Presentazione degli articoli del mese di luglio 2016

320px-Moretto,_Madonna_del_Carmelo,_accademia (1)Andrea Drigani ricordando l’allocuzione di San Giovanni Paolo II al Monte Sinai, riflette sul Decalogo come norma morale suprema della fedeltà a Dio e all’uomo. Giovanni Campanella dal libretto dell’economista portoghese João Cèsar das Neves, evince alcune considerazioni sul rapporto, che potrebbe apparire paradossale, tra scienza economica e fede cristiana. Francesco Romano presenta la Lettera «Iuvenescit Ecclesia» che fornisce alcune indicazioni, anche con l’aiuto del diritto canonico, per non sprecare i doni carismatici e riuscire a riconoscerli nella loro autenticità. Leonardo Salutati dall’Enciclica «Laudato si’» rileva che i beni comuni globali, quali l’atmosfera e il clima, necessitano di un’adeguata ed effettiva regolamentazione internazionale. Mario Alexis Portella osserva che il relativismo presente nella cultura occidentale che rifiuta la legge naturale, provocando, tra l’altro, il dissolvimento del matrimonio e della famiglia, rischia di favorire l’islamizzazione dei diritti umani. Dario Chiapetti da un recente studio storico e sistematico sul laicato del teologo Peter Neuner, fa emergere la proposta di passare dalla nozione di «laico» a quella di «popolo di Dio». Carlo Nardi commenta l’episodio dell’eunuco, ministro della Regina d’Etiopia, riportato dagli Atti degli Apostoli (8,26-40); un personaggio «grande» e «piccolo», che dalla lettura del profeta Isaia e con coll’aiuto di Filippo entra nel Popolo di Dio. Francesco Vita recensisce un libro di Maria Tatsos che racconta di un genocidio poco conosciuto, sempre ad opera dei «Giovani Turchi», quello dei greci dell’Anatolia. Gianni Cioli nell’ambito del Giubileo della Misericordia, che ha inteso valorizzare il Sacramento della Penitenza, annota sul diritto del fedele in ordine alla scelta del confessore che preferisce e che lo mette a proprio agio. Alessandro Clemenzia richiama le recenti origini storiche e teologiche della Lettera «Iuvenescit Ecclesia», che partono dall’ecclesiologia del Vaticano II, dal magistero di San Giovanni Paolo II e dagli studi di Joseph Ratzinger. Giovanni Pallanti svolge alcune considerazioni sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europa, auspicando una rifondazione dell’unità politica dei 27 Stati anche con nuove regole costituzionali. Francesco Vermigli dinanzi al pericolo, vero o presunto, che la teologia ignori i problemi della gente che spera e che crede, rammenta che per la tradizione ecclesiale il compito della teologia è quello di parlare di Dio che si rivela per la salvezza dell’uomo. Stefano Liccioli introduce alla Lettera pastorale del cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, che non è incentrata su un progetto pastorale, ma va alla radice del rapporto con Gesù, senza il quale ogni piano pastorale non avrebbe significato. Antonio Lovascio sul fenomeno denominato impropriamente «femminicidio» propone un’opera di sensibilizzazione per cambiare mentalità e cultura, che veda coinvolta pure la comunità cristiana. Basilio Petrà riferisce sui lavori del Sinodo Ortodosso di Creta, che hanno evidenziato, tra l’altro, la questione dell’autocefalia delle Chiese, che dovrà armonizzarsi con la concezione universale e sinodale della Chiesa.




“Incontrare Gesù”. La lettera pastorale del Cardinal Giuseppe Betori

 

Mons-Giuseppe-Betoridi Stefano Liccioli • S’intitola “Incontrare Gesù” l’ultima lettera pastorale scritta dall’Arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori. E’ interessante osservare che la lettera non è incentrata su qualche tema o progetto pastorale specifico, ma va alle radici dell’esperienza di fede, a quel rapporto con Cristo senza il quale ogni progetto pastorale rischia di perdere di significato perché «è solo nel confronto con Lui – precisa il Cardinal Betori nella premessa – che possiamo scoprire la verità su noi stessi. E di questa verità abbiamo estremo bisogno, per uscire dalle finzioni con cui ci nascondiamo a noi stessi e agli altri, come pure per sfuggire ai modelli che altri ci vorrebbero imporre».

Il prelato indica anche la strada d’accesso a Gesù: la testimonianza che ce ne dà la Chiesa, quella testimonianza che ha al suo centro il Vangelo e i vangeli. Si tratta di una testimonianza che non è meno credibile perchè avvolta dalla fede in Cristo, «proprio perché chi ci parla di lui ne è innamorato, possiamo fidarci», osserva Betori.

Il riferimento costante e puntuale ai Vangeli ed in generale al Nuovo Testamento si potrebbe dire che è uno degli aspetti che rende questa lettera pastorale quasi una catechesi biblica. Con stile agile, l’Arcivescovo conduce il lettore tra gli uomini e le donne che, avendo incontrato Gesù, hanno preso a camminare dietro a Lui. Per conoscere Gesù, scrive, «c’è bisogno di qualcuno che ce lo indichi, che lo annunci, e poi c’è bisogno di un cuore libero e coraggioso per non lasciare che egli passi e ci trovi impreparati. C’è bisogno di lasciarci compromettere con lui, perché non basta raccogliere notizie su chi egli sia: occorre entrare in un’esperienza viva con lui, in una comunione di vita, una condivisione della sua esistenza che trasformi da estranei in testimoni». La sequela di Gesù, d’altra parte, è qualcosa di radicale e totalizzante: egli chiede, per essere suo discepoli, di affidarsi in tutto a Lui. Questa radicalità così come gli interrogativi che la predicazione di Cristo suscitano sono tra i motivi che hanno reso (e rendono) non facile, allora come oggi, accogliere Gesù ed il suo insegnamento. Domanda Betori:«Che Messia può essere mai un uomo che non trionfa, che si presenta con i caratteri della debolezza, che finisce i suoi giorni sulla croce come un qualsiasi malfattore? Perché questo è l’aspetto più sconcertante del mistero di Gesù: la sua umiliazione». Ma è proprio nella partecipazione alla Sua umiltà e povertà che si pone al centro della vita della comunità il principio della carità, una carità che ha i caratteri precisati da Paolo nell’inno della lettera indirizzata ai cristiani di Corinto. D’altronde l’annuncio di Cristo è chiaro:«Dio ci ama, e ama tutti, prima di tutto i più poveri e i più fragili, coloro che senza questo amore sarebbero nulla». Egli rivela il vero volto del Signore, Padre Misericordioso, ma manifesta anche la sua identità: Gesù è il Figlio stesso di Dio, che si è rivelato nella debolezza, nell’umiliazione, fino alla morte ed alla morte di croce. La lettera si conclude parlando della Resurrezione e della testimonianza di Gesù Risorto che gli apostoli cominciarono a diffondere nel mondo, sotto la guida e l’impulso dello Spirito Santo.

Termino riportando quello che l’Arcivescovo precisa essere lo scopo di questa suo documento:«Questa lettera avrà raggiunto il suo scopo, se sarà presto messa da parte dopo aver suscitato in chi la leggerà il desiderio di aprire le pagine dei vangeli e di confrontarsi lì, senza più intermediari, con il volto di Gesù».




