutivamente “persona”, un essere sociale perché così l’ha voluto Dio che l’ha creato. La natura dell’uomo si manifesta, infatti, come natura di un essere che risponde ai propri bisogni sulla base di una soggettività relazionale, ossia alla maniera di un essere libero e responsabile, il quale riconosce la necessità di integrarsi e di collaborare con i propri simili ed è capace di comunione con loro (CDSC 149). Per questo l’uomo ha il diritto e il dovere di svilupparsi come persona umana, in tutti gli aspetti della sua vita individuale e sociale. Il suo autentico sviluppo, pertanto, non si colloca solamente sul piano materiale e quantitativo, ma dev’essere integrale, nel senso di riguardare tutto l’uomo e tutti gli uomini. Esso consiste nel darsi, nell’essere dono per qualcuno perché, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: «Il Signore Gesù quando prega il Padre, perché “tutti siano uno, come anche noi siamo uno” mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (GS 24). Emmanuel Mounier, uno tra i più importanti pensatori della corrente personalista, esprimeva questo concetto in modo ancora più efficace quando insegnava che «si possiede soltanto ciò che si dà o ciò a cui ci si dà; non ci si può salvare da soli né socialmente né spiritualmente». È una lezione di cui l’Europa è chiamata da Papa Francesco a riappropriarsi. In particolar modo sono chiamati a riappropriarsene coloro che nella vocazione di parlamentare europeo hanno la grande missione di prendersi cura della fragilità dei popoli e delle persone. È questa l’azione politica che non solo gli europei si attendono, l’unica che consenta di superare l’odierna immagine di un’Europa un po’ invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto.

 




San Giovanni della Croce, il “doctor mysticus” e la dottrina del “nada y todo”

s.-g.-della-crocedi Francesco Romano • Il 14 dicembre la Chiesa Cattolica celebra la memoria liturgica di S. Giovanni della Croce, al secolo Juan de Yepes Álvarez, il doctor mysticus, beatificato da Clemente X nel 1675, canonizzato da Benedetto XIII nel 1726 e dichiarato Dottore della Chiesa da Pio XI nel 1926. E’ patrono dei poeti e dei mistici ed è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola. Le sue opere maggiori sono: Salita al Monte Carmelo (S), Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amor viva. Le minori sono: Poesie, Cautele, Avvisi, Massime e Lettere.

Il Santo nasce a Fontiveros, nella Vecchia Castiglia, il 24 giugno 1542. Il padre, di nobili natali, viene diseredato per aver sposato Caterina Álvarez, una giovane tessitrice. Giovanni, rimasto presto orfano, è costretto ai lavori più umili. Nel 1563 entra nell’Ordine Carmelitano e l’anno successivo è mandato all’Università di Salamanca per gli studi filosofici e teologici che completa nel 1568.

Durante il periodo di Salamanca Giovanni nutre il proposito di diventare certosino, ma la vicinanza a Teresa d’Avila fin dal 1567, appena ordinato sacerdote, lo coinvolge nel progetto di rinnovamento del Carmelo. Teresa affettuosamente lo chiama “il mio piccolo Seneca” per la sua esigua statura, ma anche per il suo stile “stoico” di vita. Il 29 novembre 1568 a Duruelo in Segovia, Giovanni inaugura con tre compagni il primo convento Carmelitano riformato. Assume il nome religioso di Giovanni della Croce in sostituzione di Giovanni di San Mattia assunto quando era novizio.Per la sua adesione alla riforma, nel 1577 Giovanni viene rapito e incarcerato a Toledo nel convento Carmelitano dell’Antica Osservanza con un’ingiusta accusa. Rimane rinchiuso per otto mesi, ma riesce a salvarsi fuggendo di notte.

Nel 1591 Giovanni chiede di essere inviato in Messico, ma si ammala e i Superiori lo destinano alla Provincia di Andalusia. Trascorre gli ultimi mesi a Jaén presso Ubeda. Muore nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591 a soli 49 anni, mentre i confratelli recitano l’Ufficio mattutino. Si congeda da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo.

La dottrina di Giovanni della Croce ha al centro il mistero della carità, “amare Dio è spogliarsi per Dio di tutto ciò che non è Dio” (2 S 5, 7). L’itinerario spirituale è un percorso di “purificazione” dell’anima che collabora con l’azione divina per liberarla da qualsiasi condizionamento terreno. Inizia con la purificazione dei sensi e prosegue con l’esercizio delle virtù teologali che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà. Per questo San Giovanni della Croce insegna la necessità della “purificazione” e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio. Questa purificazione non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso, ma l’allontanamento da ogni dipendenza disordinata. Questa dottrina sanjuanista prende il nome di “nada y todo”, con cui il Santo rappresenta nella Salita del Monte Carmelo (1 S 13, 11) insieme a uno schizzo grafico l’ascesa al Monte della Perfezione, sintetizzata con queste parole:

“Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.

Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.

Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.

Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.

Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.

Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai.

Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai.

Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei”

Nella purificazione “attiva” l’uomo intraprende un cammino di collaborazione divina per liberare l’anima da ogni attaccamento contrario alla volontà di Dio. Per giungere all’unione con Dio la purificazione deve essere totale e soltanto con il suo intervento l’anima che si lascia trasformare in un processo di purificazione “passiva” viene disposta all’unione trasformante d’amore con Lui. E’ l’azione dello Spirito Santo che come fuoco consuma ogni impurità attraverso ogni tipo di prova, come in una notte oscura.

L’uomo si eleva vivendo le virtù teologali che perfezionano il suo impegno. La crescita della fede, speranza e carità si accompagna con l’azione purificatrice nella progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui. Quando si giunge a questa meta, l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria da far dire a Giovanni che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Il dinamismo delle virtù teologali si apre al dinamismo dei doni dello Spirito Santo e ne trasumana il modo di vivere.

Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se il percorso di purificazione dell’anima non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio senza dover più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’itinerario progressivo di trasformazione dell’anima apre alle grazie gratis datae cioè le grazie straordinarie dei doni mistici quando vengono raggiunti i vertici sublimi.




Quel Natale che infastidisce

nativitàdi Stefano Liccioli • «Il Natale è un fastidio per tutte quelle persone che si riempiono la bocca delle assurdità del nostro tempo». L’ha scritto Gilbert K. Chesterton in un suo articolo del dicembre del 1933 che ho trovato particolarmente attuale. Ma a quale Natale si riferisce Chesterton? Non certo a quello fatto di luci, addobbi e regali così sempre tanto atteso dalle persone, oggi più che allora. Probabilmente neanche a quello che ci vede passare da una tavola all’altra per pranzi o cene luculliane.

Lo scrittore inglese si riferisce alla nascita di Gesù. Ebbene sì, mi pare ormai necessario fare questa precisazione. Stiamo infatti assistendo ad un progressivo svuotamento di senso che il consumismo e l’indifferentismo religioso del nostro mondo sta operando ai danni del Natale rendendo così opportuno e doveroso distinguerlo dalla nascita di Gesù. Se leggiamo con attenzione le pagine evangeliche che raccontano la natività, c’è poco da stare tranquilli. La vicenda di Gesù Bambino, Maria e Giuseppe che ogni dicembre torna a risuonare nelle nostre chiese dovrebbe renderci inquieti e costringerci a fare un bilancio della nostra vita, un consuntivo, come quello delle imprese, per valutare alla fine di ogni anno le perdite o i guadagni della nostra “gestione”. E’ così che Gesù che nasce per amore ci deve far riflettere sui nostri egoismi. Karl Rahner osserva che Dio, incarnandosi, ci ha dimostrato che vale la pena essere uomini e si può amarci a vicenda: avere un cuore mite, disposto al perdono, pieno di speranza, sereno, lieto, semplice e fedele. Dio stesso ha fatto la prova con questo cuore e ci ha rivelato che può funzionare.

Giuseppe e Maria che non trovano posto in albergo ci portano a pensare alla nostra disponibilità ad accogliere gli altri, ad aprire loro le porte della nostra vita, soprattutto quando hanno il volto del bisognoso, del malato e del povero.

Il Bambino deposto nella mangiatoia ci deve togliere il sonno e far pensare a tutti coloro che non hanno un letto su cui dormire.

I pastori che accorrono alla grotta ci ricorda come Gesù abbia scelto come primi adoratori dei poveri, chiamandoli a sé con la voce degli angeli. Per genitori ha voluto due semplici operai, ora degli umili pastori a rendergli omaggio, mentre i ricchi ed i potenti rimangono indifferenti. Charles De Foucauld lo spiega così:«Gesù non respinge i ricchi, è morto per essi, li chiama tutti, li ama, ma rifiuta di condividere le loro ricchezze e chiama per primi i poveri. Se per primi avesse chiamato i ricchi, i poveri non avrebbero osato avvicinarsi a Lui, si sarebbero creduti obbligati a restare in disparte a causa della loro povertà. Lo avrebbero guardato da lontano, lasciando che Lo circondassero i ricchi. Ma chiamando i pastori per primi, ha chiamato a Lui tutti. Tutti: i poveri, poiché con ciò mostra loro, sino alla fine dei secoli, ch’essi sono i primi chiamati, i favoriti, i privilegiati; i ricchi, perché da una parte essi non sono timidi e dall’altra dipende da loro il diventare poveri come i pastori, se temono che le loro ricchezze li allontanino da Lui».

Gli angeli che annunciano la pace ci devono far riflettere non solo ai tanti focolai di guerra presenti nel mondo, ma anche a tutte quelle occasioni in cui noi, proprio noi, non riusciamo ad essere operatori di pace, perdonando le offese ricevute o portando l’unione dov’è la discordia.

