Presentazione degli articoli del mese di ottobre 2017

1430117769-sanfrancescoAndrea Drigani con il ricordo di un dibattito all’Assemblea Costituente italiana nel 1947 riflette sull’uso del nome di Dio nei testi legislativi statali. Gianni Cioli presenta le vite parallele di due cardinali moralisti: Dionigi Tettamanzi e Carlo Caffarra, morti a un mese di distanza l’uno dall’altro. Giovanni Campanella ripropone, con il libro di Salvatore Muscolino, il rapporto tra il liberalismo (nelle sue variegate espressioni) e il pensiero sociale cristiano. Dario Chiapetti recensisce una recente pubblicazione che contiene il dibattito tra i filosofi Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino sulla questione dell’essere e dell’apparire. Antonio Lovascio affronta la questione dei flussi migratori in Italia che secondo le affermazioni di Francesco e della CEI deve essere all’insegna di una accoglienza coraggiosa e prudente. Carlo Parenti ripercorre il viaggio del cardinale Pietro Parolin in Russia che fa venire in mente la lungimiranza di Giorgio La Pira che nel 1959 si recò a Mosca. Francesco Vermigli muovendo da una disposizione normativa di Papa Francesco rileva che la traduzione dei libri liturgici dal latino alle lingue nazionali deve essere sempre in profonda sintonia con la teologia ed il Magistero Ecclesiastico. Elia Carrai annota sulla scarsa volontà dell’uomo contemporaneo di porsi dei grandi interrogativi, che vanno invece favoriti, da qui l’azione della Chiesa di fornire delle risposte adeguate. Mario Alexis Portella illustra la figura del 7° Presidente Usa, Andrew Jackson (1767-1845) che come cristiano lottò per un sistema politico che ha preso il none di «Democrazia Jacksoniana». Leonardo Salutati in margine ad un incontro alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, in occasione della Giornata mondiale per il creato, rammenta che l’uomo non è il padrone della terra, bensì l’ospite sulla terra che appartiene a Dio. Giovanni Pallanti indica una risposta alle difficoltà odierne dei parroci in un romanzo di Jean Mercier e in volumetto dell’arcivescovo Mario Delpini. Francesco Romano nel 60° anniversario dell’inizio della storia dell’Unione Europea osserva che, nonostante le difficoltà ed i travagli, il cammino dell’integrazione europea, così come la pensarono i padri fondatori, non ha alternative. Alessandro Clemenzia prende spunto dal discorso di Papa Francesco ai vescovi colombiani per alcune considerazioni sulla «sacramentalità», in riferimento ai ministri sacri che sono chiamati ad essere sacramento vivente di quella libertà che non ha paura di uscire da se stessa. Carlo Nardi interpreta lo strano graffito di Alessameno, databile tra il terzo e il quarto secolo, come il modo con cui i cristiani apprezzavano quello che il mondo pagano, invece, disprezzava. Stefano Liccioli riguardo agli articoli ed ai libri che trattano di fatti delittuosi che vedono coinvolta, in qualche modo, la Chiesa, richiama l’esigenza di evitare una lettura ideologica, per coniugare libertà e verità.




Quei libri che non lavano «la veste sporca della Chiesa»

nuzzi-fittipaldi (1)di Stefano Liccioli • «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! […] Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli!». Sono le parole che l’allora Cardinale Joseph Ratzinger scrisse a commento di una delle stazioni della Via Crucis al Colosseo, in occasione del Venerdì Santo del 2005. Colui che dopo meno di un mese sarebbe diventato Papa Benedetto XVI, usò immagini e parole forti per stigmatizzare le colpe di coloro che dovrebbero essere, invece, testimoni luminosi dell’amore di Cristo. Cosa altro ci sarebbe da aggiungere? Ratzinger mi sembra avesse già messo in luce, in termini generali, ma molto espliciti, la pericolosa controtestimonianza, in particolare, di sacerdoti e religiosi. Più che dire, occorre fare, convertirsi per rinnovare i cuori ed essere in questo modo davvero luce del mondo e sale della terra.

Ed invece, soprattutto negli ultimi anni, è sempre più fiorente una pubblicistica impegnata a denunciare scandali e malaffare nella Chiesa, basandosi su documenti riservati e trafugati, indiscrezioni e rivelazioni di “corvi”.

Non entro nel merito di nessuno di questi libri e della loro veridicità (anche se a volte l’ossessione dello scoop a tutti i costi, così come il desiderio delle prime pagine dei giornali o dell’accusa, sempre e comunque, agli ecclesiastici rischiano di far dimenticare alcune delle regole fondamentali del giornalismo, come quella della verifica delle fonti o di una corretta acquisizione delle notizie). L’impressione però che si ha accostandosi a questi testi è che gli autori vogliano condurre il lettore a delle tesi già predefinite che, ad esempio, dividono la Chiesa, soprattutto la Chiesa gerarchica, in buoni (pochi) e cattivi (molti). Fatta salva la libertà di stampa ed il diritto di cronaca, sarebbe utile che questi giornalisti e scrittori facessero davvero cronaca raccontando tutto quello che riguarda una realtà grande e complessa come la Chiesa. Non ci si può limitare a collezionare notizie e fatti negativi o criminosi (alcuni magari ancora in attesa della conclusione di un processo) per raccontare la vita della Chiesa o della Curia Romana. Sarebbe come voler parlare del matrimonio prendendo come punto di osservazione l’aula di un tribunale dove avvengono i divorzi.

Il rischio che corrono questi autori (ma forse ne sono consapevoli e li va bene) è di avere un approccio troppo ideologico e di parte a questioni anche importanti come quelle di cui vogliono parlare, perdendo così di vista la verità tutta intera.

Qualora questi scrittori intendano davvero contribuire al cambiamento della Chiesa per renderla più trasparente, rinuncino, ad esempio, ai diritti d’autore dei loro libri: in questo modo forse sarà più chiaro il loro intento e non ci sarà il rischio di fare del business con i mali che si vuol denunciare, facendo leva sulla curiosità delle persone interessate più “all’albero che cade che alla foresta che cresce”.

Concludo con un altro passaggio del commento di Ratzinger alla Via Crucis del 2005:«Signore, abbi pietà della tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo. Con la nostra caduta ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta; spera che tu, essendo stato trascinato nella caduta della tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu, però, ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi».