“Iuvenescit Ecclesia”: alcuni spunti teologici

 

santuffizio-300x215di Alessandro Clemenzia • Iuvenescit Ecclesia, la Chiesa ringiovanisce: questo è il titolo dell’ultima Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici nella vita ecclesiale. Non si tratta di un’esortazione moraleggiante, che invita la Chiesa a ringiovanire rispetto ad una situazione di sterilità contemporanea, ma è un indicativo presente che, proprio in quanto tale, è indice di un dinamismo reale e quotidiano che sta avvenendo nel momento stesso in cui se ne parla. E questo apre ad un’altra considerazione: il punto di partenza del discorso, infatti, non è propriamente teoretico, ma è legato all’esperienza della Chiesa, da cui si muovono le odierne riflessioni: «Grazie alla stessa vita della Chiesa, ai numerosi interventi del Magistero e alla ricerca teologica, è felicemente cresciuta la consapevolezza della multiforme azione dello Spirito Santo nella Chiesa».

Questa citazione è decisiva, non soltanto perché indirizza l’attenzione da un piano meramente concettuale e speculativo ad uno meramente esistenziale, ma anche in quanto spiega teologicamente come si possa passare da una riflessione che scaturisce da uno sguardo sulla realtà ad un discorso che riguarda l’azione dello Spirito di Dio nella storia attraverso i Suoi doni. Lo Spirito Santo, infatti, al contrario delle altre due Persone della Trinità, è una presenza che l’uomo può cogliere anche attraverso l’uso dei sensi, ma a partire dagli effetti che Essa produce. Dalla Scrittura emerge come ci siano stati dei testimoni che hanno fatto diretta esperienza di Cristo, tanto da annunciare ciò che si è udito, veduto, contemplato e toccato con le proprie mani (cf. 1Gv 1,1): attività che manifestano la concretezza dell’incarnazione del Verbo divino. Anche per lo Spirito Santo può valere un discorso analogo: «Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano» (At 2,2). La discesa del Pneuma viene descritta da Luca come un avvenimento percepibile attraverso l’uso dei sensi, e la visibilità dello Spirito appare soprattutto là dove si intravedono i suoi diversi effetti (in quelli che Paolo, in Gal 5,22-26, menziona come il «frutto dello Spirito»).

A partire, dunque, dal fiorire e dal ringiovanire della Chiesa, sulla scia di quanto afferma la Lumen Gentium a proposito della distinzione e unità fra doni gerarchici e doni carismatici, la Lettera Iuvenescit Ecclesia illustra chiaramente come entrambi i doni trovino la loro condizione di possibilità e la spiegazione del loro reciproco rapporto all’interno di quella mutua relazione tra il Verbo incarnato e lo Spirito Santo.

Dopo un’attenta spiegazione teologica, la conclusione a cui si arriva è di straordinaria importanza: «La relazione tra i doni carismatici e la struttura sacramentale ecclesiale conferma la co-essenzialità tra i doni gerarchici – di per sé stabili, permanenti ed irrevocabili – e i doni carismatici. Benché questi ultimi nelle loro forme storiche non siano mai garantiti per sempre, la dimensione carismatica non può mai mancare alla vita ed alla missione della Chiesa».

Il termine “co-essenzialità” è stato ripreso da un celebre messaggio di Giovanni Paolo II inviato ai partecipanti al Congresso mondiale dei Movimenti ecclesiali (1998), e vuole esprimere sia il valore della dimensione istituzionale e di quella carismatica, sia l’articolazione del rapporto fra loro. Anche se non viene menzionata questa parola-chiave, un altro discorso magistrale, che a mio avviso fa da sfondo logico all’intera Lettera Iuvenescit Ecclesia e funge da bussola della sua argomentazione teologica, è quello del Cardinale Ratzinger in occasione del già citato incontro mondiale dei Movimenti ecclesiali nel 1998: in modo teologicamente raffinato l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha legato le diverse aggregazioni ecclesiali e movimenti, espressioni dei doni carismatici, alla dimensione apostolica della Chiesa, e dunque a una delle sue quattro note essenziali, insieme all’essere una, santa e cattolica. Una caratteristica fondamentale che Ratzinger attribuisce all’apostolicità è la sua tensione all’universalità della Chiesa: «Gli apostoli erano non vescovi di determinate chiese locali, bensì, appunto, “apostoli” e, in quanto tali, destinati al mondo intero e all’intera Chiesa da costruirvi. […] Quello apostolico è un ministero universale, rivolto all’umanità intera, e pertanto all’intera unica Chiesa. Dall’attività missionaria degli apostoli nascono le chiese locali, le quali hanno bisogno di responsabili che le guidino».

Anche se la Lettera Iuvenescit Ecclesia non fa esplicito riferimento a questo discorso di Ratzinger, si può affermare che probabilmente è proprio all’interno di questo “impianto” apostolico che i doni carismatici possono recuperare, da un lato, la loro essenzialità nella Chiesa (e da qui si può parlare di co-essenzialità in relazione ai doni gerarchici), dall’altro, quella tensione universale e spinta missionaria che innervano e caratterizzano quelle realtà ecclesiali, frutto di quello Spirito che costantemente ringiovanisce la Sua Chiesa.




Confessione e scelta del confessore. Annotazioni intorno a un aspetto non marginale del Giubileo

 

confessionale_470x305di Gianni Cioli Il Giubileo della misericordia ci offre l’opportunità di riflettere sul sacramento della penitenza per riconoscervi la via di un sincero cammino di conversione.

Alcune considerazioni utili alla riflessione posso essere essere suggerite da una domanda postami recentemente circa i criteri da seguire nella scelta del confessore: “E’ meglio confessarsi sempre dallo stesso sacerdote, che così ti conosce e può consigliarti, oppure si può andare liberamente in luoghi tipo un santuario dove il sacerdote non ti conosce ma ha esperienza di confessione e sa come aiutarti a riconoscere gli errori e a cambiare vita?”.

La risposta è semplice: una cosa non esclude l’altra. Confessarsi abitualmente dallo stesso prete non esclude la possibilità di scegliere occasionalmente un altro confessore. Il criterio che dovrebbe sempre guidarci nella scelta è semplicemente quello di cerca l’aiuto migliore per un autentico e sincero cammino di conversione.

E’ bene comunque chiarire che la Chiesa lascia ai fedeli la massima libertà su dove andare a confessarsi e su quale prete scegliere ogni volta che vogliono accostarsi al sacramento della penitenza. Questo proprio per favorire il più possibile il penitente nella confessione completa e sincera dei peccati gravi, anche di quelli più imbarazzanti, evitandogli qualsiasi situazione di disagio che potrebbe verificarsi nel caso che il prete lo conosca.

Ma, come si profilava nella domanda, possono esserci anche altre ragioni, non legate assolutamente all’imbarazzo, per cui un cristiano può decidere di confessarsi da un prete che non lo conosce, come ad esempio l’opportunità di accostarsi al sacramento della penitenza in un santuario, durante un pellegrinaggio, o di approfittare di una celebrazione penitenziale con la presenza di vari confessori, nei tempi forti o durante una missione. Non si può escludere che qualcuno senta magari il bisogno di rivolgersi occasionalmente per la confessione, in un momento particolarmente delicato della sua vita, ad una giuda spirituale notoriamente esperta per essere aiutato nel suo percorso di conversione.

Questo ovviamente non toglie che normalmente sia una cosa molto opportuna confessarsi con regolarità dal medesimo prete proprio per essere aiutati al meglio, da chi ci conosce e ci capisce, nel cammino spirituale della vita cristiana. Sebbene non si debba necessariamente identificare confessore e guida spirituale a volte può essere comodo trovarli riuniti nella stessa persona.

