di Leonardo Salutati • La multiculturalità e il pluralismo ideologico che caratterizza la società contemporanea hanno contribuito a incrementare i casi di rottura tra l’interesse tutelato dalla norma giuridica e il background culturale e religioso radicato all’interno del tessuto sociale, favorendo così il manifestarsi di quel fenomeno che è l’obiezione di coscienza. A questo proposito, la recente approvazione del Parlamento italiano della legge che istituisce le unioni civili anche tra le coppie dello stesso sesso, ha già aperto un dibattito sulla possibilità o meno di tale esercizio del Pubblico Ufficiale chiamato a registrarle.
È importante ricordare che il diritto all’obiezione di coscienza si inserisce nell’ambito più vasto del diritto di libertà religiosa, che è uno dei diritti dell’uomo riconosciuti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 purtroppo, oggi, non adeguatamente tutelato.
In questa luce non è esagerato affermare che la questione dell’obiezione di coscienza riguarda una frontiera cruciale della libertà, minacciata dalla dittatura del relativismo.
Nel caso Ladele anche la Corte Europea ha rivelato che la libertà religiosa non è meritevole di adeguata tutela, negando il diritto all’obiezione di coscienza a pubblici funzionari ed è paradossale che tutto ciò accada in Europa come negli Stati Uniti d’America (vedi il caso analogo di Kim Davis del 2015) che, tra l’altro, si staccarono dal Regno Unito proprio per difendere e promuovere la libertà di coscienza e di religione.
di Giovanni Campanella • Transizione ecologica – La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia è un saggio di economia raffinato, denso e complesso. E’stato scritto da un gesuita francese, Gaël Giraud, che è stato e continua ad essere un economista assai preparato, specializzato in economia matematica e docente di teoria dei giochi alla Sorbona. Fa anche parte del Laboratorio d’Eccellenza di Regolazione Finanziaria e della Scuola di Economia di Parigi. Il libro in questione è stato pubblicato nel 2012 in Francia. E’ stato poi pubblicato con alcuni aggiornamenti in Italia dalla EMI (per la collana “Cittadini sul pianeta” diretta da Francesco Gesualdi) nel mese di novembre 2015. Ha il pregio di descrivere con precisione e profondità cause ed evoluzione della grande crisi finanziaria del 2007-2008, partendo dal sogno americano della società di proprietari di case. A questo proposito, Giraud cita un discorso di George W. Bush del 2003: «Quella che vogliamo creare è una società di proprietari, dove sempre più gente possa aprire la porta di casa e invitarvi a entrare dicendo: “Benvenuto, questa è casa mia”» (Bush come citato a p. 41). Da questo sogno scaturì poi quel vortice di debiti, su cui molti specularono e continuarono ad accrescere, che poi crollò mietendo numerose vittime tra risparmiatori e banche stesse.
L’opera di Giraud è dunque encomiabile. Tuttavia, il titolo mi sembra fuorviante: solo il capitolo quarto, intitolato appunto “La transizione ecologica”, tratta concretamente di tale tema e consta di 17 pagine su 288 dell’intero libro. A mio avviso, il filo rosso che percorre tutto il saggio è la denuncia delle malefatte bancarie unita a proposte per cambiare il sistema attuale, scendendo anche in dettaglio sui meccanismi stessi di creazione monetaria.
Ciò che ha contribuito a dare enorme potere a piccoli gruppi economici è stata la crescente diffidenza nella politica e nelle sue regole, diffidenza comprensibilmente alimentata da ferite causate da feroci totalitarismi emersi nel ‘900 e da recenti comportamenti non proprio limpidi di certa classe politica. Così abbiamo lasciato che il piano politico fosse stato quasi in toto soppiantato dal piano economico. La dimensione del dialogo e del confronto è stata sostituita dalla dimensione dei soldi. Ma, nonostante i politici, la politica rimane essenziale, deve essere recuperata. Della sua importanza ci hanno parlato anche Aristotele e San Tommaso d’Aquino. Al riguardo, Giraud scrive:
In opposizione alla categoria di proprietà, Giraud suggerisce di valorizzare quella di uso, proposta da teologi e giuristi francescani a partire dal XIII secolo.
di Carlo Nardi • Nel ’500 il benemerito monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo non considerò le buone creanze in chiesa. Qualcuno poi ci pensò. Certo, le raccomandazioni andrebbero adattate non tanto secondo le relativamente nuove regole, ma piuttosto secondo il spirito della riforma liturgica: spirito che, a un occhio superficiale, parrebbe refrattario a regole. Eppure la riforma liturgica non è la privatizzazione selvaggia del culto pubblico.
