Ancora la “Dei Verbum”. Con i Padri della Chiesa

Otsydi Carlo Nardi • La Dei Verbum rammenta due volte i Padri della Chiesa: li chiama testimoni della tradizione degli apostoli, viva ed atta a far vivere la vita cristiana (§ 8); interpreti della Scrittura, che aiutano a comprenderla, amarla e viverla (§ 3). Personaggi, quindi, che è bene frequentare, perché ci parlano di Dio.

Ma chi sono i Padri? Intanto, sono cristiani che hanno scritto qualcosa, chi più – come sant’Agostino! –, chi meno. Tutti però, in un modo o in un altro, trasmettono anche con i loro scritti la loro paternità. In modo scolastico, si qualificano per quattro caratteristiche: sono antichi, sono santi – i santi Padri –, sono di retta fede, sono riconosciuti come tali dalla Chiesa. Per dirla in modo telegrafico: antichità, santità, dottrina, riconoscimento. E se manca una di queste qualifiche? Sono retrocessi a scrittori ecclesiastici. C’è chi, come Clemente di Alessandria, sembra aver avuto meno fortuna per non essere entrato nell’albo d’oro.

Comunque, Padri e scrittori ecclesiastici hanno avuto e hanno tuttora un particolare significato. Sono importanti nella trasmissione della fede e della vita cristiana, i Padri anche per la loro intercessione.

Quanto sono antichi? Si va dagli apostoli esclusi, perché questi ultimi, fuori serie, sono più padri dei Padri. Ma i Padri come Clemente di Roma, Policarpo di Smirne, Ignazio di Antiochia, Papia di Gerapoli hanno conosciuto gli apostoli e perciò sono detti Padri apostolici. Dagli apostoli infatti ricevono la consegna della fede, del culto e della vita cristiana con le Scritture ispirate anche del Nuovo Testamento. Loro le spiegano, le predicano ai primi cristiani nell’ambito delle consegne ricevute. E scrivono, sopprattutto lettere, come avevano fatto gli apostoli.

Ma fino a che periodo si può parlare di Padri della Chiesa? Generalmente fino al papa san Gregorio Magno o sant’Isidoro di Siviglia per l’occidente latino e san Giovanni di Damasco, il “sigillo dei Padri” per l’oriente greco. Sono vissuti nei primi sette o otto secoli di cristianesimo, la storia della chiesa antica. Perché questa cronologia? Tanto più che non corrisponde a quella della storia civile, almeno quella che imparammo a scuola, con il fatidico 476, la data della fine della parte occidentale dell’impero: deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo ad opera del re erulo Odoacre e insegne imperiali impacchettate e spedite all’imperatore d’Oriente a Costantinopoli. Fine della storia antica e inizio del medioevo, grosso modo, s’intende.

Invece, che cos’hanno di speciale quei sette o otto secoli per la storia della Chiesa e dello studio dei suoi Padri? Sono i secoli in cui il cristianesimo prende coscienza di quello che è: proviene dall’ebraismo, ma non è più l’ebraismo, perché Dio è uno, ma è anche trino, Padre e Figlio e Spirito Santo, e il Figlio si è fatto uomo, Gesù di Nazaret, il Cristo salvatore. D’altra parte il cristianesimo non è paganesimo con i suoi tanti dèi e semidei e démoni, divini e celesti quanto si vuole, ma a mezza strada tra Dio e noi. No. L’unico mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù, il Messia, congiunge Dio e l’uomo, che è vero Dio e vero uomo. Ora, ad esprimere la sostanza della fede rivelata ci hanno pensato i Padri a parlarci di Gesù in rapporto al Padre (la dottrina trinitaria), di Gesù in sé (la cristologia), di lui in rapporto a noi, la nostra salvezza, e a farci capire quello per cui il cristianesimo è cristianesimo. Difatti, del Credo, quello breve, il Simbolo cosiddetto apostolico, come di quello della domenica e delle feste comandate, il Simbolo niceno-costantinopolitano, siamo debitori ai santi Padri, alla Chiesa patristica, quella appunto dei primi due concili ecumenici, Nicea (325) e Costantinopoli (381). Ed anche l’ultimo concilio che raccoglie i frutti della riflessione dell’ultimo Padre greco, san Giovanni di Damasco, il Secondo concilio di Nicea (787) sulla venerazione delle immagini sacre sviluppa la fede in Dio fatto uomo, carne, figura umana.

I Padri sono personaggi di tanto tempo fa, ma sono ancora padri nella fede. La Chiesa in vari modi sente in loro la sua fede, quella degli apostoli, e vi ritrova la santità della vita donata, anche fino al martirio. Per questo li riconosce, li interpella e li rammenta. C’invita ad ascoltarli nei loro scritti, a ritrovarci nelle loro situazioni in una di quelle città, di quei porti di mare, tra Asia, Africa ed Europa affacciate sul Mediterraneo antico e comunicanti per le vie romane, da cui tutto, uomini e dèi, merci e idee, partiva, passava e arrivava. E loro, i Padri, hanno voluto dare una mano a Gesù a passare e venire anche da noi. Si mise d’impegno, sull’esempio di sant’Ambrogio, anche san Zanobi, vescovo di Firenze verso l’anno 400, a percorrere queste nostre campagne, segnate dalle pietre miliari? Sono le nostre memorie patristiche fiorentine, tra storia e leggenda, non estranee alle attenzioni elaborate dalla Dei Verbum (§ 8)

 




Una buona notizia per i confessori?

confessionale del beato Luigi Monza 220di Basilio Petrà • La tradizione morale cattolica è segnata dal ‘500 in poi dalla presenza di un sistema morale che prende il nome di probabilismo. Pur essendo stato fortemente criticato e sottoposto alle ironie geniali di B.Pascal, esso non ha mai perso vitalità dato che la sua utilizzazione pastorale -in particolare nel foro interno sacramentale- si è sempre mostrata molto preziosa.

Il probabilismo si basa sul principio che la coscienza che dubita fondatamente dell’obbligazione di una legge morale non ha il dovere certo di seguirla e può seguire le opinioni che possono essere considerate dotate di probabilità o perché appaiono fondate al soggetto (se è in grado di valutare in modo competente) o perché appaiono fondate a persone riconosciute come competenti.  Da un oggetto dubbio non può derivare un obbligo certo; ciò significa che la libertà riacquista il suo ruolo prioritario e può aderire a quel che le appare dotato di fondata probabilità. Sempre secondo la tradizione cattolica, si ritiene che il probabilismo non sia applicabile nel caso in cui il Magistero si sia espresso in modo tale che per il fedele non possa darsi dubbio sull’obbligazione di una legge.

La formulazione astratta del principio che fino ad ora ho utilizzato rischia di nascondere il suo importante risvolto pratico. Tuttavia, l’esempio che mi appresto a darne può forse aiutare a capirlo. E l’esempio che faccio è quello dei divorziati risposati.

Nella seconda metà del secolo scorso, dinanzi alla diffusione del divorzio e al crescere di casi di cattolici divorziati risposati desiderosi di essere ammessi ai sacramenti rimanendo nella nuova unione, il Magistero ha preso chiaramente posizione escludendo in generale tale possibilità, permettendola variamente solo in alcuni casi.

Il primo caso si dà quando la nuova unione è interiormente trasformata e in qualche modo deconiugalizzata. Ci si riferisce spesso ad esso indicandolo come la soluzione ‘fratello-sorella’.

Un secondo caso, discusso ma ancora praticabile, è questo: il confessore raggiunge la certezza morale che la prima unione è invalida ma che la sua dimostrazione in foro esterno non è possibile o è estremamente onerosa. In tal caso infatti si suppone la validità del consenso dei due coniugi battezzati, data l’impossibilità di adire in foro esterno la forma ordinaria di celebrazione matrimoniale. Questo caso è spesso indicato come la soluzione della ‘buona coscienza’.