Naturalmente ognuno può scegliere il confessore abituale che preferisce e che lo mette di più a proprio agio, tenendo conto delle concrete possibilità nell’ambito di un determinato territorio.

Come si è detto, non vi è dunque contraddizione fra la decisione di confessarsi normalmente dal medesimo prete, scelto come guida spirituale, e la libertà di cambiare occasionalmente confessore in circostanze particolari e favorevoli ad una esperienza di misericordia più forte, come nel caso di un pellegrinaggio, di una missione o, come proprio nel momento presente, di un Giubileo.




L’eunuco (Atti degli Apostoli 8,26-40)

 

filippo-e-leunucodi Carlo Nardi • Par di vederlo, sballottato su un carro alla volta del mare, grassoccio e sudato. Dal Libro del profeta Isaia leggeva Isaia il quarto canto del misterioso Servo di Dio (52,13-53,12), quel brano che apre la liturgia del venerdì santo.

Era il ministro delle finanze della regina di Etiopia. Ritornava da Gerusalemme, dal tempio, dove si era recato per devozione (At 8,26-40). Chissà. Era andato in pellegrinaggio perché aveva sentito parlare dell’antenata della sua sovrana, la favolosa regina di Saba, che c’era stata ai tempi del costruttore del tempio, il saggio re Salomone, ed era tornata con tanta sapienza e, si diceva, con il figlio di ambedue, Menelik. Aveva scoperto a Gerusalemme che dopo la Legge, i cosiddetti libri di Mosè, c’erano anche i testi dei profeti, scritti dopo Salomone, non ancor noti nella lontana Etiopia? Se n’era procurata una copia? Di fatto, per vincere la noia e i disagi del viaggio eccolo leggere a voce alta le vicende del Servo condannato, tolto di mezzo senza sue resistenze, il tutto per noi, per i nostri peccati, fino a una luce finale dopo il suo tormento e la morte (Is 52,13-53,12). Il gran ciambellano ci capiva poco, stropicciandosi i tre peli che aveva sulla bazza.

E doveva comunque consolarsi con la lettura, anche perché a Gerusalemme, dal solenne culto del popolo di Dio era rimasto piuttosto al di fuori. Perché il pover’uomo proprio uomo, tutto uomo non era o, meglio, non era ritenuto che fosse. Era un eunuco, e li “capponi” come lui non potevano far parte appieno della comunità santa ai sensi e per gli effetti della Legge di Mosé (Lv 21,20. cfr. 16-23).

Nel lento procedere della diligenza, qualcuno l’aveva sentito leggere con la sua vocina stridula e fessa. Era Filippo, che da poco gli apostoli avevano incaricato della distribuzione alle vedove bisognose in una specie di Caritas o di San Vincenzo. Istituito anche con l’imposizione delle mani. Era un diacono? (At 6,1-7) Di fatto, come gli aveva suggerito lo Spirito Santo ricevuto in gran copia, d’un balzo Filippo è sul carro e può rispondere alla domanda del curioso lettore: il Servo di cui parla Isaia è Gesù, il maestro di Nazareth, di cui ancora si parlottava in Gerusalemme; anzi è Gesù nella sua pasqua di morte e risurrezione, e nella sua vita in noi, come ha ben capito l’eunuco il quale la vita di Gesù risorto ora la chiede per sé. Difatti vuole il battesimo.

C’è un fiume, e il battesimo è a sua disposizione per lui che è così com’è. Ora è a pienissimo titolo nel nuovo popolo di Dio. E con lui, tutto pace e gioia nel gaudio della grazia di Dio, la Chiesa entra in Etiopia. Così entra in Africa, a meno che i Libici, già presenti alla prima pentecoste cristiana, non abbiano già raccontato. Filippo ha deciso di procedere al battesimo. Ha fatto quel che doveva fare, senza telefonate cautelative al Sant’Uffizio, che tra l’altro non c’era, senza nemmeno dover fare anticamera. Meno male per la Chiesa di sempre, fatta per tutti i figli d’Eva che sono così come sono. E meno male per noi che siamo, in un modo o in un altro, così come siamo.




“Iuvenescit Ecclesia”: doni gerarchici e doni carismatici per una Chiesa sempre giovane

0009357_letter-iuvenescit-ecclesia-the-church-rejuvenates_400di Francesco Romano • La lettera “Iuvenescit Ecclesia” (IE) della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicata il 15 maggio 2016 con l’approvazione di Papa Francesco, con il suo incipit che ben ne indica l’intento, presenta i diversi doni gerarchici e carismatici con cui la Chiesa ringiovanisce in forza del Vangelo e si rinnova per l’azione dello Spirito.

Il Popolo di Dio per svolgere la sua missione è arricchito da particolari doni carismatici dovuti alla multiforme azione dello Spirito Santo suscitando numerose aggregazioni ecclesiali che sono presentate come una risorsa per il rinnovamento della Chiesa.

Oltre alle realtà associative tradizionali, quali gli istituti di vita consacrata (cann. 573-730) e le società di vita apostolica (cann. 731-747), questo documento guarda anche a realtà più recenti che si presentano come aggregazioni di fedeli, movimenti ecclesiali e nuove comunità che assumono specifiche configurazioni giuridiche sotto la forma di associazioni di fedeli pubbliche (cann. 312-320) e private (cann. 321-326); associazioni di fedeli clericali (can. 302); prelature personali (cann. 294-297). Di particolare rilievo, sotto l’aspetto dell’incessante fioritura dei carismi nella Chiesa, sono le cosi dette “nuove forme di vita consacrata” previste dal can. 605 che, tuttavia, ancora non trovano una specifica forma giuridica. Infatti, sempre il can. 605 proietta questo nascente e variegato mondo carismatico nel de iure condendo, sottolineando che l’approvazione di una nuova forma di vita consacrata spetta unicamente alla Sede Apostolica. Inoltre, “spetta alla competente autorità della Chiesa interpretare i consigli evangelici, regolarne la prassi con leggi, costituirne forme stabili di vita con l’approvazione canonica” (can. 576). Accade, infatti, che in questa fioritura di carismi le nuove aggregazioni non esprimano niente di nuovo nella sostanza che si possa tradurre giuridicamente come una novità rispetto alle forme di vita consacrata già esistenti e per questo l’unico modo di consociarsi per loro molto spesso trova spazio nella forma giuridica delle associazioni di fedeli.

Le numerose realtà aggregative corrispondono alla diversità di carismi offerti ai fedeli di diversi stati di vita e manifestano la pluriforme ricchezza della comunione ecclesiale.

Lo scopo del documento, alla luce della relazione tra doni gerarchici e carismatici, è di offrire la comprensione degli elementi teologici ed ecclesiologici per favorire una feconda e ordinata partecipazione alla comunione e alla missione della Chiesa.

La varietà dei carismi è per il “bene comune” (IE, n. 5) della Chiesa e ha un’utilità costante per la vita della comunità cristiana, oltre a un’utilità personale per coloro che ne sono portatori e li mettono al servizio del bene comune. “Aver ricevuto questi carismi, anche i più semplici, sorge per ogni credente il diritto e il dovere di esercitarli per il bene degli uomini e l’edificazione della Chiesa” (IE, n. 10). Questo enunciato, in particolare “il diritto di essere avvertiti dai Pastori sulla autenticità dei carismi e sulla affidabilità di coloro che si presentano come loro portatori” (IE, n. 17), fa eco allo spirito del Codice di Diritto Canonico quando ci presenta i diritti e i doveri fondamentali di tutti i fedeli (cann. 208-223).