L’Unione Europea a sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma del 1957

1409662393_indipendentismi1-600x335di Francesco Romano • Oggi la parola “Europa” nell’immaginario collettivo evoca immediatamente la radice di tutti i nostri mali. A essa viene associata la percezione di una tendenziale chiusura degli Stati nazionali nella salvaguardia del proprio interesse particolare, dopo significativi progressi raggiunti come la libera circolazione delle persone e delle merci, ma anche dopo infinite discussioni sulle regole del mercato, specie per i generi alimentari, i prodotti agricoli, il latte, gli scambi commerciali, ecc. In tutto questo ha giocato un ruolo determinante la lunga crisi economica e le diverse velocità con cui oggi non poche nazioni europee arrancano nel tentativo di salvaguardare il proprio benessere, seppure precario, che ovunque ormai da segni preoccupanti di instabilità. L’euroscetticismo è entrato come dubbio corrosivo nel modo di vedere anche della gente comune, ulteriormente influenzata da alcuni orientamenti politici che guardano con simpatia al recente modello “Brexit”. Purtroppo, proprio dalla Gran Bretagna già giungono notizie di chiusura e discriminazione verso cittadini europei che cercano casa e lavoro, soprattutto se privi di cittadinanza, nonostante le parole rassicuranti del primo ministro Theresa May pronunciate lo scorso 22 settembre a Firenze sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Da molti anni si è aggiunta anche la pressione di una moltitudine di migranti che giungono da varie parti del mondo premendo alle porte dell’Europa, mentre alcuni Stati europei si affrettano a chiudere le frontiere ricorrendo in certi casi anche a mezzi militari, spesso a scopo dimostrativo, e a lasciare isolati nel soccorso e nell’accoglienza quei pochi paesi loro vicini che hanno per confine migliaia di chilometri di mare.

Tutto questo accade nella celebrazione del sessantesimo dei Trattati di Roma che ricorre proprio quest’anno. L’Europa ha conosciuto tempi di gran lunga peggiori dei nostri, ma per merito di personalità illuminate, pur con orientamenti politici distanti, ha saputo farsi guidare dai valori costitutivi della sua radice identitaria e trovare punti di convergenza anche tra posizioni distanti.

Quando ancora l’Europa stava soffrendo per le conseguenze del secondo conflitto mondiale, iniziava ad aprirsi uno spiraglio che tornava a dare fiducia incoraggiandola a fare un cammino condiviso. Il 18 aprile 1951 a Parigi i governi di Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo istituirono la CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio con l’intento di realizzare un progetto federalista, sovranazionale. Figura di rilievo fu il ministro degli Esteri francese Robert Schuman che vedeva nella condivisione delle risorse minerarie e industriali della Francia e della Germania la possibilità di evitare il ripetersi, almeno in Europa, delle stesse cause che avevano portato al secondo conflitto mondiale. Proprio sessant’anni fa, il 25 marzo 1957, a Roma si ritrovarono in Campidoglio i rappresentanti degli stessi governi per istituire la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom). I due trattati, chiamati Trattati di Roma, furono poi ratificati dai rispettivi parlamenti.

Con il trattato che istituì la CEE l’Europa dette vita a un organismo con ruolo prevalentemente economico per favorire la crescita dei paesi che vi aderirono. In particolare furono aboliti i dazi doganali tra gli Stati membri dando vita a un mercato unico. Il trattato che istituì l’Euratom si prefiggeva di coordinare i programmi di ricerca sull’energia nucleare e soprattutto di utilizzarla a scopi pacifici.

Nel 1992 il trattato di Maastricht sostituì il trattato di Roma che aveva istituito la CEE e stabilì le regole e i parametri economici per l’adesione di altri paesi. Istituì un sistema europeo di banche (SEBC) che comprende la Banca Centrale Europea (BCE) e le banche centrali nazionali con il compito di emettere la moneta unica e occuparsi di politica monetaria con particolare riferimento alla stabilità dei prezzi.

Una grande occasione che l’Europa non ha saputo cogliere è stato il progetto di una costituzione europea siglata a Roma il 29 ottobre 2004, ma senza mai aver visto la luce per l’esito negativo del referendum del 2005 riportato dalla Francia e dall’Olanda.
Successivamente il 13 dicembre 2007 il trattato di Lisbona, sottoscritto da ventisette Stati membri, modifica il Trattato di Maastricht sull’Unione Europea e il Trattato sulla Comunità Europea che, unificandoli, avrebbe dovuto sostituire. Il Trattato di Lisbona, che istituisce la Comunità Europea con personalità giuridica, recepisce in gran parte la mancata Costituzione europea. Tra le altre cose viene creata la figura del presidente permanente del Consiglio europeo e introdotta la clausola di recesso prevista dall’art. 50 che regola la possibilità di uscire dall’Unione Europea.

Da oltre sessanta anni si parla di Unione Europea, ma non sempre è stato fatto lo sforzo di coltivarla cercando di favorire nelle relazioni tra gli stati un rapporto dinamico finalizzato a riconoscere e approfondire i valori e i principi che sono alla base del processo di unificazione europea. E’ innegabile che l’esperienza di questi decenni sia contrassegnata anche dallo sviluppo della Comunità Europea, per esempio per quanto riguarda le attività economiche, il livello di protezione sociale, la dignità umana. Su queste basi l’Europa ha potuto aiutare la propria crescita e consolidare la democrazia con la vittoria sulle dittature e l’adesione di nuovi popoli. Tuttavia, l’elemento più tangibile e fonte di speranza per il futuro è stato senz’altro il valore condiviso e irrinunciabile della pace.

Con uno sguardo positivo non possiamo sottovalutare che il Trattato di Maastricht aveva dato risultati anche apprezzabili, questa volta non di natura burocratica, favorendo l’avvicinamento tra i popoli con il concetto di cittadinanza europea senza venire meno quella nazionale. Grande successo hanno avuto i programmi di scambio tra studenti come l’Erasmus che ha coinvolto la comunità universitaria transnazionale riportandoci con la memoria ai tempi del cristianesimo medievale e del Rinascimento.

Il Trattato che istituisce la Comunità Europea si fonda su valori fondamentali. Al primo posto vi è la solidarietà tra i popoli nel rispetto della storia, della cultura e delle tradizioni. La diversità viene percepita come arricchimento. Il principio di sussidiarietà stabilisce che le decisioni vengono prese nel massimo accordo con i cittadini, mentre la Comunità interviene soltanto quando gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri. Un altro valore è la possibilità di permettere ad alcuni Stati membri di progredire a velocità diverse, di non dover percorrere strade sfavorevoli, ma di poter perseguire politiche positive nel proprio interesse come principio cardine per favorire l’integrazione. Il principio di solidarietà fin dall’inizio è al centro della costruzione dell’Europa che guarda a politiche economiche, ma anche sociali. Mentre la maggior parte della legislazione sociale resta di competenza nazionale, si è assistito a una linea di modernizzazione dei vari modelli sociali europei come l’uguaglianza tra uomo e donna, la salute, la sicurezza sui luoghi di lavoro, i permessi di maternità ecc. Il Trattato costituzionale presenta anche la solidarietà nei vari aspetti della politica sociale, per esempio la solidarietà tra gli Stati membri in caso di attacchi terroristici o calamità naturali. Infine l’Unione Europea promuove la solidarietà anche con il resto del mondo.