In ambedue i casi si deve tener conto della precauzione generale che si deve evitare lo scandalo dei fedeli. Si intende indicare questo quando si aggiunge la clausola latina remoto scandalo.

Esclusi tali casi, il Magistero, fondandosi sulla verità dottrinale/giuridica del matrimonio cristiano, ha sempre formalmente escluso la possibilità di ammettere all’assoluzione e alla comunione i divorziati risposati. In particolare non l’ha accettata nel caso di semplice nuova unione, per quanto riconciliata con le prime situazioni e seriamente impegnata sul piano coniugale e genitoriale nella nuova condizione; né l’ha recepita nel caso di partecipazione a percorsi di accompagnamento pastorale comparabili in parte con gli antichi itinerari penitenziali.

Ebbene, dal febbraio 2014 ovvero dalla relazione del card.Kasper al concistoro, le cose sono cambiate. Il Magistero ha di fatto collocato nell’area del dubbio tale legge dell’esclusione dall’assoluzione e dalla comunione in tutti i casi di divorziati risposati con prima unione valida e privi dell’intenzione di vivere come fratello-sorella.

Non si può più considerare certa una legge esclusiva, sulla quale le stesse autorità della Chiesa gettano il dubbio o ne consentano formalmente la messa in dubbio. Tutti ricordiamo che l’ipotesi di una procedura di tipo pastorale (affidata primariamente al vescovo) che consenta ai divorziati risposati l’accesso ai sacramenti in particolari circostanze (stabilità, serietà coniugale e genitoriale, vita di fede…) è stata prospettata dal card. Kasper dinanzi a papa Francesco ed è stata ripresa nel Sinodo straordinario. Non solo, l’ipotesi è stata votata all’interno di un numero (52) della Relatio finalis (poi Lineamenta) ottenendo una maggioranza semplice.

Ciò significa che già fin da ora, nel caso di penitenti riconducibili alle condizioni indicate da Kasper o dalla Relatio, un confessore potrebbe serenamente ritenere dubbia la norma esclusiva e, dandosi le circostanze opportune potrebbe assolvere e ammettere alla comunione alle ordinarie condizioni. Certo, in una logica ecclesiale sarebbe preferibile se nel fare questo potesse avere il consenso del suo vescovo; tuttavia non è necessario, giacché la Chiesa nel suo insieme e nelle sue massime autorità magisteriali discutendo il cambiamento di disciplina rende ormai dubbia la norma precedente, almeno nel caso di molti divorziati risposati, ma anche (forse) nel caso di situazioni riconducibili a configurazioni analoghe.




Essere Cirenei sulla via della sofferenza

papa_malato2di Stefano Liccioli• Servire, uscire da sé, stare, dedicare del tempo e mistero. Mi sono sembrati questi i concetti chiave su cui ruota il messaggio di Papa Francesco per la prossima Giornata Mondiale del Malato che si celebra l’11 febbraio 2015. Il testo del Santo Padre è molto chiaro e non ha bisogno di particolari riassunti o spiegazioni. Mi preme allora condividere alcuni spunti di riflessione offerti da questo messaggio, a partire da quei concetti sopracitati e che esplicitano, a mio avviso, cos’è la “sapientia cordis”, la sapienza del cuore di cui il Pontefice parla nel suo scritto. In questi mesi si parla molto di nuovo umanesimo. Un vero umanesimo non potrà non tenere conto di questa sapienza, «un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e nel cuore di chi sa aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconosce in essi l’immagine di Dio».

Servire. Tempo fa’ un esponente politico si scagliò contro quelle pubblicità in cui si vedono le donne che servono a tavola marito e figli. Sarebbe, a suo parere, un segno di discriminazione femminile. Polemiche che lasciano il tempo che trovano, frutto di un femminismo esasperato, ma che allo stesso tempo nascondono una certa considerazione che a volte è riservata al servizio, al mettersi a disposizione degli altri. Siamo sempre più tentati dal delegare qualcun altro al posto nostro (gli specialisti del servizio) quando si tratta di chinarsi a lavare i piedi al fratello, ad essere solidale con lui senza giudicarlo per quello che è o per quello che fa. Mi tornano in mente le parole di Madelein Delbrel che, in una sua splendida preghiera, dice di voler girare il mondo con un catino (come quello dell’Ultima cena) e ad ogni piede cingersi dell’asciugatoio e curvarsi in basso, non alzando mai la testa oltre il polpaccio per non distinguere i nemici dagli amici e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato, del carcerato, dell’omicida, di chi non la saluta più, di quel compagno per cui non prega mai.

La vera carità è condivisione che non giudica, che non pretende di convertire l’altro.

Uscire da sé. E’ questa un’idea cara a Papa Francesco che chiede a tutta la Chiesa di uscire per andare incontro alle persone, verso le periferie dell’esistenza. Il nostro mondo c’imprigiona nelle tante cose da fare,  siamo assillati dalla fretta, dalla frenesia del fare, del produrre, e si dimentica la dimensione della gratuità, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro. Per far questo non sono richieste doti o azioni particolari. Basta saper spezzare un po’ del nostro tempo ed offrirlo in dono ai fratelli, stando accanto a loro. Quante volte ci accorgiamo che i malati chiedono persone capaci di starli accanto, non solo per un discorso di assistenza, ma soprattutto per un accompagnamento, tante volte silenzioso. Essi cercano dei Cirenei pronti a camminare con loro sulla strada della sofferenza, capaci di farli sentire amati e confortati. Il tempo passato accanto al malato è un tempo santo, ci ricorda il Papa, anche perché c’è quella parola del Signore che dice che ogni cosa fatta ad uno dei fratelli più piccoli, l’abbiamo fatta a Lui (Mt 25,40).

Il Santo Padre sottolinea anche il valore fondamentale della gratuità. Nella nostra società, soprattutto tra i giovani, è sempre più difficile far capire che si può fare qualcosa per gli altri senza chiedere un compenso in cambio. In certe occasioni capita che quando si aiuta qualcuno ci si senta chiedere: “Quanto ti devo dare?”. Basterebbe un grazie. La gratuità può spaventare infatti, rompe gli schemi. Riuscire a monetizzare un aiuto ci tranquillizza invece.

Non è raro inoltre che paradossalmente la gratuità sia guardata con sospetto. Sembra farsi strada l’idea che Ignazio Silone faceva dire ad uno dei “cafoni” in Fontamara:«Se è gratis, è un inganno». Infine il mistero. Il dramma del dolore umano, specialmente quello innocente, porta con sé grandi interrogativi, la cui unica risposta è quella d’amore rappresentata dalla Croce di Gesù, “atto supremo di solidarietà di Dio con noi, totalmente gratuito, totalmente misericordioso”.

Cominciamo allora a fare nostro, a vivere in prima persona il tema di questa XXIII Giornata Mondiale del Malato:«Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (Gb 29,15).

 

 

 




Anno della Vita Consacrata: “Troverete la vita dando la vita, la speranza dando la speranza, l’amore amando”

download (2)di Francesco Romano • Il 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore al Tempio, la Chiesa celebra ogni anno la giornata della Vita Consacrata. Il Santo Padre Francesco con la recente Lettera Apostolica del 21 novembre 2014, A tutti i consacrati, ha indetto un Anno della Vita consacrata con inizio il 30 novembre 2014, prima Domenica di Avvento, per terminare il 2 febbraio 2016. La coincidenza è data dalla ricorrenza del 50° anniversario della Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, che nel cap. VI tratta dei religiosi, come pure del Decreto Perfectae caritatis sul rinnovamento della vita religiosa.

Il Papa indica come obiettivi per questo anno gli stessi che San Giovanni Paolo II aveva proposto alla Chiesa all’inizio del terzo millennio, riprendendo quanto già aveva indicato nella Esortazione post-sinodale Vita consecrata: «Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi cose grandi» (n. 110).