Nei testi scritturistici non si dà mai una contrapposizione tra carismi, ma una armonica connessione e complementarietà tanto da dover escludere una contrapposizione tra Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale. La Costituzione dogmatica Lumen gentium al n. 4 presenta il binomio fatto di “doni gerarchici e carismatici” uniti dalla stessa origine e dallo stesso scopo e ne sottolinea la loro differenza nell’unità per contribuire in diversi modi all’edificazione della Chiesa. Il conferimento dei doni gerarchici è connesso con il sacramento dell’Ordine nella sua pienezza, ricevuto con la consacrazione episcopale, ma anche con i suoi diversi gradi per partecipazione e assistenza, “affinché nella Chiesa come comunione non manchino mai a ogni fedele l’offerta obiettiva della grazia nei Sacramenti, l’annuncio normativo della Parola di Dio e la cura pastorale” (IE, n. 14).

Ogni dono elargito alla Chiesa implica le due missioni divine rappresentate dalla Chiesa dello Spirito e dalla Chiesa gerarchica-istituzionale come la missione di Gesù implica al suo interno l’azione dello Spirito Santo. I carismi “devono istituzionalizzarsi per avere coerenza e continuità” (IE, n. 10). I due aspetti sono coessenziali perché concorrono insieme a rendere presente il mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo.

Il documento “Iuvenescit Ecclesia” sottolinea anche “l’orizzonte trinitario e cristologico dei doni divini che illumina la relazione tra doni gerarchici e carismatici” (IE, n. 12). Nei doni gerarchici legati al sacramento dell’Ordine appare la relazione con l’agire salvifico di Cristo e la presenza dell’azione dello Spirito Santo. Anche nell’elargizione dei doni carismatici vi è l’azione dello Spirito Santo in quanto sono in rapporto con la vita nuova in Cristo. Affermava Giovanni Paolo II che “i veri carismi non possono che tendere all’incontro con Cristo nei sacramenti” e la giusta comprensione si ha solo in riferimento alla presenza di Cristo e al suo servizio perché i carismi “sono obiettivamente in rapporto alla vita nuova in Cristo” (IE, n. 12).

Un carisma originario o fondazionale deve articolarsi nella comunione ecclesiale e inserirsi nelle Chiese particolari. Per questo le realtà carismatiche devono riconoscere l’autorità dei Pastori e da essi ricevere il riconoscimento specifico di autenticità in forza del loro carisma gerarchico. I doni carismatici si realizzano al servizio di una diocesi concreta. I doni gerarchici, propri del successore di Pietro, garantiscono e favoriscono l’immanenza della Chiesa universale nella Chiesa particolare. Allo stesso modo l’ufficio apostolico dei singoli Vescovi delle Chiese particolari “rifluisce” nella Chiesa universale attraverso la collegialità e la comunione con il Romano Pontefice (IE, n. 21).

Un’applicazione pratica della relazione tra doni gerarchici e doni carismatici è presentata nel sopra citato can. 605 in cui si afferma che solo la Sede Apostolica approva nuove forme di vita consacrata con il discernimento dei carismi. Allo stesso tempo si dà rilevanza al ruolo dei Vescovi diocesani con il loro carisma gerarchico perché si adoprino nel “discernere i nuovi doni di vita consacrata che lo spirito Santo affida alla Chiesa e aiutino coloro che li promuovono, perché ne esprimano le finalità nel modo migliore e le tutelino con statuti adatti” (can. 605).

La relazione tra doni gerarchici e carismatici è finalizzata alla partecipazione dei fedeli alla comunione e alla missione della Chiesa disponendoli a rispondere meglio al dono della salvezza affinché la grazia sacramentale porti frutto nella vita cristiana. I carismi, anche se donati ai singoli, sono destinati alla vita ecclesiale, possono essere condivisi e perpetuati nel tempo dando vita a famiglie spirituali e ad aggregazioni ecclesiali. Un carisma originario può aggregare fedeli e aiutarli a vivere pienamente la propria vocazione cristiana (cf. IE, n. 16).

I doni carismatici che danno identità alle aggregazioni ecclesiali consentono, rispetto ai diversi stati di vita del cristiano, di portare frutto nei compiti che scaturiscono dai sacramenti ricevuti, in modo specifico il Matrimonio, permettendo di vivere nel quotidiano il sacerdozio comune dei fedeli. Gli stessi chierici nella partecipazione a una realtà carismatica possono rinverdire il richiamo al proprio battesimo e alla loro specifica missione e vocazione. La vita consacrata attraverso la professione dei consigli evangelici è il dono carismatico più emblematico che si colloca nella stessa dimensione carismatica della Chiesa a sostegno del dono carismatico del sacerdozio battesimale di quei laici che si consacrano e del sacerdozio ministeriale di quei presbiteri che abbracciano la vita consacrata (cf. IE, n. 22).

La Lettera “Iuvenescit Ecclesia” vuole sottolineare che i doni carismatici non sono uno strumento per recuperare la giovinezza di una Chiesa invecchiata, bensì, che i doni elargiti dallo Spirito Santo sono una realtà permanente che la rendono stabilmente giovane, senza discontinuità, per la vita e la missione della Chiesa e per il bene del mondo. Occorre avere questa consapevolezza per non incorrere nel rischio di sprecare questi doni, ma anche di non riuscire a riconoscere la loro autenticità. E’ per questo che “Iuvenescit Ecclesia” vuole riproporre ai fedeli la riflessione sul binomio “doni gerarchici e doni carismatici”.




I “beni comuni” (commons) e la sfida climatica

 

GERMANY - FILES/THYSSES STEEL FACTORYdi Leonardo Salutati Nella Laudato si’, in relazione agli oceani, al clima e all’atmosfera, il Papa introduce il concetto di beni comuni (cf. LS 23 e 174), diverso da quelli ben conosciuti di beni privati rivali ed esclusivi – e di beni pubblici non rivali e non esclusivi (un bene viene detto rivale quando il suo consumo da parte di un soggetto riduce le possibilità di consumo da parte di altri, ed è esclusivo se è possibile escludere dal suo utilizzo coloro che non hanno pagato per averlo o per accedervi). Infatti si conoscono fin dall’antichità anche i beni comuni (commons): non rivali ed esclusivi (es. autostrade, spettacoli e produzioni artistiche) oppure rivali, non esclusivi (es. zone di pesca, pascoli).

I mercati, di solito, si occupano solo di beni privati, gli Stati solo di beni pubblici, ma oggi è necessario ed urgente costruire e attivare in un sistema di regole condivise in grado di governare almeno alcuni beni comuni. Un bene comune infatti non può essere semplicemente considerato “naturale” e lasciato a se stesso, perché senza regole e controlli collettivi finirà per diventare privato. Affinché un processo di attivazione di regole riguardanti i beni comuni possa effettivamente realizzarsi, è necessario prevedere l’osservanza di alcuni principi. Primo fra tutti la reciprocità per evitare sia il pericolo di accaparramenti che la passività di utenti poco coinvolti, ma anche per favorire un efficacia economica maggiore rispetto a quella garantita dalla logica della ricerca dell’interesse egoistico dei singoli (come è stato dimostrato dai più recenti modelli della teoria dei giochi). Il secondo principio chiave è quello della sussidiarietà che prevede, ove possibile, la delega delle decisioni dai livelli superiori a quelli più vicini ai cittadini. Quest’ultimo principio, che ha le proprie radici nel pensiero sociale cristiano già a partire da San Tommaso d’Aquino, è stato riproposto in ambito economico dalla Elinor Ostrom (premio Nobel dell’economia nel 2009 grazie al suo contributo alla “governance delle risorse collettive”), perché svolge un ruolo decisivo nella preservazione dei beni comuni.