A questo dato di fatto si affianca però la preoccupazione di non riflettere abbastanza sulle ragioni e sui valori che hanno favorito in Europa l’affermarsi del processo di pace più lungo che sia mai stato conosciuto. Guardare alla pace non significa semplicemente prendere atto dell’assenza di guerra grazie all’Unione Europea. Questa sarebbe una visione meccanicistica come se la pace fosse un dato scontato. Si tratta invece di riconoscere e proclamare i valori di fondo che avvicinano popoli di culture certamente diverse, ma non tanto lontane tra loro. L’esperienza di questi anni porta ad affermare che il processo di integrazione europea non è un’operazione tecnocratica che possa favorire l’incontro di modelli sociali e culturali. Espressione di questa impostazione è stato il fallimento del progetto di Costituzione europea che nel 2005 non riuscì a superare il referendum aprendo la strada alla corrente cosìddetta euroscettica. Un altro punto di debolezza rispetto allo spirito dei padri fondatori è di aver privilegiato il metodo intergovernativo che guarda agli interessi nazionali, rispetto al metodo comunitario che mette al centro la solidarietà tra le persone e il perseguimento del bene comune allontanando le derive nazionaliste e populiste.

E’ importante ricordare le meditazioni di Giovanni Paolo II in occasione degli “Angelus” nei mesi di luglio agosto 2003, quindi in prossimità del fallito progetto di Costituzione europea. Il 17 agosto del 2003 il Papa esortava l’Europa a recuperare la forza unificante del cristianesimo che ha saputo integrare tra loro diversi popoli e culture, inoltre “il processo di allargamento dell’Unione Europea ad altri paesi non può riguardare unicamente aspetti geografici ed economici, ma deve tradursi in una rinnovata concordia di valori da esprimersi nel diritto e nella vita”. Nell’esortazione del 24 agosto 2003 il Papa rivendica per il Trattato le radici cristiane dell’Europa quale principale garanzia per il futuro, mentre un buon ordinamento della società deve radicarsi in autentici valori etici e civili, il più possibile condivisi dai cittadini.

Parlare di radici cristiane dell’Europa non significa fare una scelta confessionale come principio ispiratore, bensì ricordarsi anche della storia che riguarda la fondazione dell’Europa, soprattutto a partire dall’Italia, come tradizione che si forma durante il millennio dell’unità giuridica, per dirla con l’illustre studioso Francesco Calasso: “la Chiesa che dopo il crollo del mondo antico aveva accettato la lex romana come propria lex saeculi, accanto alla lex spiritualis ne era nato il connubio dell’utraque lex“. Da questo connubio con la legge ecclesiastica che si dirigeva a tutto l’orbe cattolico, la legge romana traeva le prime istanze ideali di universalità, alle quali forniva la base politica per la rinnovazione dell’Impero Romano d’Occidente. Il diritto giustinianeo, restituito dall’insegnamento di Irnerio della scuola di Bologna all’integrità originaria, si irradiò in gran parte d’Europa e oltre i confini dell’Europa romanza fino all’entrata in vigore delle codificazioni moderne, rappresentando il diritto comune, cioè l’unum ius dell’unum imperium, pur riconoscendo la validità di ciascun diritto particolare con la nascita degli stati nazionali. Il diritto canonico contribuì all’irradiazione del diritto comune in gran parte dell’Europa perché l’insegnamento del diritto canonico obbligava allo studio del diritto romano.

Quindi, l’Unione Europea non è nata per un caso del destino, ma risponde alle esigenze di molti popoli che si riconoscono uniti tra loro per la condivisione di una storia millenaria fatta di valori comuni come la dignità della persona umana, la pace, la tolleranza, il rispetto della sussidiarietà, la ricerca del bene comune. Valori che sono alla radice dell’identità europea e che per questo hanno potuto esprimersi a volte anche dopo un lungo travaglio durato molti secoli tra alleanze, conflitti, rivalità.




Sacramento vivente del primo passo di Dio

sinodo-dei-vescovidi Alessandro Clemenzia • La “sacramentalità”, il più delle volte, è considerata un termine “tecnico” per esprimere la natura di una realtà complessa, che ha a che fare sia con ciò che è umano, sia con ciò che divino: per questa ragione il Sacramento per eccellenza è proprio Cristo, vero Dio e vero uomo. L’espressione “sacramento” o “sacramenti”, invece, trova una recezione decisamente più ampia, coinvolgendo anche i così chiamati “non addetti ai lavori”.

Papa Francesco, nel suo ultimo viaggio apostolico, rivolgendosi all’Episcopato colombiano, ha presentato il motto della sua visita: «Fare il primo passo». Non si tratta di una semplice esortazione comportamentale, ma del diventare sempre più consapevoli della mossa di Dio nella storia dell’uomo, da cui scaturisce un nuovo modo di relazionarsi verso se stessi e verso gli altri. Quest’immagine esprime Dio come colui che compie per primo il passo per avvicinarsi al suo prossimo, anticipando così ogni azione umana: «Egli ci anticipa sempre». Il compiere un passo verso l’altro, in secondo luogo, è un vero e proprio atto di uscita-da-sé: «Tutta la Sacra Scrittura parla di Dio come esiliato da Se stesso per amore». Il Papa ripercorre i vari momenti, nella storia della salvezza, in cui emerge questo esilio di Dio: «Quando vi erano solo tenebre, caos e, uscendo da Sé, Egli fece in modo che tutto venisse ad essere», quando «passeggiava nel giardino delle origini», o ancora «quando, pellegrino, Egli sostò nella tenda di Abramo», oppure «quando emigrò con la sua gloria verso il suo popolo esiliato nella schiavitù». E infine ricorda il «passo irreversibile» di Dio: l’incarnazione del Verbo.

Tutte queste uscite di Dio chiedono a ogni uomo disponibile all’ascolto di quella “Parola che carne si è fatta” di corrisponderGli, inserendosi all’interno della medesima dinamica di uscita: «Coloro che lo riconoscono e lo accolgono ricevono in eredità il dono di essere introdotti nella libertà di poter compiere sempre in Lui questo primo passo». È un passo che, oltre ad essere primo, è anche decisivo, non soltanto per il “dove” si è diretti, ma soprattutto per quel “a Chi” viene fatto.

Coloro che compiono questo passo, spiega Francesco, «non hanno paura di perdersi se escono da se stessi, perché possiedono la garanzia dell’amore che promana dal primo passo di Dio, una bussola che impedisce loro di perdersi». Si tratta dunque, per ogni uomo, di compiere un primo passo “nel” già compiuto primo passo di Dio: è come se il passo umano, pur essendo il secondo rispetto a quello di Dio, si inserisse nella “primarietà” divina, divenendo anch’esso primo verso i fratelli e le sorelle.