Il primo tra gli obiettivi prioritari che il Papa indica ai consacrati è guardare il passato con gratitudine. Ogni Istituto ha alle sue origini una ricca storia carismatica che nel tempo coinvolgerà altri membri in nuovi contesti geografici e culturali dando vita a nuovi modi di attuare il carisma nella fedeltà. Raccontare la propria storia è un modo per tenere viva l’identità ripercorrendo il cammino delle generazioni passate e prendere coscienza di come sia stato vissuto il carisma. L’insegnamento è la scoperta delle incoerenze e dell’oblio di aspetti essenziali del carisma che diventa appello alla conversione.

Quest’anno ci chiama inoltre a vivere il presente con passione per attuare in ascolto dello Spirito gli aspetti costitutivi della vita consacrata, essendo ogni forma di vita consacrata generata dallo Spirito per seguire Cristo come viene insegnato dal Vangelo. L’ideale dei Fondatori è Cristo ed il Vangelo la regola in assoluto. L’impegno di questo anno è di lasciarsi interpellare dal Vangelo per attuarlo nelle situazioni di ogni giorno.

Il terzo obiettivo è abbracciare il futuro con speranza come frutto della fede nel Signore, di fronte alle sfide della diminuzione delle vocazioni, dei problemi economici e del relativismo, che permetterà alla vita consacrata di continuare a scrivere una grande storia nel futuro.

Ne consegue che tra le attese dell’anno della vita consacrata, la gioia è il segno dell’autentica fraternità vissuta nelle comunità. La profezia che caratterizza la vita consacrata fa dire al Papa “mi attendo che svegliate il mondo” come il profeta che scruta la storia e interpreta gli avvenimenti. Non “utopie” da mantenere in vita, ma saper creare “altri luoghi” dove si vive la logica evangelica del dono, dell’accoglienza e della fraternità. Sono i luoghi nati come espressione della carità e creatività carismatica in comunità religiose, ospedali, scuole ecc. che devono diventare lievito per una società ispirata al Vangelo.

I religiosi “esperti di comunione” in questo anno devono far diventare realtà la “spiritualità della comunione” prima di tutto nelle proprie comunità secondo la “mistica del vivere insieme”, ma anche tra i membri di diversi istituti per elaborare insieme progetti comuni di formazione, evangelizzazione e interventi sociali. Il futuro non si costruisce nell’isolamento.

Il papa sollecita ancora i religiosi a uscire da se stessi per andare incontro a un’umanità sofferente, senza lasciarsi “asfissiare dalle piccole beghe di casa”, anzi queste potranno trovare soluzione nell’uscire per andare a risolvere i problemi di chi è fuori con gesti concreti di carità e di accoglienza annunciando il Vangelo: “Troverete la vita dando la vita, la speranza dando la speranza, l’amore amando”. E poi, lo snellimento delle strutture e il riutilizzo delle grandi case per fronteggiare le emergenze del nostro tempo dettate dalle esigenze della carità e della evangelizzazione.

Anche la vita strettamente contemplativa viene incoraggiata ad aprirsi nelle relazioni tra diversi monasteri per avere scambi di esperienze sulla vita di preghiera e farsi carico, pur da dietro le grate della clausura, dei problemi del mondo, di quanti sono in ricerca di una vita spirituale più intensa, nel sostenere i cristiani perseguitati e quanti hanno bisogno di un sostegno morale o materiale.

I molteplici Istituti caritativi che rispondono a differenti forme di vita consacrata suscitate dalla “fantasia dello Spirito” in questo anno non potranno sottrarsi a una seria verifica sulla loro presenza nella vita della Chiesa locale e sul loro modo di rispondere ai bisogni dei poveri.

Questa particolare nota di ecclesialità che riporta la vita consacrata al cuore della Chiesa, manifesta visibilmente la sua appartenenza alla vita e alla santità della stessa Chiesa (can. 207 §2) e porta a dire che l’attenzione ai bisogni del mondo, nella docilità agli impulsi dello Spirito, la trasformerà in un autentico Kairòs, cioè un tempo di Dio ricco di grazia e di misericordia.




I Patriarchi e la porta stretta: escatologia e parenesi nei mosaici del Battistero fiorentino

Mosaici_del_battistero,_paradiso_06_gerusalemme_celestedi Gianni Cioli • La raffigurazione del paradiso nel Giudizio Universale dei mosaici del Battistero di Firenze è caratterizzata dall’immagine di tre figure imponenti che, in un giardino lussureggiante, tengono in grembo alcune figure minute in abito bianco. La scena è certamente ispirata al passo scritturistico di Lc 16,19-31 in cui si parla del «seno» di Abramo che accolse il defunto Lazzaro, ma risulta arricchita dalla presenza di Isacco e Giacobbe che accolgono a loro volta gli eletti, risorti dai morti.

La raffigurazione dei tre patriarchi quale dimora dei giusti defunti trova appoggio in fonti letterarie e liturgiche di rilievo: l’apocrifo Quarto libro dei Maccabei (I secolo a.C.) parla dell’accoglienza dei morti da parte di Abramo, Isacco e Giacobbe e l’immagine del «seno» – o dei «seni» – «dei patriarchi» è attestata, già dal V secolo, nella liturgia dei defunti sia in oriente che in occidente. Particolarmente significativa è, a questo proposito, la testimonianza del Sacramentario Gelasiano: «Accogli, Signore, il tuo servo nella dimora eterna e concedigli il riposo e il regno, ossia la Gerusalemme celeste, e degnati di collocarlo nei seni dei nostri patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe».

La fonte scritturistica di maggior rilievo per la raffigurazione dei patriarchi nel Giudizio del Battistero di San Giovanni pare ancora il terzo Vangelo. In Lc 13,22-30 troviamo infatti un’ammonizione di forte tenore escatologico:

«Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Rispose: “Lottate per entrare dalla porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”».

Ciò che nel mosaico fiorentino evoca con più forza il testo escatologico di Luca è il modo in cui è raffigurata la porta del paradiso: una «porta stretta» (cf. Lc 13,24). L’immagine, evidente metafora della sequela di Cristo, nel contesto del Battistero vuole probabilmente essere un’esortazione a vivere con radicalità l’esistenza cristiana che si fonda nel battesimo, in un’ottica di speranza e di timore.

La descrizione degli eletti con Abramo, Isacco e Giacobbe nel brano evangelico acquista significato nel drammatico confronto con la situazione di «pianto e stridore di denti» (cf. Lc 13,28) patita dagli esclusi dal regno di Dio. Il contrasto è tradotto, fin troppo efficacemente, nella raffigurazione fiorentina dell’inferno all’angolo opposto nella raffigurazione del giudizio.

Come il brano di Luca, anche il mosaico che lo interpreta riesce a sovrapporre efficacemente, attraverso le immagini, la previsione degli eventi ultimi e l’esortazione pratica per il presente. I particolari di una scena possono diventare parenesi che, attraverso l’emozione visiva, traduce la pagina evangelica per l’osservatore contemporaneo, mettendola ‘in rete’ con altri passi evangelici. Così, il progressivo rimpiccolimento degli eletti che s’affrettano verso la porta del paradiso seguendo l’angelo e la loro quasi omologazione nei tratti somatici può avere un significato parenetico in relazione all’immagine della porta stretta: se vuole entrare nel regno dei cieli (cf. Mt 18,3; Mc 10,13-16; Lc 18,16), il cristiano deve imparare a farsi piccolo nell’umiltà davanti al Signore, nella fede e nella speranza in lui, e nella carità verso i fratelli (cf. Mt 25,31-46; Lc 22,24-27; Gv 13,1-17), per essere in grado di attraversare la porta stretta «che conduce alla vita» (Mt 7,14).

I giusti raffigurati nella scena del giudizio possono risultare, attraverso la simbologia delle fattezze e delle movenze, non soltanto immagini di una condizione futura e sperata, ma anche specchio in cui riconoscere la via di conversione che il cristiano intraprende nella vita presente con l’esercizio delle virtù teologali e l’agire concreto.