Prendersi cura dei beni comuni significherebbe, da parte di tutti, cittadini e responsabili delle istituzioni, prendere atto di quello che abbiamo ricevuto in dono (comune viene da: cum munus). In particolare alle istituzioni sono richieste politiche capaci di interporsi tra la proprietà privata e il collettivismo, per riscoprire la categoria dell’uso (diversa da quella diproprietà), ben presente al pensiero sociale cristiano. San Tommaso parlava delle due facoltà che ha l’uomo sui beni esterni: quella di procurarli e amministrarli e quella di usarli, in modo però non esclusivo e sempre coltivando la disponibilità a partecipare largamente nelle altrui necessità (cf. Sth II/II q. 66) e la Scuola francescana insegnava che non è la proprietà degli alimenti e dei vestiti a conservare la natura, ma l’uso; pertanto è possibile sempre e dovunque rinunciare alla proprietà, ma all’uso mai e in nessun luogo (Ugo Di Digne).

L’invito di Papa Francesco nella Laudato si’ a riconoscere lo status di beni comuni globali all’atmosfera e al clima non è banale, perché tale riconoscimento potrebbe anche avere conseguenze legali a livello internazionale. Nel caso, ad esempio, che il clima e l’atmosfera fossero minacciati, ne deriverebbe l’obbligo di tutela. Alcune Parti alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP) sembrano aver temuto proprio questo se nel V Rapporto di Valutazione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) del 2014, si sono rifiutate di riconoscere il cambiamento climatico come problema riferito a un “bene comune”. In una nota a pie’ di pagina ci si preoccupa di ricordare che attribuire il concetto di “bene comune” alla questione del clima non ha alcuna implicazione per un accordo mondiale o per stabilire criteri di ripartizione internazionale degli oneri per la tutela del clima.

Tuttavia di fronte agli epocali problemi ambientali di oggi, non è più sufficiente una morale dell’onestà individuale, ma è urgente riscoprire la dimensione collettiva dell’esigenza etica; non è sufficiente rispettare le regole del gioco ma dobbiamo imparare a riscriverle quando sono palesemente ingiuste (Gael Giraud). L’impellente compito delle autorità oggi è quindi di avviare, attraverso meccanismi di concertazione e di negoziazione, quei programmi di governance ecologica che permetteranno alla comunità internazionale di affrontare adeguatamente la complessa sfida del clima lanciata in modo irrevocabile, che ormai interpella tutti con urgenza.




Oltre il laicato. La riflessione di P. Neuner

Neunerdi Dario Chiapetti Il dettato di Evangelii gaudium, «Tutto il popolo di Dio annuncia il Vangelo» (n. 111), e la sua conseguenza, l’urgenza di mettersi «in ascolto del popolo» (n. 154s.), suggerisce come una teologia del popolo di Dio, presentata a partire dal Concilio Vaticano II (cf. Lumen gentium II) apra orizzonti di comprensione circa l’identità della Chiesa e dei suoi membri. Ciò è ancora più necessario se si considerano i mutamenti socio-culturali e le problematiche nelle prassi ecclesiali ad essi connesse, soprattutto per quanto concerne le figure e le rispettive competenze dei chierici e dei laici.

Peter Neuner in Per una teologia del popolo di Dio (Queriniana, 2016, 246 pp.) appronta uno studio storico e sistematico proprio sulla suddetta questione.

L’Autore ricorda che il termine laós «tutte le volte in cui nel Nuovo Testamento viene usato in modo teologicamente significativo […] indica i credenti e i battezzati», lo stesso vale per klerôs (cf. 1Pt 5,3); laikós – che nel greco extra-biblico «si riferisce alla moltitudine della popolazione in contrapposizione ai governanti» – viene opportunamente evitato. In età patristica si fa sempre più largo la distinzione tra chierici e non-chierici anche se le due figure stanno tra loro in profonda unità se si pensa, ad esempio, che il vescovo è eletto dal popolo locale. In età medioevale il chierico, designando il vir spiritualis che regge e insegna, si distingue ancor più dal laico, il vir saecularis, subditus, illitteratus. Lutero critica la profonda separazione delle due classi richiamando la dignità della vocazione battesimale che fonda il sacerdozio universale; Trento risponde affermando il carattere indelebile che imprime l’ordinazione e «che eleva – afferma Neuner – il sacerdote al di sopra del laico. Lo introduce nella gerarchia, fondata per istituzione divina». Con l’Illuminismo “laico” designava l'”anti-ecclesiale”, con Pio XI colui che, come ebbe a dire in riferimento all’Azione Cattolica, “partecipa all’apostolato della gerarchia”.

Col Vaticano II la Chiesa è presentata, sia come mysterion e communio sanctorum, ritrovando la preminenza dell’aspetto teologico su quello istituzionale, sia come popolo di Dio, recuperando l’imprescindibile dimensione biblica. Dei laici si dice che sono, sì, i fedeli non-chierici ma anche che mediante i sacramenti e l’azione dello Spirito Santo, sono resi partecipi del triplice ufficio di Cristo; il loro apostolato non richiede perciò – afferma Neuner«nessun conferimento di poteri da parte del clero», sono chiamati a collaborare con la gerarchia (cf. LG 33) e hanno il dovere di far conoscere il loro parere sui temi ecclesiali (cf. LG 37), godono della stessa dignità dei chierici che scaturisce dal battesimo ma hanno come ambito specifico di apostolato il secolo (cf. LG 31). Per Apostolicam Actuositatem essi sono «veri apostoli» (n. 6) «deputati dal Signore stesso all’apostolato» (n. 3); per Sacrosanctum Concilium essi sono soggetti della celebrazione liturgica; per Gaudium et Spes devono assolvere al compito di trattare le realtà terrene, le quali godono di «autonomia» e «hanno leggi e valori propri» (n. 37), e di acquisire una vera perizia in esse (cf. n. 43) anche in un certo pluralismo nei giudizi di coscienza (cf. n. 43).

Il post-concilio riaffermò il dettato conciliare ma sottolineando la distinzione tra le due figure, anche a seguito di esperimenti pastorali di integrazione dei laici non perfettamente riusciti.

Dopo aver presentato le letture della figura del laico approntate da Congar, Rahner, Schillebeeckx, Balthasar, ecc., Neuner arriva al cuore della sua riflessione. Egli concentra la sua attenzione sulla difficoltà di dedurre una definizione univoca di laico. “Non-chierico” non dice alcuna specificità, inoltre, come affermò Ratzinger, è il chierico a doversi definire in relazione al laico, non viceversa. “Colui che è nel secolo” è prospettiva limitata: il dettato di LG 31 sopra richiamato nella prospettiva di Neuner, di Kaiser ed altri vuole essere non «una definizione teologica ma una descrizione tipologica». Infine, il teologo tedesco cerca di mostrare come neanche dalla prospettiva che si concentra sulla differenziazione «essenzialmente e non solo di grado» (LG 10) tra sacerdozio comune e ministeriale, dalla dottrina dell’agire in Persona Christi del chierico e dall’analisi dei differenti modi di partecipazione ai tre uffici se ne possa dedurre una definizione di laico.