Dopo aver sottolineato quest’interessante dinamica relazionale tra Dio e uomo, il Papa si rivolge direttamente all’episcopato colombiano, chiedendo loro di compiere il gesto del passo con una consapevolezza ancora più grande: «Custodite dunque, con santo timore e con commozione, quel primo passo di Dio verso di voi e, per mezzo del vostro ministero, verso la gente che vi è stata affidata, nella consapevolezza di essere voi stessi sacramento vivente di quella libertà divina che non ha paura di uscire da sé stessa per amore, che non teme di impoverirsi mentre si dona, che non ha necessità di altra forza che l’amore».

Consapevoli di quel passo che Dio ha compiuto verso di loro e verso ogni persona loro affidata, i vescovi devono diventare «sacramento vivente di quella libertà che non ha paura di uscire da se stessa per amore». Non si parla qui di sacramentalità della Chiesa o dei sette sacramenti, ma di un ministro che dev’essere in se stesso, con la sua vita, sacramento di quell’esperienza d’amore da cui è stato prima avvolto, poi ecclesialmente inviato. Cosa si intende qui per “sacramento”, alludendo al singolo ministro episcopale? Il Concilio Vaticano II, riconoscendo che Cristo è il Sacramento primordiale, parla della Chiesa «come sacramento», spiegando il significato di questa parola: «e cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Emerge in questa definizione la natura relazionale del sacramento, poiché esso è segno (il segno rimanda a qualcosa o a qualcuno altro-da-sé) e strumento (vale a dire: non fine a se stesso). Il vescovo è tale, dunque, nel «rendere tangibile l’identità di sacramento del primo passo di Dio», e questo, spiega ancora Francesco, esige «un continuo esodo interiore».

Papa Francesco, inoltre, offre all’episcopato colombiano un’ultima indicazione di “metodo” per vivere come sacramento vivente: «Vi raccomando di vigilare non solo individualmente ma anche collegialmente, docili allo Spirito Santo, su questo permanente punto di partenza». Questo “collegialmente” non è un di più, ma è essenziale per la natura dell’episcopato: è un richiamo a vivere questa dinamica esodale all’interno di uno spazio comunionale, quale appunto il collegio episcopale, di cui ogni vescovo, dal momento dell’ordinazione, entra a far parte come condizione di possibilità del proprio particolare esercizio ministeriale.




La testimonianza del cosiddetto «crocifisso blasfemo».

palatinodi Carlo Nardi • Da riffe tra ragazzi. Nel 1856 in occasione di scavi archeologici sul Palatino, il colle romano su cui era costruito il palazzo dell’imperatore, precisamente in vani adibiti alla scuola o collegio dei paggi addetti alla corte, fu scoperto uno strano graffito, probabilmente del secondo o terzo secolo. Sull’intonaco era stata incisa una croce con la rappresentazione di un asino appeso a una croce. Sotto c’era una scritta in greco «Alessameno, venera il suo dio», un messaggio tutt’altro che benevolo nei confronti di Alessameno che adora un ciuco e per di più finito su una croce. Brutta parola, questa, che allora le persone perbene non rammentavano neppure. Sapeva troppo di rivolte di schiavi, di avanzi da galera. Insomma, di brutta morte. Non avesse a portar male?

E poi, vicino, si vide un altro graffito, telegrafico: «Alessameno fedele».

Gli storici si sbizzarrirono in ipotesi, talora in fantasie da romanzo storico, anche pregevoli come l’immaginario del Pascoli. Egli pensò a una lite per futili motivi tra due ragazzi in quella particolare scuola: uno di nome Alessameno e uno pagano, e da una ripicca si doveva essere passati all’offesa alla religione di uno dei due, Alessameno appunto. È la rielaborazione poetica, accattivante e commovente, peraltro più che possibile, questa del Pascoli in un suo poemetto latino, il Paedagogium, La scuola dei paggi.

Archeologi e filologi devono essere sobri nel sentenziare. Tuttavia, un dileggio ci dovette essere: una pungente presa di giro. Alle spese di chi? C’era una croce e un asino. Ora, Tertulliano, scrittore cristiano della fine del secondo secolo, c’informa di una simile iscrizione: «Il dio dei cristiani», ossia il dio in cui credono i cristiani, «razza da ciuco». Si ricava un tale con orecchie d’asino e con una gamba che finisce in uno zoccolo, nonché con un libro in mano (Apologeticum 16,12; cf. Minucio Felice, 9). Ci sfugge perché c’entri l’asino. Forse la domenica delle Palme ci può dire qualcosa. Gesù, stando ai Vangeli, entra in Gerusalemme su quella cavalcatura (Mt 21,2.5.7; Mc 11,2.5; Lc 19,30.34; Gv 12, 14-15). Il riferimento a Gesù, considerato maestro, anzi ritenuto Dio, è evidente: i pagani ce l’avevano proprio con chi credeva in Gesù come a proprio maestro e Dio, con un cristiano come doveva essere il giovane Alessameno. E, quanto a rapporti umani, nei suoi confronti c’era un astio acido e cattivo.

Del resto, si era a Roma, anzi nella corte imperiale, nel secondo o terzo secolo. Bastava poco ai pagani per rovesciare accuse pesanti e compromettenti ai cristiani, pagani a cui rispondevano i cristiani ora con tratti di schietta carità evangelica, come nelle parole di Perpetua cristiana al padre suo pagano (sua Passione 3.5.6), ora, poco dopo il 313, con uno scritto revanscista di Lattanzio, Le morti, le male morti dei persecutori.

E come rispose Alessameno? Se sono suoi gli altri graffi sul muro, ed è assai verosimile, risponde con poche sentite parole: «Alessameno fedele», che vuol dire credente, battezzato, cristiano.

Come andò a finire la faccenda? Vorremmo saperne di più. Ma una scritta su un muro è un’istantanea, come del resto sono le parabole del Vangelo. Bastano così come sono. E se quelle parole sono di Alessameno, il ragazzo ci ha già detto abbastanza.




Capitalismo, liberalismi sfrenati, liberalismi «sociali» e Cristianesimo

un_team_per_la_quarta_fase-30.mp4di Giovanni Campanella • Nel Maggio 2017, la Mimesis Edizioni ha pubblicato un libro di Salvatore Muscolino, docente di Filosofia Politica presso l’Università degli Studi di Palermo. Il libro è intitolato Libertà e mercato – Riflessioni su capitalismo, società e cristianesimo. Secondo Muscolino, alcuni elementi del Cristianesimo hanno contribuito per certi versi all’emersione del capitalismo. Tale questione non è però al centro del suo discorso. Ampio spazio viene dato all’analisi delle critiche al capitalismo e del loro contesto di provenienza. Successivamente, sono evidenziati alcuni aspetti positivi del capitalismo, attingendo a piene mani dalla tradizione liberale. Nel corso di tutto il libro, capitalismo e liberalismo sono sempre strettamente associati. Il liberalismo è declinato attentamente nelle sue varie correnti, alcune anche molto distanti fra loro.