Pur mancando di espliciti riferimenti alle opere di misericordia la grande raffigurazione escatologica dei mosaici del Battistero fiorentino appare comunque densa di implicazioni morali.

Gli eletti che si volgono verso la porta del paradiso sembrano correre e quasi scattare. L’immagine può essere considerata un’acuta traduzione visiva dell’esortazione: «Lottate per passare dalla porta stretta» (Lc 13,24). Rappresentati quasi come atleti pronti allo scatto per la competizione, gli eletti potrebbero alludere alla serietà dell’impegno cristiano, ricordando ai battezzati che la vita del fedele è prova e combattimento.




Padre Cappello. Il professore in confessionale

Santo_Inácio_-_Romadi Francesco Vermigli • La Chiesa di Sant’Ignazio in Campo Marzio è una delle più celebri tra quelle costruite nella Roma della Controriforma. Chi entra, viene attratto dalle impareggiabili pitture prospettiche frutto del virtuosismo di Andrea Pozzo o dai sepolcri dei santi dell’epoca d’oro della Compagnia di Gesù, come Roberto Bellarmino o Luigi Gonzaga. Entrando, forse, il visitatore scorgerà anche un confessionale ricolmo di ex-voto: un confessionale come tanti, ma il confessore che lì esercitò il proprio ministero per quarant’anni, fu noto come “il confessore di Roma”.

Si è chiusa il 24 giugno dello scorso anno la fase diocesana del processo di beatificazione di padre Felice Cappello, nato a Caviola, presso Falcade l’8 ottobre 1879, imparentato per parte di padre con la famiglia da cui proverrà il futuro papa Luciani. Dopo l’ordinazione presbiterale nel 1902, fu prete della diocesi di Belluno per undici anni, insegnante in Seminario e vicario parrocchiale. Nel 1913 – a seguito di una notte passata interamente in preghiera nella grotta di Lourdes – chiese l’entrata nella Compagnia di Gesù. Insegnò diritto canonico al Pontificio Collegio Leoniano di Anagni e poi – dal 1920 e ininterrottamente fino quasi alla morte, avvenuta il giorno dell’Annunciazione del 1962 – presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma. Per circa quarant’anni la sua vita romana fu scandita dall’insegnamento nelle aule austere della Gregoriana e dal ministero della confessione sotto le volte affrescate di Sant’Ignazio: giorno dopo giorno, anno dopo anno, due luoghi distanti solo qualche centinaio di passi.

Ma chi era padre Felice Cappello? Il giorno della sua morte, papa Giovanni XXIII scrisse un telegramma in cui invocava «al servo buono e fedele del Signore il premio eterno». Simili parole si leggono nell’epitaffio collocato sopra la tomba che in Sant’Ignazio è poco lontana dal suo confessionale: «religioso piissimo ed esemplare, esimio professore di diritto canonico, illuminato direttore di spirito, instancabile servitore della Chiesa». Forse è proprio il “servizio instancabile” per il bene della Chiesa la chiave interpretativa per capire questa figura singolarissima di professore e padre spirituale. Instancabile fu la sua attività di professore di diritto canonico, lui che da prete bellunese aveva conseguito – dopo la laurea in teologia a Bologna nel 1904 e in filosofia a Roma, presso l’allora Accademia di San Tommaso l’anno successivo – nello stesso 1905 anche la laurea in utroque iure all’Apollinare. Instancabile nell’insegnamento in Gregoriana – che gli assicurarò la stima e il credito di generazioni di studenti – nella consulenza prestata ai dicasteri romani (fra i quali, dal 1925 la Commissione per l’Interpretazione autentica del Codice di diritto canonico e più tardi, soprattutto, la Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti), nella produzione di alcuni trattati che per decenni furono usati nei seminari cattolici; si pensi anche solo a quello sul matrimonio uscito nel 1927. A giudizio degli specialisti, è stato uno dei più grandi commentatori del codice del ’17, per la vastità dell’analisi, per l’acume nella sintesi.

La sua figura di insegnante e di prete pare appartenere a pieno titolo al periodo che come un grande arco unisce la Chiesa dal modernismo agli anni che precedettero il Concilio: quasi simbolicamente padre Cappello muore pochi mesi prima dell’inizio del Vaticano II. Si pensi alla sua produzione nell’ambito del diritto canonico: egli è espressione tra le più significative della manualistica preconciliare, entro la quale la sua ricerca si connota per l’esegesi attenta e fedele del codice pio-benedettino. Ma questa conoscenza del diritto minuziosa e precisa si accompagnava sempre con un’attenzione aperta alla realtà dei singoli uomini: interveniva in lui, cioè, quell’arte tipica del padre spirituale di riconoscere i tempi e i modi giusti con i quali declinare nel concreto i principi e le norme, su cui come docente spendeva larga parte del proprio studio e del proprio insegnamento. Si narra che fosse solito rispondere: “nel trattare con le anime si devono tenere presenti i trattati, ma non si dovranno dimenticare le anime in concreto”. Fedeltà ai principi e conoscenza delle norme da un lato, capacità di saperli dosare per il bene delle anime: un equilibrio che centinaia, migliaia di uomini e donne per decenni hanno saputo trovare nella paziente opera del confessore della chiesa di Sant’Ignazio. Un’arte, una sapienza, un acume che rende padre Cappello discepolo di quel principio cardine della vita ecclesiale, che verrà consacrato dalle parole con cui si chiude il codice di diritto canonico dell’83: suprema lex Ecclesiae salus animarum. Solo la fedeltà a questa legge suprema che regge e governa la Chiesa, riesce, credo, a spiegare pienamente il tratto singolarissimo della sua figura di prete, insegnante, confessore.




La terza Guerra Mondiale e il “pugno” di Papa Francesco

siria323di Antonio Lovascio • Se, dopo lo Yemen e l’Ucraina, dovesse riesplodere anche l’altra Jahd  – quella cecena, che cova sotto le ceneri di Grosny – dove ci condurrebbe questa terza guerra mondiale combattuta a pezzi,  che “è già avviata”, come ha ripetuto nelle scorse settimane Papa Francesco? In qualsiasi momento e per qualsiasi “incidente” ci porterebbe a una catastrofe. Oltre l’orizzonte della strage di Parigi (che ha colpito la rivista satirica “Charlie Hebdo” e che, con un allarme finora mai lanciato    con tale intensità,  ha scatenato la caccia ai terroristi islamici in tutta Europa) c’è l’incendio  di una guerra civile globale , dove ogni giorno si perpetuano terrore e morte. Escludendo qualche eccezione (tra queste Sergio Romano),  gli analisti sembrano aver dimenticato la strage di Beslan, in Ossezia del Nord. Nel settembre 2004, i fondamentalisti ceceni agli ordini di Al –Qaida, collegati telefonicamente con l’Arabia Saudita – come avrebbe in seguito dimostrato il Servizio segreto russo – massacrarono 333 anime del Caucaso, indistintamente musulmani e cristiani , 186 dei quali bambini. Da allora fino ad oggi c’è un elemento di novità. Si chiama Isis, ossia Stato islamico: ha nel frattempo preso il posto di Al-Qaida,  ed ha istituito un Califfato nella persona di Abu Bakr al Baghadadi, che  domina con orrori e soprusi nello scacchiere mediorientale già abbondantemente  inondato di sangue per le battaglie di Israele con i palestinesi di Hamas in Cisgiordania e le milizie di Hezbollah in Libano. Il Califfo combatte sull’onda delle cosiddette “Primavere arabe” incoraggiate dall’Occidente per sottrarre sovranità a realtà statuali comunque necessarie. Prova ne è la Libia, dove l’ombra di Gheddafi è ormai lontana, mentre si sono già ben insediati gli uomini armati del Califfo, che hanno poi puntato sul  Sud della Siria: promettendo il vero autentico  Islam, questi eserciti non si peritano di procedere allo squartamento di nemici (spesso altri mussulmani, considerati infedeli e peccatori) pur di raggiungere i loro obiettivi. Non si peritano  di sequestrare  ostaggi – per ricattare gli  Stati occidentali- uccidendoli  quando non viene pagato un riscatto, linfa che poi alimenta il terrorismo e finanzia i loro assalti bellici.