Occorre per l’Autore passare dall’uso della nozione di laico a quella di popolo di Dio, soggetto del sensus fidelium (cf. LG 12), in cui sono compresi anche coloro che svolgono particolari uffici. Ciò apre per Neuner alle considerazioni che Ratzinger faceva sul «modello classico di una “democrazia” ecclesiale» come Cipriano sosteneva: nihil sine episcopo, sine consilio vestro, sine consensu plebis.

E ciò nel senso che gregge e pastore vivono una certa communicatio idiomatum: «Che bello, Santo Padre – sono le parole di un parroco che Francesco ha voluto leggere durante il recente giubileo dei sacerdoti -, quando […] se per caso il pastore esce dal sentiero e si smarrisce, loro lo afferrano e lo tengono per mano».




La teologia e i suoi rischi

 

2016-06-28_163223di Francesco Vermigli • In un film di una decina d’anni fa, il protagonista – nei tratti pareva il Nazareno – è un giovane professore dell’Università di Bologna che abbandona l’insegnamento, con un gesto carico di significato: la crocifissione di cento vecchi libri della biblioteca. Fugge dalla città e la sua fuga è un ritorno alla simbiosi con la natura e alle piccole cose e alle persone semplici; ogni tanto la vita ordinaria vissuta lungo il grande fiume si infarcisce, però, di piccole arringhe – dal tono profetico e, in verità, spesso un po’ pedante – del tipo: “Dio non parla con i libri. I libri servono qualsiasi padrone e qualsiasi dio” (Centochiodi, 2007).

Ne fosse o meno cosciente il regista (Ermanno Olmi), queste parole ben rappresentano, ci pare, il modo con cui la società di oggi spesso si atteggia nei confronti della teologia. È un’accusa che si può ascoltare in ogni dove: quel che conta è l’esperienza della fede, il vissuto delle persone che pregano e vivono la fede; la teologia è una perdita di tempo, la teologia ha un che di superbo; la teologia – dicono alcuni – se si intende bene, è inutile. Figli della cultura del fare e del pragmatismo – inteso come atteggiamento della vita, non tanto come nobile variante filosofica – gli uomini del nostro tempo in buona sostanza non colgono quale sia la ragione dell’esistenza di una disciplina, che nientemeno pretenda discutere di Dio.

A ben vedere, tali accuse individuano un pericolo reale in cui può incorrere la teologia, un rischio non piccolo che sempre s’accovaccia sornione alla porta della ricerca: il pericolo dell’astrattezza, il pericolo di una teologia che voli al di sopra dei problemi della gente che spera e che crede, il rischio della torre d’avorio; il rischio dei “bizantinismi” (ma la teologia bizantina fu davvero così “bizantinistica”?), quei sofismi, cioè, che affaticano la mente e raffreddano il cuore. Eppure, dietro queste dichiarazioni fatte in maniera più o meno esplicita si nasconde un pericolo che si direbbe inverso: quello della mondanizzazione della stessa teologia. Dietro quell’idea – secondo la quale o una disciplina, un pensiero serve a qualcosa di concreto o non serve per nulla – si nasconde la tendenza a piegare il discorso su Dio ai bisogni transitori del mondo. Anzi – per riprendere una frase che si fa risalire a Napoleone – la teologia nella vita della Chiesa assomiglia spesso all’intendenza, che “dopo seguirà”: cioè prima si fa qualcosa, poi – se la teologia vuole, ma in fondo non interessa un granché – essa giustificherà la cosa. Eppure, è lo stesso significato della parola che chiede che non si cada in un tale tranello: se è discorso su Dio, la teologia non potrà farsi discorso come tutti gli altri, cioè non si potrà considerare legittimata ad esistere solo in tanto in quanto funzionale nell’immediato.

Come si esce da questa impasse? Come ci si muove tra il pericolo dell’astrattezza e quello della mondanizzazione della teologia? È noto che nella tradizione greca v’è abitualmente la distinzione tra quella che si chiama “teologia prima” e quella che si dice “teologia seconda”: se la categoria di “teologia seconda” si può considerare l’elaborazione teologica per come la intendiamo noi, l’altra teologia – quella, cioè, che rivendica un primato assiologico – è nell’ottica orientale la cosa più inutile che ci sia per una mentalità mondana, cioè la liturgia. Sulla “santa inutilità” del rito hanno ancora molto da insegnarci le pagine di Guardini sulla “liturgia come gioco”, ad indicare il carattere debordante della liturgia rispetto alla sola finalità pratica.

Forse una risposta alla domanda sul destino della teologia la troviamo nelle parole di saluto che papa Francesco ha rivolto a Benedetto XVI pochi giorni fa, in occasione del sessantacinquesimo anniversario dell’ordinazione presbiterale di Ratzinger. Trattando dei momenti più significativi della vita del suo predecessore, ha sottolineato l’impegno nell’insegnamento teologico, in ragione del fatto che per Ratzinger la teologia è stata “ricerca dell’amato”; la quale definizione appare ben lontana dalle aride astrattezze, in cui viene accusato di cadere il discorso su Dio. Nella sezione dei suoi Esercizi spirituali dedicata alla contemplatio ad amorem Ignazio di Loyola antepone ad ogni altra osservazione quella secondo la quale «l’amore si deve porre più nei fatti che nelle parole» (EESS 230). Se la teologia custodisce quest’idea grande di se stessa, che cioè essa non è altro che la ricerca continua di Dio – quaerere Deum, per usare un’altra immagine cara a Ratzinger – terrà assieme il pensiero e la prassi.

Nella tradizione della Chiesa tutto ciò, a ben vedere, è stato sempre custodito. Ogni definizione e ogni autentica riflessione teologica sono sempre partite dall’idea che quello che viene definito o quello su cui si discute è sempre pensato in vista di un obiettivo; si direbbe che serve sempre a qualcosa: in modo particolare, dogma e teologia servono a parlare del Dio che si mostra per la salvezza dell’uomo. Così facendo, allora, l’autentica teologia si è posta e continuerà sempre a porsi al servizio della soteriologia.




Vent’anni di leggi, ma la strage di donne continua

 

25-nov-2014di Antonio Lovascio • Lo chiamano “femminicidio”. Questa brutta parola (proprio non mi piace: come se il ‘genere’ venisse prima dell’essere, una donna, persona) è purtroppo diventata frequente nel nostro lessico , nei telegiornali, sulla stampa. Dove si discute più dei numeri (impressionanti!), anziché trovare soluzioni per prevenire la violenza cieca che spinge tanti uomini a compiere delitti efferati e vili. Le statistiche registrano in Italia un fenomeno ormai costante: undici omicidi al mese, così si arriva alla soglia delle 140 vittime all’anno. L’aspetto più sconvolgente ? Che sia il marito o il convivente, il padre dei figli, il fidanzato quello che può arrivare a uccidere. E non in un raptus, come leggiamo spesso, ma il più delle volte al culmine di una serie di minacce, gelosie ossessive, maltrattamenti o botte fino a quel momento tollerati. Subiti in silenzio spesso per amore: perché quella donna ama ancora quell’uomo, perché spera che le cose migliorino, perché non vuole dividersi, o per il bene delle creature più piccole, che pure stanno a guardare. Al passo della denuncia molte arrivano solo dopo anni, per paura che la scelta renda più aggressivo il partner.