Piuttosto, la liturgia libera da un io sempre ingombrante e un po’ ridicolo, anche quando si tratta di devozione. Anzi, più che mai quando i nostri modi ci sembrano quelli del Padreterno. Insomma, un po’ di galateo non disdice in chiesa. Sarebbe in sintonia con quanto suggerisce il Concilio: «i riti rifulgano per rilevante semplicità». Nulla di più lontano dalla pompa come dalla sciattezza. Al contrario un culto tutto essenzialità, armonia e linearità, per un primato del significativo sul decorativo, culto che ricorda l’ideale classico di «nobile semplicità e placida grandezza» (Winckelmann).
Anche al della Casa sarebbe andato a genio il proverbio toscano: i troppi amen guastan la messa. L’unica volta che rammenta la chiesa è in bocca a uno sguaiato zelante che crede di fomentare la fede altrui con l’offesa: «Non venisti meco alla chiesa. Bestia!» (Galateo, cap. 7): una correzione non proprio fraterna. Invece, per chi ambisce, fraternamente, a far gustare e vivere la liturgia, anche la mentalità del Galateo può calzare a puntino.
Galateo, buona creanza, consapevolezza: è tutto questione di rispetto, senza il quale non c’è adorazione.
Selfie. Dialogo con il teologo di tre papi.
Lumen Gentium 8b), possiede un’immagine e tende a dare immagine di sé. Ed essendo il selfie un fenomeno proprio dei social network, esso intende immortalare l’immagine e condividerla. È poi proprio del selfie il carattere di autoscatto, esattamente come quell’attività di autoriflessione della Chiesa, soprattutto dal Concilio in poi. Non solo la Chiesa ha voluto riflettere su sé ma ha voluto farlo a partire anche dalla relazione con l’altro, condividendo con questi il suo essere – per l’appunto di servizio – e così chiamarlo ad una più autentica relazione. Certo, nel selfie è il soggetto che sceglie cosa mostrare, quando e a chi, ci può essere poi autocompiacimento, compulsività, tendenza ad autovalutarsi e valutare gli “amici” in base ai “like” ricevuti e messi. Ma anche tutto ciò rivela chi siamo.
convocatio et congregatio in unum che riflette su se stessa a partire dalle istanze che la informano costantemente, il Vangelo e la realtà umana, si lascia interrogare da esse e cerca di rispondere ai loro bisogni. E ciò attraverso il dialogo. Nota è la profezia di Paolo VI in Ecclesiam Suam – documento che per Cottier rappresenta “l’espressione dell’essenza del concilio stesso” – al n. 67: “la Chiesa si fa dialogo”.
optional ma fa parte del movimento d’uscita della Chiesa per portare e sperimentare l’amore di Dio in Cristo Gesù, che la costituisce. Ciò è spiegato quando, ad esempio, a proposito della questione della desacralizzazione della figura del pontefice, nel discorso più ampio circa la nozione di Tradizione secondo il dettato conciliare “Ecclesia semper reformanda“, il porporato afferma che “una certa semplicità oggi parla meglio che l’eccessiva ricchezza dei paramenti […] Conta che il papa appaia come messaggero del Vangelo e non come un potente della storia”.