Questo fanatismo islamico è lo stesso che ormai da mesi e mesi infiamma la Nigeria (il paese più popoloso dell’Africa), dove il gruppo Boko Aram dà fuoco a scuole e chiese cattoliche, massacra cristiani per impedire che venga praticata un’educazione occidentale. Infiamma il Niger , dove in segno di protesta per le nuove vignette pubblicate da “Charlie Hebdo” sono state distrutte chiese cristiane. E perché mai si bruciano luoghi di culto proprio nel momento in cui Papa Francesco ha apertamente preso le distanze da un uso della satira che non sa fermarsi davanti al necessario rispetto dei riferimenti religiosi altrui ?

Di fronte a queste incursioni e carneficine, qual’è stata la risposta dell’Europa e dell’Italia in particolare ? I ministri degli esteri e degli interni europei hanno concordato una serie di misure – a partire da maggiori controlli ai confini – per proteggerci più efficacemente ed evitare il rischio di infiltrazioni tra gli immigrati; per individuare le “cellule dormienti”, fermare la libera circolazione nel Continente di terroristi e di reclutatori: complessivamente sarebbero più di 18 mila i soggetti entrati nel mirino dell’Intelligence”, che sta cercando di allargare la collaborazione alla Turchia (peraltro sospettata di offrire un “corridoio” di fuga ai jahidisti che seminano  paura e sangue in Europa)  ed ai Paesi Arabi più evoluti, in questo momento come noi interessati a difendersi.

Certo sono urgenti interventi  antiterrorismo, ma per arginare e bloccare questa guerra ancor più possono fare le diplomazie, la cultura ed il dialogo, come ha sottolineato nei giorni scorsi con estrema franchezza Papa Francesco, parlando con i giornalisti nel suo viaggio verso e di  ritorno da Manila. E non a caso dal fronte opposto si è alzata subito una voce autorevole di distinguo evidente quanto reale:  quella del generale Al Sisi, presidente della Repubblica egiziana, che ha avuto  il coraggio di entrare nella più importante università del mondo musulmano, la cairota Al Azhar, per contrastare apertamente addirittura il pensiero, gli insegnamenti dell’attuale leadership musulmana: <È possibile – ha detto di fronte ai supremi capi teologi  dell’Islam – che la nostra dottrina debba fare di tutta la “umma” una sorgente di ansietà, pericolo, uccisioni e distruzioni per il resto del mondo? È possibile che 1,6 miliardi di persone vogliano, per poter esse stesse vivere, uccidere il resto degli abitanti del mondo?». Finalmente una presa di posizione chiara. Che si accompagna  alle analisi altrettanto chiare di Bergoglio,  che ha avuto  modo di precisare meglio il senso della frase del pugno se uno  parla male della sua mamma, intesa da alcuni come se giustificasse reazioni violente: <In nome di Dio non si uccide.  In teoria possiamo dire che una reazione violenta davanti a un’offesa , a una provocazione, non si deve avere. Che dobbiamo porgere l’altra guancia, come dice il Vangelo. Che abbiamo la libertà di espressione , in teoria, ed è importante. Ma siamo umani. E c’è la prudenza , la virtù della convivenza umana che regola i nostri rapporti . Io non posso provocare, insultare una persona continuamente, perché rischio di farla arrabbiare e ricevere una reazione ingiusta. Così come la libertà di espressione deve tener conto della realtà umana ed essere prudente. Una reazione violenta è cattiva sempre. Nella pratica fermiamoci un poco e riflettiamo!>.

A mente fredda, l’osservazione di Papa Francesco , benevola e pacata, ha ricordato il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, nel 2006; quando Ratzinger parlò di “una  mentalità post-positivista che porta a credere che le religioni sono una  sorta  di sottoculture : tollerate, ma in fondo considerate  poca cosa, e non fanno parte della cultura illuminista”.  Bergoglio, al pari del suo predecessore,  ha invitato a non accettare quelle teorie ispirate da Voltaire che, in nome della “laicità”, non pone limiti alla libertà di espressione (e di satira); teorie analizzate e condivise il 16 gennaio in un editoriale di “Repubblica” dal giurista Stefano Rodotà proprio a commento delle dichiarazioni del Pontefice.  Quel laicismo praticato da “Charlie Hebdo”, giornale diventato  martire  della ottusità e della ferocia dei terroristi sempre pronti ad ammazzare nel nome di Allah. Rivista satirica con non più di 50 mila lettori , che non ha mai tenuto conto  del richiamo della Santa Sede  a non deridere la fede degli altri. Richiamo ben espresso dal portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls il 4 febbraio 2006. Erano i giorni in cui la pubblicazione  delle vignette danesi contro l’Islam – che risaliva al settembre precedente – stava provocando violente reazioni nei paesi musulmani: «Il diritto alla libertà di pensiero e di espressione, sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo – disse Navarro Valls –  non può implicare il diritto di offendere il sentimento religioso dei credenti. Tale principio vale ovviamente in riferimento a qualsiasi religione (…) talune forme di critica esasperata o di derisione degli altri denotano una mancanza di sensibilità umana e possono costituire in alcuni casi un’inammissibile provocazione. Va però subito detto che le offese arrecate da una singola persona o da un organo di stampa non possono essere imputate alle istituzioni pubbliche del relativo Paese (…) Azioni violente di protesta sono, pertanto, parimenti deplorabili».

Allora, come ha scritto su “Avvenire” Marina Corradi (figlia del grande inviato di guerra del “Corriere della Sera” morto nel 1990), la speranza  di una convivenza di pace inizia dal rispetto di ciò che è sacro per l’altro. Noi lo sappiamo, ma dovremmo ricordarcene tutti. All’Occidente spetta prima di tutto il compito di cercare di capire quello che succede, impegnandosi a sostenere le forze che lavorano per una transizione che sarà purtroppo lunga e difficile.




Digressioni sulla parola «cattolicità»