La prima parte del libro è più prettamente filosofica e delinea le radici dell’attuale temperie culturale relativista e le sue critiche al capitalismo/liberalismo. Viene analizzato il mainstream post-strutturalista e il pensiero dei suoi principali esponenti, tra cui Michel Foucault e Jacques Derrida. Il post-strutturalismo ha contribuito a porre sotto accusa l’idea tradizionale di verità e il concetto di “universalismo”. La pratica decostruzionista di Derrida denuncia «ogni sistema di potere che, reprimendo le varie forme di alterità, impone significati chiusi, definitivi e assoluti» (p. 29). Altre critiche al capitalismo/liberalismo provengono dalla famosa Scuola di Francoforte, i cui più importanti esponenti sono passati in rassegna da Muscolino. In un percorso ancora più a ritroso, l’autore si concentra poi su alcuni elementi del pensiero di Weber e Marx.

Quando passa a parlare di Cristianesimo, Muscolino mutua alcune idee di Jaspers sull’effetto propulsore del periodo assiale nei confronti della storia umana ma, diversamente da Jaspers, individua l’origine di tale effetto propulsore negli anni di avvento del cristianesimo. Anche se è vero che la libertà dell’uomo comporta pericolose e continue ricadute – costituite ad esempio dai totalitarismi novecenteschi –, Muscolino scrive che «si deve al Cristianesimo un certo patrimonio di idee che hanno permesso la nascita del capitalismo, della scienza moderna e lo sviluppo di condizioni culturali favorevoli al sorgere di una cultura dei diritti centrati sulla persona umana» (p. 95). Tuttavia, l’anima liberale di Muscolino fa mostra di non sentirsi in piena sintonia col recente Magistero, che ha sottolineato (giustamente, aggiungo io) la primazia di certe istanze sociali sul capitalismo. In particolare, l’autore ammette esplicitamente di sentirsi a disagio di fronte all’uso dei concetti di “popolo” e “moltitudini” da parte dell’attuale Pontefice (p. 61). In realtà, questo manifesto disagio non si spiega un gran che, considerando che, nel proseguimento della trattazione, Muscolino dedica sempre più spazio a tematiche sociali e riconosce alcuni limiti del capitalismo.

All’acclamato criticismo di Thomas Piketty nel suo libro di successo Il capitale nel XXI secolo, il nostro autore contrappone l’analisi pacata di Angus Deaton, il quale osserva che, nonostante la permanenza di alcune gravi disuguaglianze, il sistema capitalistico ha contribuito considerevolmente a diminuire povertà e mortalità globali in termini assoluti. Ciò è visibile ad esempio in Cina e India. Lo stesso concetto di disuguaglianza ha bisogno di una previa attenta inquadratura. Giovandosi di alcune riflessioni del filosofo Harry G. Frankfurt, Muscolino scrive:

«Nonostante l’attrattiva morale dell’egualitarismo sia molto forte e carica anche di una componente emotivo-retorica non trascurabile, l’eguaglianza economica, spiega chiaramente Frankfurt, non può costituire la nostra ambizione primaria perché il vero problema morale non è che tutti abbiano lo stesso ma che tutti abbiano abbastanza. “Abbastanza” significa che ogni uomo deve poter condurre una “vita buona” in sé a prescindere dal confronto con gli altri» (p. 111).

Verso la fine del libro, l’autore opera un’importantissima distinzione all’interno del neoliberalismo. Fra le varie anime che trovano spazio al suo interno, le più famose sono tre: la Scuola austriaca (fra i cui membri spicca Friedrich August Von Hayek, Nobel per l’economia nel 1974), la Scuola di Chicago e l’Ordoliberalismo (fra i suoi maggiori esponenti figura Wilhelm Röpke). Tutte muovono dall’individualismo metodologico e difendono il libero mercato ma ognuna ha visioni proprie del mercato. A differenza delle altre correnti, l’Ordoliberalismo riconosce un importante ruolo regolatore allo Stato e un decisivo ruolo propulsore al Cristianesimo. Col passare del tempo l’Ordoliberalismo è stato marginalizzato mentre la Scuola di Chicago ha prevalso, favorendo una gestione tecnocratica del mercato.

Anche riguardo ai limiti del capitalismo e riguardo al rapporto tra liberalismi e Cristianesimo, Muscolino ha alcuni spunti interessanti. Afferma che il cattolico-liberale non divinizza il mercato trasformandolo in fine in sé. Difendere la libertà di iniziativa, la libertà di concorrenza e la libertà di prezzo può pacificamente accompagnarsi al sostenere la necessità di una cornice sociale, morale e culturale adeguata. Muscolino ammette che il capitalismo non è un sistema perfetto: il capitalismo può portare a conseguenze negative, come la disoccupazione e la marginalizzazione di coloro che non riescono a “stare” sul mercato. Inserendo nel suo discorso anche la posizione della Chiesa, il nostro autore ritiene che tale posizione non si oppone alla tradizione del liberalismo classico:

«Da parte sua la Chiesa ha da sempre avuto chiaro che il sistema capitalistico può essere strutturato in molti modi e per questa ragione ha insistito sulla dimensione sociale del mercato nel senso che la società nel suo insieme ha il dovere morale di occuparsi della tutela di tutte quelle categorie di persone che versano in uno stato di sofferenza morale e/o materiale momentaneo o prolungato nel tempo.

Questa sensibilità non è in contraddizione con la tradizione del liberalismo classico. Un autore come Hayek, per esempio, riconosce esplicitamente la necessità che nella società del benessere questo ruolo “sociale” non venga meno: malati, disabili, vedove, orfani e tutti coloro che vivono ai margini del mercato devono essere oggetto di adeguate politiche governative che suppliscano il ruolo di “tutela” che nelle società premoderne era svolto dai legami di parentela.

Affidare allo Stato questi compiti non significa affatto “correggere” o, peggio, “interferire” con la logica del mercato in nome di una generica “giustizia sociale” che preveda, per esempio, un certo standard di beni primari da attribuire a tutti i cittadini. Se, come ho già ricordato, Hayek mostra scetticismo nei confronti di una concezione di questo tipo, al tempo stesso, però, egli mostra la chiara consapevolezza della necessità di una cornice morale più ampia perché la società aperta possa funzionare correttamente. Il mercato d’altra parte è una realtà che evolve “spontaneamente” ma che non è priva di forme di regolamentazione anche da parte del potere politico.

Questo aspetto è ancora più marcato nella tradizione dell’economia sociale di mercato tedesca. In William Röpke, per esempio, non solo è cruciale l’obbligo morale di aiutare gli ultimi, ma si sottolinea il fatto che il mercato stesso può funzionare pienamente soltanto in presenza di una cornice morale e spirituale ben precisa» (pp 152-153).