societas christiana. Afferma infatti Cottier: “anche i simboli, i valori che dipendono dal messaggio della fede perdono il vero senso se non c’è più la fede che li ha ispirati. Penso alla diatriba sul togliere o lasciare il crocifisso nelle scuole. La Chiesa l’ha difeso come simbolo culturale: aveva ragione, la croce è anche un simbolo, ma bisogna andare a fondo della questione”: a ben guardare, esso indica proprio impotenza, amore all’altro fino alla spoliazione di sé e in ciò il simbolo manifesta significato e credibilità. Nel recupero del significato teologico della “stoltezza” (cf 1Cor 1,21) dell’agire di Dio e nell’inserimento nella logica relazionale sottesa la Chiesa realizza quel cristianesimo conformato e conformante a Cristo. E tale processo può avvenire attraverso quella che papa Francesco chiama “conversione pastorale”, che – per riprendere le parole di Cottier in un’altra intervista, alla Civiltà Cattolica – è basata sull’assunto “la misericordia è dottrina” e connessa alla “morale della prudenza che applica in maniera esistenziale il giudizio retto al dinamismo affettivo che essa orienta”, tratteggiata da san Tommaso e alla base della prospettiva della recente esortazione di Francesco Amoris Laetitia. Tale conversione è l’atto teologico supremo che la Chiesa possa porre, manifestazione del suo volto di Chiesa-Concilio: la Chiesa che si raduna e si interroga, si accompagna, si fa accompagnare e accompagna.
Dobbiamo chiederci come si concretizza questo diritto della Chiesa ai beni temporali per il conseguimento dei propri fini. Sappiamo che la Chiesa Cattolica in quanto tale non ha intestati i beni. Ma la Chiesa Cattolica opera attraverso la Sede Apostolica mediante l’ufficio del primato del Romano Pontefice, istituito da Gesù Cristo stesso, attraverso le Chiese particolari e attraverso tutte le altre persone giuridiche pubbliche che, per la loro stessa costituzione, per definizione agiscono a nome della Chiesa per raggiungere fini ecclesiali con speciale mandato ricevuto in vista del bene comune.
I canoni successivi precisano nell’ordinamento canonico chi ha la capacità di acquistare (can. 1255) e di possedere i beni (can. 1256) per i fini della Chiesa e quali pertanto siano i beni ecclesiastici (can. 1257 §1). Se la capacità di acquistare è riconosciuta anche alle persone giuridiche private, tuttavia la nozione di bene ecclesiastico si realizza solo nei beni delle persone giuridiche pubbliche perché solo in queste e attraverso queste agisce la Chiesa come tale. Le persone giuridiche pubbliche hanno il diritto di acquistare e possedere beni in quanto la Chiesa, erigendole e abilitandole a operare a suo nome, agisce in esse e per esse concretizzando il suo diritto ai beni temporali per il perseguimento dei suoi fini. Si dicono beni ecclesiastici, cioè della Chiesa, perché in qualche modo, ma in un senso molto profondo e vero, sono beni della Chiesa. I fini hanno pertanto un’importanza fondamentale nella considerazione dei beni della Chiesa.
I beni ecclesiastici hanno, nei fini ecclesiali, una profonda unità al punto che da questa prospettiva si potrebbe parlare di un patrimonio unico dei beni ecclesiastici. Per tanti secoli i fini sono stati così importanti che non si è neppure posto il problema del soggetto di dominio dei beni ecclesiastici, in quanto tutto veniva determinato dai fini più che dal soggetto che li possedeva. La questione del soggetto di dominio si è posta soltanto più tardi e per motivi piuttosto contingenti, cioè per proteggere in modo più sicuro i beni ecclesiastici da eventuali usurpazioni.