piazza-san-pietro-ROMAdi Andrea Drigani • La «cattolicità», come ben sappiamo, è una delle quattro note che caratterizzano, in modo essenziale, la Chiesa. E’ una nota antichissima, che troviamo all’inizio della storia del cristianesimo. Il santo vescovo Ignazio d’Antiochia, che subì il martirio a Roma nel 107, aveva scritto: «Là dove è Cristo Gesù, ivi è la Chiesa cattolica». Nelle professioni di fede del Concilio Niceno I del 325 e del Concilio Costantinopolitano I del 381 si ribadisce, riguardo alla Chiesa, la sua «cattolicità». Questa parola, in senso etimologico, indica universalità, derivando da un aggettivo greco (katholikós) che vuol dire, appunto, universale. Il senso teologico di questo termine, ce lo rammenta il Compendio del Catechismo, si compone di tre elementi inseparabili. La «cattolicità» della Chiesa vuol dire: 1) che essa annunzia la totalità e l’integrità della fede; 2) che porta e amministra la pienezza dei mezzi di salvezza; 3) che è inviata in missione a tutti i popoli di ogni tempo e a qualsiasi cultura appartengano. I cardini primari della fede (sacri canones), si reperiscono, come proclama il settimo concilio ecumenico: il Niceno II del 787, in ciò che è stato emanato dagli apostoli, dai sei santi e universali sinodi e da quei concili che si sono riuniti localmente, nonché dai santi Padri. A questi sacri canones si devono aggiungere, le decisioni del Concilio Fiorentino del 1439, di quello Tridentino del 1545-1563 e del Vaticano I del 1870. La «cattolicità», poi, implica la vita sacramentale piena e il ministero ordinato nella successione apostolica. La «cattolicità», infine, comporta l’invio in missione all’intero genere umano, perché tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo popolo di Dio. Perciò – come ricorda il Vaticano II – questo carattere di universalità che adorna il Popolo di Dio, è un dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità del suo Spirito. Il senso «cattolico» nella Chiesa è costantemente cresciuto col passare dei secoli; dopo la fine del potere temporale dei papi, il 20 settembre 1870, ha ricevuto un’ulteriore accelerazione, come molto acutamente osservò lo storico Giovanni Spadolini, per il quale già con Pio IX, dopo la presa di Roma, la preoccupazione religiosa, cioè di fede, prevalse sulle considerazioni politiche contingenti ed il Papato e la Chiesa si sentirono proiettati, non più sui destini dello Stato pontificio, ma su un piano universalistico e con un rinnovato impegno missionario. La «cattolicità» è progredita anche all’interno della Chiesa con la consapevolezza, ad esempio, che accanto alla tradizione canonica latina vi è, con pari forza e dignità, la tradizione canonica orientale. Per questo San Giovanni Paolo II promulgava, nel 1983, il Codice di diritto canonico (Codex iuris canonici) per la Chiesa latina, e nel 1990 il Codice dei canoni delle Chiese orientali (Codex canonum ecclesiarum orientalium). Nella Costituzione Apostolica Sacri Canones, con la quale ordinava la pubblicazione del Codice orientale, San Giovanni Paolo II affermava: «Fin dall’inizio della codificazione canonica delle chiese orientali, la stessa volontà dei romani pontefici di promulgare due codici, uno per la chiesa latina e l’altro per le chiese orientali cattoliche, dimostra molto chiaramente che essi volevano conservare ciò che è avvenuto per provvidenza divina nella Chiesa, cioè che essa, riunita da un unico Spirito, deve respirare come con i due polmoni dell’Oriente e dell’Occidente e ardere nella carità di Cristo come con un solo cuore composto da due ventricoli». La «cattolicità», dunque, non è soltanto l’Occidente, ma l’Occidente e l’Oriente insieme. Del resto questo era già prefigurato nella Sacra Scrittura: «e ha radunato da terre diverse, dall’oriente e dall’occidente, da settentrione e da mezzogiorno» (Salmo 170,3); «Non temere, perché io sono con te; dall’oriente farò venire la tua stirpe, dall’occidente io ti radunerò» (Isaia 43,5); «Poiché dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le nazioni» (Malachia 1,11); «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Matteo 8,11). I viaggi apostolici iniziati da Paolo VI e continuati fino a Papa Francesco sono all’insegna della «cattolicità», come pure l’inserimento nel Collegio cardinalizio di vescovi provenienti da tutti i continenti, a prescindere da sedi più o meno prestigiose (ma cos’è il prestigio?). Questo ci fa comprendere che a Roma nessuno è straniero (Roma patria communis) e che la Chiesa più è universale, più è cattolica.

 

 




A proposito de “I Vangeli” di Pietro Citati

image (1)di Stefano Tarocchi • «La verità fondamentale per la quale sono stati scritti i Vangeli – Gesù è il figlio di Dio – non venne proclamata da Gesù morente o dai suoi discepoli o dalle donne di Galilea o da un ebreo convertito. Venne proclamata da uno straniero, che apparteneva al popolo dei persecutori, e certo guardava con ironia o indifferenza alle risse religiose di Israele: lo strano popolo che credeva (parola che egli non capiva) in un solo Dio, e non in una moltitudine colorata di dei» (I Vangeli, 140). Le parole che Pietro Citati scrive, riferendosi alla professione di fede del centurione romano alla morte di Gesù, alla fine del capitolo diciotto, terzultimo dei venti che compongono quest’agile volume (pubblicato da Mondadori nella collana “i Saggi”, Milano 2014), possono servire da emblema di questo percorso con cui affronta con maestria la figura di Gesù a partire dai quattro libretti che conosciamo come Vangeli, poi entrati nel canone del Nuovo Testamento. La bibliografia essenziale, che fa riferimento a testi tradotti e pubblicati in Italia dall’editrice Paideia, con i commentari di Gnilka, Pesch, Schürmann, Bovon, Schnackenburg, divenuti ormai classici, testimonia che l’intenzione di Citati  è più che seria.

Ma perché un critico letterario di prim’ordine si confronta con un tema così particolare? Oggi abbiamo il dono di vivere in un tempo in cui le parole di Francesco, il papa di Roma, ridanno freschezza all’opera dell’evangelizzazione, sciogliendola dall’ingessatura in cui anche uomini di chiesa, inavvertitamente, talora condannano, sembra quasi scontato. Quando un comico, citato peraltro dallo stesso Francesco, si cimenta con le Dieci Parole in diretta televisiva e riesce a dire cose che bucano lo schermo, allora c’è spazio anche per un critico letterario che spiega ad esempio il Padre Nostro con la capacità degli esegeti di professione, quando Gesù lo insegna, e – lo richiama Citati molto sottilmente –, nel momento in cui offre al Padre la sua volontà avanti la passione.

Credo che Citati si sia liberato di quel paludato sussiego che impedisce al Libro ispirato, sacro a cristiani ed ebrei, di diventare parte integrante della cultura scolastica ed accademica, coerentemente alla noia sottile con cui i cristiani praticanti o meno guardano alla loro fede. Non desta perciò meraviglia il successo che ebbe anni fa il mediocre volume di Dan Brown, basato sull’apocrifo Vangelo di Giuda (fine II secolo), ma anche l’influsso che questo tipo di letteratura riesce a produrre ancora in un certo numero di credenti e nell’immaginario collettivo.

La passione per tali scritti, raccolti sotto il nome collettivo di Vangeli apocrifi, ma che in realtà tradiscono interessi enormemente differenti, fino alla letteratura che riduce la fede a conoscenza – i Vangeli gnostici –, a mio avviso, evita la fatica di riprendere in mano quella letteratura neotestamentaria, che appartiene interamente al I secolo, scritta e trasmessa da un numero enorme di testimoni antichi, in un greco che ad una lettura superficiale appare banale ai cultori di lettere e tradizioni classiche – che Citati ben conosce e utilizza – e non è intaccata nel suo valore perfino da traduzioni fortemente penalizzanti quanto più vogliono essere attuali.

Non è primariamente in gioco la fede, che altro non è che la risposta dell’uomo al Dio che si è rivelato in Cristo, ma la sua plausibilità, la sua comunicazione, che la rende codice per interpretare letteratura ed arte, paesaggio esterno ed interno all’uomo, architettura sacra e non solo, e vita vissuta.

Ad essere in gioco è colui che, per un credente, è al centro della fede della comunità cristiana; qualcuno al quale necessariamente bisogna guardare, per le sue parole e per le sue azioni, come colui che «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38), pena la riduzione dell’esistenza umana ad un percorso senza senso alcuno.

Citati rimette in gioco questo percorso, rivolgendosi potremmo dire, a coloro che un saggio di Pierre Riches di qualche anno fa, uscito in italiano da Mondadori nel 1977, fa chiamava gli “ignoranti colti”. Essi forse non sono come scrive Paolo ai cristiani di Efeso, parlando della loro condizione avanti la fede: «in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo.» (Ef 2,12). Sono ignoranti, diremmo noi, non importa se consapevoli o inconsapevoli, e tuttavia felici in questa condizione.




La Chiesa si intende di economia

borsa1di Leonardo Salutati • Anche per Papa Francesco si registra quanto già accaduto per i suoi predecessori. Le reazioni alla sua esorta­zione apostolica Evangelii gaudium del Novembre 2013, sono state molto divergenti. Da un lato, in tutto il mondo, l’entusiasmo per la forza del messaggio di speranza e di giustizia sociale, per la sua critica alla moderna dittatura di una eco­nomia senza volto né anima (EG 55), dall’altro reazioni di «grande irritazione» con accuse al Papa di essere «Marxista», «confuso», insieme al tentativo di sminuire la portata del suo messaggio, sostenendo che in realtà di economia non ne capisce niente. Da un certo di punto di vista la cosa è persino ovvia, perché non si sa bene cosa sia la Dottrina sociale della Chiesa e non si è in condizione di cogliere la portata delle sue affermazioni.