Purtroppo è una tragedia che non risparmia nessun Continente. Per questo non dobbiamo stancarci di ricordarla e combatterla, cominciando a contrastare l’idea che si tratti di una questione da risolvere dentro le mura di casa. Negli Stati Uniti ha fatto e fa tuttora più morti che i soldati caduti in Iraq, Afghanistan, Medioriente. Nell’Unione Europea non c’è nessun Paese che possa considerarsi esente : l’Agenzia europea per i diritti fondamentali, nella più completa indagine finora realizzata, ha reso noto che il 33% delle intervistate sopra i 15 anni ha subito violenza fisica e/o sessuale. Una su tre. Un dato sconvolgente, perché tradotto in cifre assolute riguarderebbe 62 milioni di donne europee. E stiamo parlando delle zone più civili della Terra.

Non basta quindi celebrare il 25 novembre la Giornata internazionale voluta nel Duemila dall’Onu. I “drappi rossi” esposti ai balconi come simboli di sdegno sono encomiabili, ma a questo punto servono solo fatti concreti. Le leggi ci sono , ma manca tutto il resto: niente fondi, centri costretti a chiudere, piano antiviolenza mai decollato, vittime senza tutela e un esercito crescente di bambini o giovani che si ritrovano improvvisamente orfani: sono almeno 1600 in Italia i figli di questo “olocausto familiare” (censiti da un coraggioso progetto europeo) che vorrebbero veder riconosciuti i loro diritti.

E’ altrettanto indispensabile un cambiamento di cultura e mentalità, di presa di coscienza specie da parte degli uomini. E quest’opera di ri-educazione deve partire dalla famiglia, dalle aule scolastiche e degli atenei. Dovrebbero essere finalmente pronte e scattare da settembre le “ Linee guida” del Ministero dell’Istruzione per prevenire la violenza di genere e tutte le discriminazioni: sono state elaborate in base a quanto previsto dal comma 16 della Legge 107/2015 di riforma “La Buona Scuola”. Ovvio: ci vorranno anni per vederne gli effetti. Ma intanto la nuova emergenza del “femminile” potrebbe essere attenuata dall’ampliamento reale degli spazi di presenza e di partecipazione attiva delle donne nelle diverse espressioni della vita culturale, sociale e politica.

Anche nella Chiesa – come ha spiegato domenica 19 giugno su “Il Sole-24 Ore” l’arcivescovo monsignor Bruno Forte, segretario speciale dell’ultimo Sinodo- si è ormai fatta strada una rinnovata coscienza del femminile. Sta alimentando varie forme di “teologia dell’integralità” umana. Partendo da Giovanni XXIII, passando per Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI fino a Papa Francesco, il Magistero ha evidenziato la reciprocità uomo- donna come condizione dell’armonico sviluppo della persona. Si è denunciato ogni atteggiamento che releghi il gentil sesso in un ruolo regressivo e mortificante. C’è stata la riscoperta di Maria, la madre di Gesù, come “tutt’altro che passivamente remissiva o di una religiosità alienante”. In questa luce, è emersa la storia spesso oscurata del protagonismo femminile all’interno della comunità cristiana. Si è delineato in tutta la sua rilevanza il ruolo esercitato, tanto a livello di vita consacrata quanto nelle più diverse espressioni della vita familiare e sociale.

In un prossimo futuro questa “coscienza rinnovata” dovrebbe tradursi in un maggior coinvolgimento nelle responsabilità e nelle decisioni della Chiesa. Per questo Bergoglio ha aperto all’idea di creare una commissione di studio, convinto che “il pensiero della donna è importante, più della sua funzione” perché “pensa in un altro modo di noi uomini”: quindi “non si può prendere una decisione buona e giusta senza sentirla”. Ora, lo ha detto ai giornalisti nel viaggio di ritorno dall’Armenia, il Papa aspetta che si rifaccia il dicastero dei laici per continuare questa riflessione, ma intanto ribadisce:”La Chiesa è donna. Non è una donna zitella, è una donna sposata con il figlio di Dio”.

La via è dischiusa ( come giustamente hanno commentato affrontando il tema delle diaconie padre Antonio Sciortino su “Famiglia Cristiana” e Stefania Falasca su “Avvenire”) e lascia intuire ulteriori progressi che potranno essere rilevanti per tutti. Non solo per la comunità cristiana, che proprio in questo campo potrebbe avere un ruolo di promozione e di stimolo all’intera società. La Chiesa corre avanti nel segno dei tempi: può quindi dare il suo contributo educativo anche per fermare lo spargimento di sangue femminile ed arginare una deriva di malvagità.




Il sinodo panortodosso si è concluso. Verso il futuro

 

creta__fotor_1816720di Basilio Petrà La domenica 26 giugno si è chiuso con una solenne celebrazione liturgica il Santo e Grande Sinodo della Chiesa Ortodossa.

L’assemblea sinodale ha lavorato intensamente nei giorni tra il 20 e il 25 giugno, pervenendo a votare unitariamente i sei documenti presentati al Sinodo e sottoposti a varie modifiche e aggiunte. Ha anche approvato e sottoscritto un Messaggio del Santo e Grande Sinodo della Chiesa Ortodossa a tutto il popolo ortodosso e a tutti gli uomini di buona volontà e una più ampia Enciclica del Santo e Grande Sinodo della Chiesa Ortodossa (Creta 2016).

Delle 14 Chiese autocefale attese alla fine solo 10 sono state presenti. Dall’inizio di giugno, giorno dopo giorno, hanno dichiarato la loro indisponibilità ad essere presenti il patriarcato di Antiochia, il patriarcato di Georgia, il patriarcato di Bulgaria ed infine il patriarcato russo. Seppure variamente coniugati, i motivi dell’assenza –fossero essi anche in parte politici e giurisdizionali- ruotavano intorno all’idea che su alcuni documenti presentati non c’era il consenso unanime di tutte le Chiese e che dunque era opportuno rinviare il Sinodo e affrontare previamente tali divergenze.

La proposta di rinvio non è stata recepita dal patriarca ecumenico Bartolomeo II, che facendosi forte del fatto che tutti i sei documenti presentati erano stati sottoscritti da tutte le Chiese (con l’eccezione del documento sul matrimonio, non firmato dalla Georgia) ha ritenuto non opportuno cambiare il programma previsto. Ha solo rinnovato agli assenti l’invito a partecipare.

Ovviamente sarà il futuro a dire il reale significato storico di questo evento, che ha visto l’impegno di molti e ha consentito all’Ortodossia la possibilità di affrontare alcuni suoi problemi interni e di esprimersi unitariamente su molte sfide contemporanee.

Si possono tuttavia dire alcune cose fin da ora.

La prima è che l’aver condotto a termine l’impresa del Sinodo costituirà per il patriarca Bartolomeo II un titolo imperituro di onore. Anche se la partecipazione panortodossa è mancata, esso rimane tuttavia un Sinodo convocato come panortodosso da tutte le Chiese (gennaio 2016) e le sue conclusioni si rivolgono come sinodali a tutta l’Ortodossia. Certo, hanno qualche ragione i serbi allorché invitano a considerare questo momento come prima fase del Sinodo panortodosso, ma in fondo tra le due posizioni non c’è contraddizione dal momento che nell’Ortodossia il carattere panortodosso dei sinodi si mostra più nel processo di ricezione che nel processo di convocazione.