I fini fondano il diritto ai beni e ne precisano anche i limiti. La Chiesa ha infatti il diritto ai beni e in quanto tale ha “fini propri da conseguire” (can. 1254 §1). Ma i fini ecclesiali sono soprannaturali e vanno perseguiti secondo la natura e la missione della Chiesa. Ora, la missione della Chiesa non è di ordine politico, economico o sociale, perché il suo fine è religioso (GS 42). Anche se ha bisogno di beni, essa non ripone la sua speranza nei mezzi di questo mondo (GS 76) e si serve soltanto di quei mezzi che rispondono alle esigenze del vangelo e al bene di tutti secondo le circostanze di tempo e la varietà delle condizioni umane (GS 76). In particolare, ci ammonisce ancora la Gaudium et spes, “Gli Apostoli e i loro successori come pure i loro cooperatori, quando sono inviati per annunziare agli uomini il Cristo Salvatore, nell’esercizio del loro ministero si fondano sulla potenza di Dio, il quale molte volte manifesta nella debolezza dei testimoni la potenza del vangelo. Chiunque, pertanto, si dedica al servizio della Parola di Dio, deve percorrere le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono per di più dai mezzi della città terrena” (GS 76).
In questo contesto possiamo comprendere le parole di Paolo VI: “La necessità dei mezzi economici e materiali, con le conseguenze che essa comporta di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei fini a cui essi devono servire e di cui deve sentire il freno del limite, la generosità dell’impiego, la spiritualità del significato”.
Va aggiunto che i fini della Chiesa, essendo spirituali, partecipano tale spiritualità anche ai beni ecclesiastici, benché in sé materiali e temporali. I beni della Chiesa, provenendo poi tante volte dalla volontà dei fedeli che vogliono in tal modo esprimere il loro rapporto con Dio, esprimono anche un fine religioso, conferendo un valore sacrale alla loro volontà che deve essere rispettata da chi li accetta. Così i cann. 1267 §3, 1300, 1284 §2 n. 3, ribadiscono il principio di rispettare la volontà dei fedeli destinando i beni agli scopi per i quali essi li hanno dati. E’ importante sapere chi è il soggetto di dominio dei beni (subiectum inhaesionis), ma non meno importante è sapere a chi tali beni sono destinati (subiectum utilitatis).
I beni ecclesiastici, proprio perché sono beni della Chiesa e al servizio dei suoi fini, sono sotto il suo governo e retti dalle sue leggi. Il can. 1254 §1 ricorda che il diritto ai beni come pure alla loro amministrazione non deriva alla Chiesa dal potere civile, ma dallo stesso Fondatore. Perciò il dominio e l’amministrazione di essi sono regolati dal diritto canonico (cann. 1255-1256), sotto la suprema autorità del Romano Pontefice (can. 1256). Il punto di riferimento per l’amministrazione dei beni è il diritto della Chiesa, sia quello universale del Libro V del Codice, sia quello proprio (cann. 687, 635 §2).
La Chiesa vive nel tempo e ha continue relazioni con le società politiche, tra esse c’è un’osmosi continua. Le società civili possono offrire molto alla Chiesa, specialmente dal punto di vista tecnico e culturale, come anche ricevere molto presentando loro il messaggio evangelico e i valori che esso comprende. Tale osmosi è stata particolarmente forte nel campo del diritto. La Chiesa si è sviluppata in una cultura dove vigeva e imperava il diritto romano. Tale diritto, se offrì validi supporti all’organizzazione e strutturazione della Chiesa, subì anche grandi influssi benefici da parte del messaggio evangelico. Questo influsso è stato particolarmente accentuato nel campo del diritto patrimoniale. L’affermazione “Ecclesia vivit iure romano” ha trovato una speciale applicazione nel campo del diritto privato patrimoniale. Il principio era recepito anche nel Codice del 1917. Ma nello stesso Codex 1917, particolarmente al can. 1529, trovavamo il principio del rinvio al diritto civile delle nazioni. Le ragioni sono molteplici, ma è sufficiente dire che la maggioranza degli stati moderni non riconosce il diritto canonico come fonte autonoma del diritto. Se la Chiesa lo volesse urgere a ogni costo, sarebbero frequenti le liti. Si sa poi che il diritto è molto diversificato secondo le diverse nazioni. Se la Chiesa pretendesse di regolare con un proprio ordinamento universale tutto il settore dei beni temporali, sarebbe difficile, se non impossibile, un minimo di uniformità. Infine, la regolamentazione completa dei beni temporali esigerebbe una mole tale di leggi che appesantirebbero enormemente la vita ecclesiale fino a renderla quasi impossibile. La Chiesa, pertanto, nella sua prudenza ha scelto una strada sapiente e, in linea del resto con la tradizione, ha emanato una normativa molto limitata che tocca i principi e le questioni essenziali sui beni ecclesiastici.