Tradurre nella Chiesa. Il motu proprio «Magnum principium» di papa Francesco

screen-shot-2017-09-09-at-11-28-11di Francesco Vermigli • Con la promulgazione del m.p. Magnum principium, papa Francesco ha stabilito che con l’inizio di questo mese entrino in vigore alcune modifiche al can. 838 del CIC; in particolare per quanto attiene al secondo e al terzo paragrafo. Si tratta di un canone tra quelli preliminari al libro IV, dedicato a «La funzione di santificare della Chiesa»; in modo specifico si tratta di un canone che afferma la competenza della Sede Apostolica e – a norma del diritto – del vescovo diocesano a regolare la liturgia, della quale il canone precedente sottolinea il carattere pubblico («Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa stessa»: can. 837, § 1). Si direbbe allora che regolare la liturgia spetta alla Chiesa in ragione del munus sanctificandi che in maniera precipua investe la liturgia e in ragione del carattere eminentemente pubblico della medesima azione liturgica. In modo particolare, le modifiche investono i paragrafi che cercano di chiarire il ruolo che in questa materia rivestono le Conferenze episcopali; per quanto attiene agli adattamenti alla liturgia romana e per quanto riguarda la traduzione dei libri liturgici.

Non riteniamo che in questa sede sia necessario entrare nello specifico delle modifiche. Per una migliore valutazione dell’entità dei cambiamenti è sufficiente risalire al testo del m.p., alla nota esplicativa e al commento dell’attuale segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti:

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio_20170903_magnum-principium.html.

Ci piace solamente notare che le questioni principali su cui verte l’intervento insistono proprio sull’esatta comprensione di due lemmi latini: in particolare, cosa significano nel contesto del canone il verbo recognoscere (§ 2, in relazione agli adattamenti) e il sostantivo confirmatio (§ 3, in relazione alle traduzioni)? Cosa significano questi termini, rispetto all’azione che la Santa Sede svolge su aptationes e versiones preparate e approvate dalle Conferenze episcopali? In verità tanto dal testo del m.p., quanto dalla nota e dal commento si apprende che è della Congregazione per il Culto divino compiere un’opera di revisione attenta e analitica; un’opera che va ben oltre la mera autorizzazione degli adattamenti presentati o delle traduzioni proposte, giacché è alla Santa Sede che compete di regolare la liturgia, non meramente di autorizzarla. Vale a dire che spetta alla Santa Sede – o meglio al dicastero competente per questo scopo, la Congregazione per il Culto divino – accordare in unità tutti i suoni della liturgia romana.

Quest’ultimo nostro riferimento all’unità della liturgia romana trova facilmente appoggio nel testo stesso del documento pontificio; laddove si fa strada un senso elevato dell’unità e della sinfonia delle varie parti, delle quali si costituisce la liturgia («conscia ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche con l’unità sostanziale del Rito Romano»; «sia reso pienamente e fedelmente il senso del testo originale e che i libri liturgici tradotti, anche dopo gli adattamenti, sempre rifulgano per l’unità del Rito Romano»). Nell’ambito dell’unità e della sinfonia della liturgia uno spazio non piccolo dovrà dunque essere riservato alla questione delle traduzioni dei libri liturgici.

Va quindi affermato con decisione che la traduzione dal latino nelle lingue volgari non è questione indifferente per quanto attiene alla salvaguardia e alla promozione dell’unità nella Chiesa. Come recita il can. 837 – con formula densa che il CIC prende da Sacrosanctum Concilium, 26 – la Chiesa è sacramentum unitatis; dunque non potrà mai accadere che la traduzione dei libri liturgici possa recare danno all’unità di cui la comunità dei credenti è sacramento. Donde si spiega anche la ragione dell’aggiunta di fideliter che il m.p. fa nel § 3, dal momento che la confirmatio da parte dell’organo competente della Santa Sede non potrà che darsi in presenza di versioni approntate fedelmente rispetto al testo latino. Non si tratta qui di discettare attorno alla teoria della traduzione; che affatica i traduttori – almeno in maniera implicita e nella prassi – dalla prima volta in cui qualcuno ha deciso di vertere un testo espresso in una lingua in un’altra. E non si tratta neppure di porre qui nuovamente la questione annosa circa il fatto se la traduzione debba essere letterale o ad sensum.

Si tratta di affermare qualcosa di più radicale: si tratta di affermare che l’opera di traduzione è un’opera della Chiesa, che sottostà alle dinamiche teologali che sostengono la stessa costituzione della comunità dei credenti. È innanzitutto un’opera che ha a che fare con la preghiera della Chiesa e che deve essere rispettosa della lex credendi e della lex vivendi; prima che essere dipendente dalla ricerca ossessiva della comprensibilità nella lingua di arrivo. In altri termini, il mestiere del traduttore, quando investe i testi liturgici, ha a che fare primariamente con la teologia e contribuisce ad una migliore comprensione del grande Mistero che è la Chiesa che cammina nella storia.