La seconda cosa che si può dire è che alcuni nodi dei rapporti interortodossi sembrano aver trovato una via di soluzione nella redazione finale dei sei documenti. Così, l’accettazione per economia dei matrimoni misti (tra cristiani) sembra ormai chiara, anche se si rinvia ogni decisione ai sinodi delle chiese autocefale. Inoltre, la disciplina del digiuno è pienamente riaffermata, anche se si offre ampio spazio alla sua gestione economica secondo le culture e le persone. Si stabiliscono procedure e regole, senza eccessiva rigidità, per la richiesta e il riconoscimento di autonomia da parte della Chiesa autocefala o Chiesa madre nei confronti delle regioni che ritengano di averne titolo; nel caso di controversie tra due chiese autocefale riguardo all’autonomia di alcune regioni si indica il ricorso alla mediazione del patriarca ecumenico per una soluzione di essa. Nel corso delle discussioni sull’autonomia, il patriarca Bartolomeo ha tenuto a precisare che non si porrà mai un problema di autonomia per le eparchie greche delle Nuove Terre (nel Nord della Grecia), diradando i timori che erano stati sollevati da alcuni gerarchi greci. Una qualche soluzione ha trovato anche la questione del corretto modo di riferirsi alle comunità cristiane non ortodosse, una questione assai discussa e sorgente di divisione tra i vescovi. Alla fine, al n.6 del Documento dedicato ai rapporti con il resto del mondo cristiano si è scritto:” in accordo con la natura ontologica della Chiesa la sua unità non può essere mai turbata. Nonostante questo, la Chiesa Ortodossa accetta il nome storico delle altre Chiese e Confessioni cristiane non ortodosse (in greco: eterodosse) che non sono in comunione con lei”. Molta attenzione è stata dedicata alle questioni giurisdizionali della Diaspora ortodossa; si sono enumerate le regioni della Diaspora; si è ribadita l’utilità delle assemblee episcopali regionali dei vescovi legati alle chiese autocefale, riaffermando le regole già praticate per la presidenza di tali assemblee e votando 13 articoli sulla loro struttura e sul loro funzionamento.

La terza cosa che si può dire è che questo Sinodo non ha toccato la questione più rilevante pur presentando nel Messaggio al popolo ortodosso,1 una proposta che non può essere realizzata senza toccarla. Mi riferisco alla questione dell’autocefalia e la proposta è la seguente: “Durante le deliberazioni del Santo e Grande Sinodo l’importanza delle Sinassi dei Primati che hanno avuto luogo è stata sottolineata ed è stata fatta la proposta che il Santo e Grande Sinodo diventi un’istituzione regolare da convocare ogni sette o dieci anni”.

In ambienti russi è stata avanzata subito l’obiezione che una tale convocazione regolare diminuirebbe il senso e l’autorità della struttura ecclesiale basata sull’autocefalia.

Probabilmente l’obiezione è eccessiva. Tuttavia c’è sotto un problema reale. Il Sinodo di fatto è stato realizzato da rappresentanti delle chiese autocefale: i primati e un numero prefissato di vescovi (24). La stragrande maggioranza dei vescovi ortodossi non è stata presente né ha avuto modo di pronunciarsi sui documenti. Il Sinodo ha tuttavia preso decisioni pastorali e canoniche che riguardano tutte le chiese autocefale (tutti i vescovi di esse) e ne regolamentano alcuni aspetti. Se una Chiesa autocefala che pure abbia votato al Sinodo nella realtà non recepisce le decisioni sinodali o le recepisce in parte, chi prevale ? O se solo una parte della Chiesa autocefala le recepisce, che accade ? E, come è accaduto in questo Sinodo, se alcune Chiese non hanno nemmeno votato i documenti nella loro forma finale, a cosa mai possono essere tenute ?

La questione teologica dell’autocefalia dunque accompagna inevitabilmente l’eventuale ruolo crescente del Sinodo panortodosso.

Ma c’è di più, l’autocefalia è anche la questione che sta dietro alle assenze delle quattro chiese surricordate: nessuna di esse è disposta a metterla a repentaglio, anche perché autocefalia e nazionalismo vanno di concerto. In moltissimi casi, chiesa nazionale e chiesa autocefale coincidono. Si ricordi poi che patriarcati storici come Costantinopoli, Alessandria e Gerusalemme sono considerati da gran parte degli ortodossi semplicemente greci.

Venendo a concludere brevemente queste poche e iniziali note, si può dunque dire senza alcun dubbio che il Sinodo è stato un momento importante e prezioso per l’Ortodossia. Certamente apre un cammino nuovo.

Tuttavia, il suo stesso svolgersi ha messo ancora più chiaramente in luce che esso non potrà portare pieno frutto se l’Ortodossia non elaborerà un’adeguata teologia dell’autocefalia, capace di armonizzarsi anche proceduralmente con la comprensione cattolica e pienamente sinodale della Chiesa.




Una Brexit annunciata e un’Europa da ricostruire

parlamento_strasburgodi Giovanni Pallanti • Quando Cameron promise il referendum sulla permanenza in Europa del Regno Unito accese la miccia di una bomba che, contro ogni previsione razionale, è scoppiata davvero.
I sondaggi dicevano che avrebbe vinto il Si all’Europa. Invece hanno vinto coloro che volevano un Regno Unito indipendente e lontano dall’Europa con il 52% per il divorzio dal Vecchio Continente.
Quali sono le cause di questo voto contro l’Europa?
C’è chi dice la nostalgia dell’impero Britannico quando Londra comandava su mezzo mondo.
Un’Europa continentale a guida tedesca evidentemente per  l’anima profonda degli inglesi era contro la storia: nelle due guerre mondiali dell’900 gli inglesi hanno battuto due volte i tedeschi. E questa non è una piccola cosa facilmente  dimenticabile.
Poi la questione degli immigrati. I flussi migratori provenienti dal Medio Oriente e dai paesi del Centro Europa facenti parte della U.E. hanno rappresentanto anche negli anni scorsi una grande preoccupazione sociale ed economica soprattutto tra i ceti operai e popolari della vecchia Inghilterra.
Molti paesi europei, soprattutto del Nord, hanno opposto una strenua resistenza alla distribuzione dei migranti sui loro territori. Anche questa è stata una incentivazione a far crescere il numero dei consensi degli inglesi all’uscita del Regno Unito dalla Comunità Europea.
Questa scelta, comunque, sommuove gli equilbri geo politici. La Scozia vorrebbe uscire dal Regno Unito per rimanere in Europa.
Chi pensa che lo status quo possa rivelarsi un progressivo disfacimento dell’idea dell’Europa come nacque nella testa e nel cuore di Adenauer, De Gasperi e Schumann (e di Altiero Spinelli, firmatario del Manifesto di Ventotene, con Ernesto Rossi per un’unità politica dell’Europa) non sbaglia di  molto.
Potrebbe esserci un effetto domino soprattutto determinato dalle scelte dei paesi nord europei come la Danimarca  e l’Olanda.
Rimane una sola soluzione possibile quella di rafforzare l’unità politica tra i 27 stati membri della UE : soprattutto sul piano della politica estera e dell’organizzazione militare di difesa.
La sola moneta, l’Euro, a  cui il Regno Unito non aderiva, evidentemente non basta più.
O c’è una decisa accellerazione dell’unità politica tra  Stati Federali dell’Europa oppure Bruxelles diventerà una capitale virtuale e non effettiva di qualcosa che nella realtà non c’è più.
Il Partito Popolare Europeo e il Partito Socialista Europeo possono fare molto in questa direzione.
Ci vuole però una nuova Costituzione Europea e molto molto coraggio politico.