Il Libro V è il più breve del Codice. Per il resto ha canonizzato la legislazione civile. Mediante l’istituto della canonizzazione la Chiesa da una parte salva il principio della sua competenza esclusiva per ciò che riguarda la propria vita, e dall’altra si adatta alle situazioni locali. Le leggi recepite formalmente sono leggi ecclesiastiche, così che le leggi civili obbligano i credenti all’interno della Chiesa per disposizione della stessa autorità ecclesiastica. Si tratta di vere e proprie leggi ecclesiastiche. Materialmente, invece, cioè in quanto al contenuto, sono leggi delle nazioni nelle quali la Chiesa vive. Il can. 22 ci dà il principio generale sulla canonizzazione delle leggi civili: “Le leggi civili alle quali il diritto della Chiesa rimanda, vengono osservate nel diritto canonico con i medesimi effetti, in quanto non siano contrarie al diritto divino e se il diritto canonico non dispone altrimenti”.
Il principio generale trova ulteriori specificazioni in tutto il codice. In particolare ricordiamo il can. 197 a proposito della prescrizione: “la prescrizione, come modo di acquisire o di perdere un diritto soggettivo e anche di liberarsi da obblighi, è recepita nella Chiesa quale si trova nella legislazione civile della rispettiva nazione, salve le eccezioni stabilite nei canoni di questo codice”. Per la materia che ci interessa dobbiamo infine fare menzione soprattutto del can. 1290, per l’ampiezza delle applicazioni che esso comporta: “Le norme di diritto civile vigente nel territorio sui contratti sia in genere che in specie, e sui pagamenti, siano osservate per il diritto canonico in materia soggetta alla potestà di governo della Chiesa e con gli stessi effetti, a meno che non siano contrarie al diritto divino, oppure che non sia disposto diversamente dal diritto canonico, ferma restando la prescrizione del can. 1547”. Con tale canone gran parte della legislazione civile in campo patrimoniale entra nel diritto canonico.
In questa prospettiva i beni ecclesiastici, proprio perché devono servire ai fini della Chiesa, conservano una destinazione che deve essere sempre ecclesiale. Da questo punto di vista i beni ecclesiastici hanno sempre un carattere comunionale ed entro certi limiti, a norma del diritto, devono essere anche comunicati, in ordini all’urgenza e alla priorità dei fini.
di Gianni Cioli • Nella Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina del 1967 Paolo VI offre una definizione di “indulgenza”, del tutto in linea con la tradizione, che forse è opportuno considerare per ricordare uno degli aspetti imprescindibili, anche se meno facili da comprendere, del Giubileo: «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi» (Norme n. 1).
Tenendo presente il documento del Papa e volendo andare all’essenziale, per cercare di capire come si possa proporre in maniera plausibile, oggi, la pratica delle indulgenze, potremmo dire che sono due i presupposti chiave da tenere presenti.
C’è una frase attribuita a s. Ignazio di Loyola che mette bene in evidenza la dimensione paradossale dell’esistenza cristiana: «Impegnati in tanto come se tutto dipendesse da Dio, ma abbi fiducia in Dio come se tutto dipendesse da te». Tale affermazione, che si riferisce alla venuta del Regno di Dio, può forse adattarsi bene anche per caratterizzare il cammino penitenziale del cristiano e della Chiesa e per illuminare il paradosso delle indulgenze all’interno di tale cammino (L’affermazione è riportata da C. Huber [Prefazione, in R. Ottone, Il tragico come domanda. Una chiave di volta della cultura occidentale, Milano 1998] e sembra essere più originale e più paradossale rispetto all’altra generalmente riferita ad Ignazio: «Impegnati come se tutto dipendesse da te, ma abbi fiducia in Dio come se tutto dipendesse da Lui»).