Sfatiamo anche il mito che a Natale si esalti l’agio familiare. Si celebra semmai il modo in cui una famiglia, restando unita, ha affrontato il disagio, un monito per tante coppie che vanno in frantumi alle prime difficoltà.

A ben guardare allora c’è poco di rassicurante nel Natale, niente di questa festa, avverte Erri De Luca, deve lusingare i benpensanti. Con le nenie, i dolci ed i doni, abbiamo provato a disinnescare la carica rivoluzionaria della nascita di Gesù, a dimenticare che Egli invece è segno di contraddizione. Siamo tentati di tenerci l’occasione commerciale, tralasciando le reali circostanze.

Ma il Natale, quello vero, rimane un atto d’accusa, si erge a giudicare il mondo e noi con esso.




Le perplessità di Giovanni Battista. Fragilità e grandezza

8 perugino - il battesimo di cristodi Carlo Nardi • Giovanni Battista, ossia “il battezzatore”, ci accompagna nel tempo liturgico del natale. Nella preparazione dell’avvento ci viene incontro come profeta, ossia come chi parla per conto di Dio davanti agli uomini, anzi come profeta specialissimo. Con lui infatti si conclude il tempo della legge, l’Antico Testamento, e s’inaugura il tempo della grazia: grazia, dono che è lo stesso Signore Gesù Cristo, che Giovanni addita come l’agnello di Dio a prendere su di sé il peccato del mondo per distruggerlo nella sua carne, ossia nella sua umanità offerta al Padre per noi.

Proprio per questo Giovanni “il battezzatore” ci visita di nuovo nel tempo dell’Epifania, in quella “manifestazione” della Trinità santissima al Giordano attorno alla sua seconda Persona, il Cristo, agnello di Dio, salvatore, anzi redentore, “riscattatore”.

Ed essendo Gesù compimento e pienezza, a seguito dell’indicazione di Giovanni “È lui, Gesù, l’agnello di Dio”, due suoi discepoli lo lasciano di punto in bianco per andare dietro – la cosiddetta sequela – a quell’uomo di Nazareth. È quello che Giovanni aveva voluto, dichiarando a chiara voce che Gesù è il redentore. Eppure Giovanni si vede privato della presenza dei suoi due pupilli. È una spoliazione, un deserto interiore, come la solitudine a cui si è votato. Giovanni – lo dice Gesù – è l’amico che gioisce per la gioia dello sposo che non gli appartiene, perché appartiene a lei, la sposa, la chiesa di cui sono ormai parte i due discepoli del solitario profeta che giustamente lo hanno lasciato per Gesù. Difatti Giovanni è l’annunciatore, l’araldo, “il precursore”, “il paraninfo” e perciò deve diminuire, ritirarsi, rattrappirsi, di fronte a Gesù che deve crescere. Il che da parte di Giovanni è un po’ morire.

La figura del Battista è infatti velata di contenuta tristezza, inondata di malinconia acuita da un crescendo di solitudine. Nei Vangeli secondo Matteo (11,2-15) e Luca (7,18-25) c’è un altro tipo di spoliazione: è la prova della fede di lui, profeta addirittura del Messia presente. Non solo. Quella prova ha a che vedere con effetti collaterali attivati dalla sua coerenza di messo di Dio, dal suo zelo per le cose di Dio; per quel “Non ti è lecito” da lui detto, senza peli sulla lingua, al re Erode Antipa: “non ti è lecito” stare insieme a la moglie di tuo fratello. Il che, dopo alcuni tentennamenti, fa scattare da parte del re la prigione per Giovanni: qualcosa che si possa bollare come lesa maestà ci vuol poco a trovarlo o inventarlo.

Giovanni dalla prigione invia dei messi a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?”. Un “altro” che cosa? Il Messia, il riscattatore, il liberatore, il salvatore con i vari significati che a queste e simili parole si davano. Nei primi del Novecento c’era chi si peritava ad attribuire a Giovanni, tutto d’un pezzo, oscillazioni, vacillamenti, perplessità, dubbi, oscurità, pensieri tormentosi. Ma – mi vien da dire – altra cosa è una solitudine scelta, altro un carcere imposto, e insieme conseguenza della sua fedeltà a Dio e al suo Messia: situazioni sconcertanti, destabilizzanti. Gesù, con la sua risposta a Giovanni tramite quei messaggeri, lo ammonisce a non trovare il lui, il Salvatore, motivi d’inciampo in un cammino di fede perseverante. Un implicito rimprovero? Uno spunto per pensare, ripensare, specialmente alla luce di quel che segue: Gesù dice che Giovanni è il più grande tra i figli d’uomo. Lo dice con un apprezzamento, con una lode, lui che conosce gli angoli bui presenti anche nel Battista. E Gesù, facendo e dicendo, c’insegna che una lode è più efficace di un rimprovero. Quella lode accompagnò Giovanni fino alla morte? Certo fino alla sua decapitazione da parte dello stesso re per la fedeltà alla volontà di Dio. Se questa non è fede!