La Dottrina sociale della Chiesa è prima di tutto la traduzione dell’annuncio cristiano in termini di comportamento e di scelte dei cristiani nel mondo, sia come singoli che come comunità ecclesiale, ed appartiene all’ambito della teologia morale. Non bisogna mai dimenticare questo orizzonte quando si esaminano le indicazioni politiche, economiche o sociali dei documenti del magistero sociale, perché quando lo si dimentica si finisce poi per emettere giudizi approssimativi e inappropriati.

La Dottrina sociale della Chiesa contiene anche concetti, elementi, dati, prodotti dalle scienze sociali che possono essere condivisi da tutti, anche dai non credenti. Ma ciò non significa che queste conoscenze non siano interpretate alla luce della fede cattolica. È su questo aspetto che sorgono i possibili equivoci da parte di chi prescinde da questo più ampio contesto, accostandosi alla Dottrina sociale della Chiesa come se non fosse “della Chiesa”.

Purtroppo gli equivoci sorgono spesso anche tra i fedeli cattolici, perché i testi del magistero sociale hanno bisogno di essere accompagnati da una paziente opera educativa, con un percorso coerente all’interno dei documenti del Magistero che non sempre è bagaglio del lettore.

La Dottrina sociale della Chiesa, infatti, ha per scopo l’evangelizzazione e non primariamente aspetti tecnici che riguardano la vita sociale, che sono conseguenza di questa primaria sollecitudine. Il suo ambito di riflessione è ben definito e non è riducibile ad alcun sistema di pensiero. Bisogna sempre ricordare che «non è una terza via» tra sistemi economici e di pensiero diversi ma «essa costituisce una categoria a sé» (SRS 41).

In realtà Papa Francesco dimostra di intendersi non poco di economia. Ne è un esempio la sua critica alla teoria della ricaduta favorevole, in dottrina nota come trickle down theory. In termini economici si parla di ricaduta favorevole, a favore dei percettori di redditi bassi, dei vantaggi fiscali accordati dallo Stato ai percettori di redditi alti. Più banalmente, tale teoria presuppone che un mercato dinamico e in crescita grazie allo sgravio fiscale, sia in grado di produrre effetti positivi per tutti, anche per coloro che non operano immediatamente sul mercato ma che, grazie alla dinamicità di quest’ultimo, potranno essere inclusi e partecipare a loro volta della crescita: una sorta di effetto traino.

La realtà, purtroppo, è diversa e Papa Francesco denuncia la falsità di questa tesi mai confermata dai fatti (EG 54), che favorisce un’economia dell’esclusione (EG 53) e sviluppa una globalizzazione dell’indifferenza (EG 54). Il Papa, inoltre, invita a chiedersi se, pur essendo vero che l’aumento di ricchezza globale avvantaggia anche i poveri, è moralmente accettabile quanto è accaduto nel corso dell’ultimo trentennio a chi si è trovato verso il fondo della scala sociale il quale, pur migliorando la propria posizione di benessere, ha visto aumentare la distanza che lo separava dal gruppo sociale di testa. La globalizzazione, infatti, ha certamente diminuito la povertà assoluta – quella di chi mette assieme meno di due dollari al giorno, in media – ma ha accresciuto in modo preoccupante il numero dei poveri relativi, ossia di chi ottiene meno della metà del reddito pro capite prevalente nella comunità di appartenenza.

I recenti dati statistici (gennaio 2015) di Oxfam International rivelano che nel 2014, l’1% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 48% della ricchezza globale. Il restante il 52% di ricchezza, posseduto dal 99% di individui sul pianeta, appartiene quasi totalmente al 20% più ricco; solo il 5,5% resta nella disponibilità dell’80% di popolazione mondiale. Inoltre, se la tendenza di crescita a favore dell’1% più ricco continuerà con l’andamento attuale, entro il 2016 l’1% più ricco possiederà una quota di ricchezza che supererà il 50%, con una enorme diseguaglianza sociale.

Il moderno sistema economico globale liberista è infatti capace di sospingere la crescita economica, ma non è altrettanto capace di gestirne le conseguenze negative, dovute all’elevata asimmetria temporale tra la distribuzione dei costi della crescita e quella dei benefici. I primi sono immediati e tendono a ricadere sui segmenti più deboli della popolazione; i secondi richiedono più tempo e vanno a beneficiare i soggetti relativamente più forti.

Di qui l’insistenza del Papa sul principio di fraternità (EG 71; 87) che deve trovare un posto adeguato dentro l’agire di mercato e non fuori, come vuole un certo capitalismo. Merita ricordare al riguardo che Evangelii gaudium, perfettamente nel solco della tradizione economica cristiana, non condanna la ricchezza come tale, né si dichiara a favore del pauperismo, come qualche commentatore frettoloso ha scritto , ma ripropone con forza il principio guida della destinazione universale dei beni (EG 181), della solidarietà e della priorità del lavoro sul profitto.

 




La concretezza del Corpo di Cristo

Udienza generale di Papa Francescodi Alessandro Clemenzia • Non dovrebbe più destare meraviglia il fatto che Papa Francesco riesca a offrire alcuni decisivi spunti ecclesiologici anche lì dove il contesto in cui risuonano le sue parole è apparentemente solo “pastorale”. È quanto avvenuto, per fare un esempio, nell’omelia della Messa del primo gennaio scorso, in occasione della solennità di Maria SS.ma Madre di Dio. Prendendo spunto dal Vangelo del giorno, il Papa ha presentato, nella semplicità che lo caratterizza, la forza e la portata teologica di una delle immagini più usate nella Tradizione: la maternità della Chiesa. Per argomentare quest’immagine, da sempre riconosciuta valida per esprimere la natura e la missione ecclesiali, Papa Francesco ha evidenziato lo strettissimo legame, anzi, l’“inseparabilità” tra Gesù e Maria, colei che è stata capace, egli spiega “di cogliere nel dono del Figlio l’avvento di quella «pienezza del tempo» (Gal 4,4) nella quale Dio, scegliendo l’umile via dell’esistenza umana, è entrato personalmente nel solco della storia della salvezza”. Tale intrinseco legame tra Maria e Cristo si è concretizzato in ogni momento della vita del Figlio, dall’incarnazione fino a tutto l’evento pasquale.

Solo dopo aver ribadito questa relazione, il Papa ne ha introdotta un’altra, quella tra Cristo e la Chiesa: “La Chiesa e Maria vanno sempre insieme […], e non si può capire la salvezza operata da Gesù senza considerare la maternità della Chiesa”. L’essere-madre, dunque, è il termine-chiave che lega, in riferimento a Cristo, entrambe le relazioni, tanto quella di Maria quanto quella della Chiesa, così da permettere di passare, con le dovute precauzioni teologiche (metodologiche e contenutistiche), da un riferimento mariologico ad uno prettamente ecclesiologo. Come non si può separare Gesù da Maria, così, scrive il Papa, “separare Gesù dalla Chiesa sarebbe voler introdurre una «dicotomia assurda»”. E qui il Papa ha fatto esplicitamente menzione dell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del beato Paolo VI, lì dove viene affermato il profondo legame tra Cristo e la Chiesa in riferimento all’evangelizzazione: “Durante questo tempo della Chiesa è lei che ha il mandato di evangelizzare. Questo mandato non si adempie senza di essa, né, e ancor meno, contro di essa. È bene accennare a un momento come questo, quando avviene di sentire, non senza dolore, persone, che […] desiderano amare il Cristo, ma non la Chiesa, ascoltare il Cristo, ma non la Chiesa, appartenere al Cristo, ma al di fuori della Chiesa” (n. 16).