Vivere le domande

solitudinedi Elia Carrai Davanti alla pretesa moderna di far coincidere il conoscibile con il misurabile, relegando le questioni inerenti il significato dellesistenza in una sfera noumenicasospesa oltre la ragione, possiamo riscoprire oggi il valore decisivo del domandare. In un mondo che spesso pretende offrire risposte ancor prima che sorgano le domande, in cui il chiedere è dai più interpretato come un segno di debolezza, confessione inaudita di una mancanza, domandare è divenuto estremamente impopolare; non solo, si crede di poter sorvolare proprio su quelle domande che per secoli hanno caratterizzato la ricerca e la tensione conoscitiva delluomo. Convinto, ormai, che tutto ciò che si può conoscere è ultimamente misurabile, e demandato alla scienza e alla tecnica tale compito, all’uomo contemporaneo non è rimasto che vivere, senza porsi troppe domande, accontentandosi di essere talvolta aggiornato dalle scienze su una qualche novità, purché -ovviamente- di un certo interesse. Così, ogni volta che qualcosa sembra scalfire questa scorza d’indifferenza (l’esistenza rimane pur sempre carica delle sue contraddizioni), prontamente lapparato epistemologico contemporaneo si mobilita, mostrando come certe domande non possono trovare una risposta univoca, condivisa, al pari delle conclusioni della scienza e che, per questo, è meglio lasciar perdere cosa sia il male, la liberà, il dolore, il vero, cosa significhi profondamente amare o intensamente vivere. Una simile declinazione ristrettadella ragione comporta, di fatto, una comprensione altrettanto ristretta del reale, in cui certe domande finiscono per essere fuori luogo: inadeguate a quei paradigmi propri di una ragione misuratrice. Si genera così nella persona una sorta di ultimo impaccio con se stessa, con gli altri e nei confronti del reale. L’uomo contemporaneo, ereditata questa versione ridotta della ragione, deve rassegnarsi a rinunciare a qualcosa di sé per potersi annoverare tra gli uomini razionali: una certa idea di ragione si impone così sulla realtà uomo, senza che questi si chieda come possano certe domande risultare fuori luogo dal momento che è proprio nelluomo che sorgono. Dallaltro lato, a coloro che “romanticamente” rifiutano in toto il moderno paradigma di ragione, sembra rimanere, come ultimo rifugio, l’inquietante mondo dellirrazionale: una realtà oggi sempre più stratificata che si ramifica in dietrologie inverosimili, credenze surreali e in ultima analisi in uno scetticismo radicale che si declina in una qualche forma di complottismo; è in questo ambito, alieno ad un serio impegno di ragione, che la moderna ratio vorrebbe infine costringere ed annoverare la stessa esperienza di fede. Lesilio di quanto trascende il fenomenico oltre una cortina assolutamente inaccessibile alla ragione (Kant), avrebbe dovuto portare in breve tempo alla condivisa certezza intorno alla conoscenza dei fenomeni e, quindi, della realtà tout court. Tuttavia, proprio per questa esclusione preventiva del tutt’altro, si è determinato un curioso cortocircuito. Se da un lato la forza interrogante della ragione in ordine ai significati ultimi dell’esistenza non può essere semplicemente soppiantata, dallaltro il progressivo restringimento del reale ai soli dati misurabili e la conseguente negazione di ogni alterità, hanno fatto sì che luomo riversasse la propria urgenza di significato entro lambito di questa realtà ristretta. Una realtà, tuttavia, incapace a fornirsi da se stessa, con le sue proprie contraddizioni e limiti, un orizzonte esauriente e completo di significato: l’epoca moderna si è così caricata di un onere che non avrebbe potuto in alcun modo sostenere. Questa ricerca di un orizzonte totale e ideale entro cui concepire l’intera esistenza, tutta svolta in senso immanente, non traducendosi mai in un’apertura radicale al veramente altro da sé, è destinata a sfociare in grotteschi tentativi di fissare il valore ultimo del vivere in qualcosa di penultimo, tristemente destinato a passare, in qualche modo derivato da se stessi, costruito ed affermato con le proprie forze: i totalitarismi del secolo passato ci hanno mostrato su vasta scala cosa può significare avere la pretesa di fissare arbitrariamente, con la forza, l’orizzonte di significato non solo dei singoli ma di interi popoli e con ciò della storia stessa. Paradossalmente, cioè che rivela l’ultima inefficacia di simili tentativi, sono proprio quelle domande che, non paghe, continuano a incrinare la sicurezza di una ragione positivisticamente intesa.

È per questo motivo che oggi più che mai occorre tornare a prender sul serio le domande che intimamente muovono luomo, lasciando che queste spezzino il paradigma di una ragione ridotta a misuratrice universale, in favore di una ragione che è -appunto- essa stessa domanda, energia permanente di ricerca: tensione originale a quell’orizzonte entro cui la vita può finalmente divenire “respirabile”. Così Hesse nel suo “Il lupo della steppa”: «Io penso così: noi uomini, noi che abbiamo maggiori pretese, che abbiamo le aspirazioni e una dimensione di troppo non potremmo neanche vivere se, oltre all’aria di questo mondo, non ci fosse anche un’altra atmosfera respirabile, se oltre al tempo non esistesse anche l’eternità, il regno dell’autenticità». Ogni serio atteggiamento umano include il tentativo di stabilire un nesso con questa profondità del reale, con quella alterità che ne costituisce al contempo la radice e l’orizzonte. Intercettare le domande dell’uomo contemporaneo e sostenerlo in questa posizione interrogante nei confronti del reale non è semplicemente un opporsi all’indifferentismo, si tratta piuttosto di sostenere la ragione in una vera e propria riconquista della realtà totale. Si tratta cioè di riguadagnare attraverso le domande, la certezza che deve esserci un’altra aria respirabile, non aprioristicamente preclusa. L’allargamento della ragione coincide così con una prospettiva spalancata al reale, libera di ammettere il mistero profondo al fondo dell’umana esistenza e della realtà stessa; un mistero nei confronti del quale l’uomo non può essere semplicemente indifferente. Si potrebbe obiettare che una simile posizione non esaurisce il bisogno dell’uomo, lasciandolo sostanzialmente nella medesima incertezza di prima e, tuttavia, occorre sottolineare con forza come solo così l’uomo può cominciare a riappropriarsi di una realtà “piena”, dalla quale può attendere qualcosa d’altro (e di piú) rispetto alle sempre nuove proiezioni di se stesso. La serietà con le proprie domande riconsegna l’uomo anche ad un’apertura religiosa elementare, senza che questo ne risolva il dramma esistenziale e, tuttavia, consentendogli di non obliterare la profondità della propria realtà personale. La Chiesa è oggi chiamata a prendersi cura delle domande dell’uomo, nella consapevolezza che solo in una lealtà verso quest’ultime questi potrà riconoscere l’autentica portata della fede in Cristo per la sua stessa vita. Si tratta cioè di stimare le domande profonde che animano i nostri contemporanei, lasciando che queste rivelino l’insufficienza dei paradigmi di ragione ristretti, dei preconcetti di una mentalità che crede risolta la questione intorno al “senso ultimo”; ed è per questo che la Chiesa non solo è chiamata a sostenere tali domande prendendole sul serio, ma è chiamata essa stessa a rivolgere all’uomo proprio quelle domande che possono liberarlo da tutte le mezze risposte e soluzioni a buon mercato oggi offerte come “anestetico” contro ogni messa in discussione. Non tanto “attaccare” il paradigma di ragione “ristretto”, quanto sostenere ed alimentare quelle domande per le quali un simile paradigma, come neve al sole, si rivela inadeguato. Come Gesù con la donna samaritana, al pozzo, ci scopriamo chiamati ad un dialogo libero con chiunque (Gesù non si ferma ai pregiudizi sui samaritani) in cui il chiedere, la domanda, ha innanzitutto lo scopo di suscitare e destare l’io dell’altro. Un domandare che è tutt’uno con una passione sincera al destino altrui, perché l’altro scopra cosa veramente risponde; comprendiamo, così, quanto Agostino colga nel segno nel commentare la domanda di Gesù alla samaritana: «colui che chiedeva aveva sete della fede di quella donna». La rivelazione a Israele quale storia di salvezza, l’Incarnazione del Figlio, ingresso tangibile del divino sulla scena del mondo, rivelano quale sia il “metodo di Dio”: entrare in rapporto all’umano dal di dentro della storia, mediante una storia con ogni uomo, così da intercettarne tutta la concretezza di bisogno, di domanda. La grande sfida è così quella di prender sul serio quelle domande che ogni volta ci chiedono di allargare la ragione e di scoprire quanto sia vero che «Ci sono più cose in cielo e in terra […] di quante ne sogni la tua filosofia» (Shakespeare). La Chiesa, quanto più è appassionata a queste domande, quanto più invita l’uomo a viverle (“credenti” in primis), tanto più porterà ciascuno a verificare la pertinenza dell’annuncio cristiano ai bisogni concreti della vita: in che modo Cristo voglia realmente compiere le attese del cuore di ogni uomo. Il richiamo di Benedetto XVI a lasciarsi allargare la ragione, e il continuo invito di Papa Francesco ad entrare liberamente e seriamente in dialogo con le profonde domande dei nostri contemporanei, sono due dimensioni di quell’unica intelligenza della fede. Vengono così in mente le parole di Rilke: « Non cercare ora risposte che non possono venirti date perché non le potresti vivere. E di questo si tratta: di vivere tutto. Vivi ora le domande. Forse ti avvicinerai così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere un giorno lontano, la risposta».