L’affermazione di un tale intrinseco rapporto tra Cristo e la Chiesa, continua il Papa, non significa naturalmente identificare i due, ma, anzi, assegnare a ciascuno la propria specificità, dove l’identità della seconda si capisce soltanto in relazione al primo; l’Ecclesia, in altre parole, ha una valenza prettamente relativa: essa è se stessa soltanto nel suo rimandare e portare a Cristo. Tale orientamento cristologico include anche il discorso sulla peculiarità della natura della fede; essa, infatti – afferma il Papa – “non è una dottrina astratta o una filosofia, ma è la relazione vitale e piena con una persona: Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio fattosi uomo, morto e risorto per salvarci e vivo in mezzo a noi”.

La Chiesa, in tale orizzonte di comprensione, è il luogo in cui si può inverare l’incontro con Cristo: “Lo incontriamo nella Chiesa – afferma Papa Francesco – nella nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica”. Quest’ultima infatti è sia colei che annuncia Cristo, che lo indica all’umanità sull’esempio di Giovanni il Battista (“Ecco l’agnello di Dio”), sia colei all’interno della quale e grazie alla quale, riprendendo le parole del Papa, “Gesù continua a compiere i suoi gesti di grazia che sono i Sacramenti”.

La maternità è quell’immagine che, secondo Francesco, esprime al meglio l’azione e la missione della Chiesa: “Infatti essa è come una madre che custodisce Gesù con tenerezza e lo dona a tutti con gioia e generosità”. La Chiesa è se stessa, in definitiva, se è relazionata a Cristo: sia perché essa è essenzialmente determinata e caratterizzata dalla Sua viva presenza (natura della Chiesa), sia perché può donarLo a sua volta a chi è altro-da-sé (missione della Chiesa). E questa dinamica introduce, nella relazione tra Cristo e Chiesa, una fortissima immanenza reciproca, andando a conferire alla realtà ecclesiale un’insostituibile configurazione: essa è il luogo in cui Cristo si rende “concreto”, nell’oggi, all’umanità. Spiega il Papa: “Nessuna manifestazione di Cristo, neanche la più mistica, può mai essere staccata dalla carne e dal sangue della Chiesa, dalla concretezza storica del Corpo di Cristo. Senza la Chiesa, Gesù Cristo finisce per ridursi a un’idea, a una morale, a un sentimento. Senza la Chiesa, il nostro rapporto con Cristo sarebbe in balia della nostra immaginazione, delle nostre interpretazioni, dei nostri umori”.




La cucina del Risorto. Gesù cuoco per l’umanità affamata di Giovanni Cesare Pagazzi

Pagazzi G.C-300x300di Dario Chiapetti • Tutto ciò che è veramente umano trova nel mistero del Verbo incarnato lo spazio in cui poter essere e poter esprimersi. Non solo. Tutto ciò che è veramente umano trova nel mistero del Verbo incarnato lo spazio in cui poter trovare quella luce rivelatrice che lo svela a se stesso nella sua natura. Tutto ciò che è veramente umano deve essere perciò attentamente osservato, considerato e solo al mistero del Verbo incarnato occorre rivolgersi per captare quegli elementi di verità che lo illuminano.

Il testo del teologo lombardo Giovanni Cesare Pagazzi: La cucina del Risorto. Gesù cuoco per l’umanità affamata (Emi, 2014, Bologna) presenta in modo originale l’aspetto, forse non troppo considerato dalla cristologia, dell’abilità di Gesù ‘ai fornelli’, del suo cucinare, in ordine al suo essere Dio, e quindi del significato teo-antropologico che riveste il cucinare, soprattutto per gli altri.

Gesù si presenta – argomenta l’Autore – come una persona che ha e vive un rapporto con il cibo e la tavola: la convivialità è uno dei suo tratti peculiari; mangia, mostrando estrema solidarietà con l’uomo, sia la carne che il pesce (contrariamente al Battista); ringrazia per il dono del cibo; presenta il Paradiso stesso attraverso l’immagine della mensa; fino ad arrivare a rivelare che egli è Signore del pane, anzi fino a identificarsi col pane. L’attenzione del Signore per la fame e sete – secondo Pagazzi – ricorda agli uomini che sono esseri-dipendenti-da-altro (che ricevono prima di dare); che non sono gli unici ad essere al mondo (c’è anche il cibo); che la loro vita proviene da fuori-di-loro ed è diversa-da-loro (è pertanto qualcosa di trascendente); che c’è un gusto e una bontà che non si esaurisce in loro.

Questo significato antropologicamente positivo del cibo, fondato sulla positività della creazione (cf. Gen 1,31; Sap 1,14), si traduce in Gesù nell’assenza di tabù nei suoi confronti (caso unico nella storia delle religioni), in quanto mostra la familiarità, “la consustanzialità”, tra ‘corpo’ e ‘mondo’, concorre “alla purezza dell’uomo”. Secondo la teologia della creazione, Adamo e la terra costituiscono un binomio indissolubile, segno dell’amore, dell’opera e dell’alleanza di Dio, fino al punto che la carne viene completamente assunta dal Figlio per volere del Padre, per mezzo dello Spirito.

Con l’assunzione della carne da parte di Dio si assiste al rinvenimento di tale rapporto positivo tra Adamo e la terra, sul piano morale e soprattutto su quello ontologico. Gesù siede a tavola con commensali, nutre gli affamati e soprattutto si mostra “intenditore del processo di produzione e approvvigionamento delle materie prime degli alimenti” (cf. Mt 13,47-50; Lc 15,4-7); ciò presuppone l’umana capacità di ad-domesticare; il desiderio – riflette l’Autore – di rendere di ‘casa’ animali e piante: non è forse quest’unica casa per tutti il contenuto del disegno di Dio (cf. Sal 104; Mc 12,10-11)? Il gesto cristologico di cucinare dice ancora all’antropologia che tale ‘arte’ presuppone la presenza e la custodia di una memoria del passato (“a cucinare s’impara per imitazione e pratica […] chissà per quanti anni il Figlio di Dio avrà visto Maria con le ‘mani in pasta’”), di un’inventiva e di una creatività, attitudini che forse non mancavano al Creatore; che all’uomo non basta ‘alimentarsi’ (il cucinare e il mangiare rispondono all’esigenza di piacere e com-piacere), ma che è fatto per godere della carne e nella carne, la quale trova in ciò la sua massima dignità; che l’uomo è un essere che ‘si fida’ (degli ingredienti, di riuscire a soddisfare, etc.) e che è capace di ‘rispetto’ (di modalità di cottura, arnesi, etc.). La riflessione di Pagazzi si approfondisce tematicamente spostando l’attenzione sull’aspetto dei ‘rifiuti’: essi sono curiosamente presentati come ciò di cui l’uomo non può sbarazzarsi frettolosamente, pena la perdita di elementi teologicamente e antropologicamente rilevanti: essi hanno la funzione di mostrare il destino di ogni cosa, che la vita presenta per sua natura un aspetto di ‘sporcizia’ e, infine, che “c’è sempre qualcosa di sacrificale a garantire la mia vita e ciò non può esimermi dalla riconoscenza”.

Se “pastore” significa “colui che dà il pasto”, vescovi e preti – per Pagazzi – devono essere veri ‘cuochi’. A volte le pratiche cristiane non sembrano avere le attenzioni della cucina: occorre saper ‘rinunciare’ (non si può offrire sempre tutto a tutti); saper prestare attenzione alla graduale progressione (e regressione) della capacità digestiva; saper pensare pasti sia sostanziosi che sobri; non far mancare sapori noti e apprezzati ma neanche nuovi, educando il palato lentamente. Infine, per evitare pastoni in cui i sapori si perdono, occorre saper ‘decidere’ (cioè ‘separare’) e ‘amalgamare’ (‘tenere insieme’, ingredienti anche contrastanti).

“Pensiamo a come Gesù avrà cucinato il pesce pensando a Pietro e compagni”. Non sappiamo, certo li amava di un amore eterno.