L’uso del nome di Dio. Un dibattito parlamentare del 1947

0801je83di Andrea Drigani •Nel passato, e purtroppo anche nel presente, il nome di Dio è abusato con le bestemmie, le imprecazioni, gli spergiuri, addirittura con le violenze commesse profanando quel Nome e dissacrando la religiosità. Ma vi può essere un modo sconveniente, anche se non peccaminoso, di adoprare la parola «Dio» cercando di inserirla nella legislazione statale. La memoria di un dibattito parlamentare di settanta anni permette di riflettere su questo tema. Il 22 dicembre 1947 si svolse la seduta dell’Assemblea Costituente per l’approvazione definitiva della Costituzione della Repubblica Italiana. Prima della votazione finale il deputato democratico-cristiano Giorgio La Pira (1904-1977) presenta la proposta di un breve preambolo da far precedere al testo così concepito: «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione». La Pira motiva questa formula non come una professione specifica di fede, bensì come il riferimento ad una realtà superiore sulla quale, al di sopra di ogni questione politica, l’Assemblea concordemente e unanimemente poteva ritrovarsi. Il Presidente dell’Assemblea, Umberto Terracini (1895-1983), ricorda che il Comitato di redazione aveva deciso che non doveva esserci alcun preambolo alla Costituzione e quindi la proposta era da considerarsi inammissibile, soltanto l’unanimità o una grande maggioranza avrebbe potuto superare tale impedimento, ma il Presidente Terracini rileva, da sue notizie, come tale grande maggioranza è impossibile da raggiungere. Intervengono, quindi, i deputati comunisti Palmiro Togliatti (1893-1964) e Concetto Marchesi (1878-1957), che chiedono al deputato La Pira di ritirare la proposta che provocherebbe dissensi di origine ideologica e politica e non troverebbe un’ampia convergenza. Il deputato Marchesi annota che «qui nessuno può dire di essere contro Dio, perché non sarebbe un bestemmiatore, sarebbe uno stolto». Il deputato Piero Calamandrei (1889-1956), del Partito d’Azione, indica la possibilità di un altro preambolo: «Il popolo italiano consacra alla memoria dei fratelli caduti per restituire all’Italia libertà e onore la presente Costituzione». Il deputato liberaldemocratico Francesco Saverio Nitti (1868-1953), ex-Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo aver rammentato che nel Parlamento subalpino, in occasione dello Statuto Albertino del 1848, non vi furono cerimonie sacre speciali e anche dopo i Patti Lateranensi del 1929 le attività parlamentari non hanno dato luogo a funzioni religiose, dice : «L’idea di Dio è talmente grande e universale che non può essere materia di controversie politiche. Far discendere l’idea di Dio in un’aula parlamentare è umiliare la dignità dello spirito. Il nome di Dio non deve essere nominato in contrasti politici che non hanno nulla di grande». Il Presidente Terracini a conclusione della breve, composta e degna discussione chiede al deputato La Pira di ritirare la proposta, indipendentemente dall’inammissibilità. La Pira osservando che il presupposto da cui era partito, cioè il consenso unanime dell’Assemblea, non sussiste ritira la proposta, da lui formulata all’insegna della pace e dell’unità, per evitare pure che siffatta proposta venisse, invece, presentata da altri in modo da causare profonde divergenze. La decisione di non voler preamboli di nessun genere alla Costituzione, non sbarrò al passo a Dio, come qualcuno scrisse, perché l’ispirazione cristiana della Costituzione italiana rimane incancellabile e continua ad essere fonte di interpretazione del testo stesso. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, spiegando il secondo precetto del Decalogo, afferma al n. 2143 : «Tra tutte le parole della Rivelazione ve ne è una, singolare, che è la rivelazione del nome di Dio, che Egli svela a coloro che credono in Lui; Egli si rivela ad essi nel suo Mistero personale. Il dono del nome appartiene all’ordine della creazione e dell’intimità. Il nome del Signore è santo. Per questo l’uomo non può abusarne. Lo deve custodire nella memoria in un silenzio di adorazione piena d’amore. Non lo inserirà tra le sue parole, se non per benedirlo, lodarlo e glorificarlo»




Tettamanzi e Caffarra: due protagonisti nel dibattito della teologia morale cattolica del postconcilio

Dionigi_Tettamanzidi Gianni Cioli • Il Card. Dionigi Tettamanzi e il Card. Carlo Caffarra sono morti a un mese di distanza, il 5 agosto 2017 il primo e il 6 settembre il secondo. Accolgo volentieri l’invito della direzione del Mantello della Giustizia a ricordarli insieme.

Tettamanzi era nato nel 1934 a Renate, oggi in provincia di Monza, nell’arcidiocesi di Milano, Cafarra era nato nel 1938 a Samboseto, frazione di Busseto, in provincia di Parma e diocesi di Fidenza. Ad entrambi si deve riconoscere un ruolo di primo piano nell’ambito del dibattito teologico morale del postconcilio e, per certi versi, i percorsi delle loro rispettive vite possono essere interpretati come due storie simili parallele. Entrambi dopo l’ordinazione sono stati incaricati di insegnare teologia morale nelle rispettive diocesi (e mi caro rammentare che nel corso degli anni ’70 hanno insegnato anche allo Studio teologico fiorentino, su invito di don Enrico Chiavacci, succedendosi nella docenza di teologia morale familiare). Entrambi si sono segnalati per l’interesse verso tematiche morali relative al matrimonio, alla sessualità, alla bioetica, manifestando forte lealtà e sostegno al magistero pontificio, prima di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II, e collaborando con tutta probabilità anche alla stesura di alcuni documenti di quest’ultimo. Entrambi, dopo aver ricoperto importi incarichi a Roma nel corso degli anni ’80 (Caffarra in particolare fu chiamato a costituire e presiedere il Pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia), sono stati nominati vescovi (nel 1989, per l’arcidiocesi di Ancona-Osimo, Tettamanzi; nel 1995, per l’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, Caffarra). Entrambi sono divenuti infine cardinali (1998, in quanto arcivescovo di Genova, Tettamanzi che poi sarà arcivescovo di Milano dal 2002; nel 2006, in quanto arcivescovo di Bologna, Caffarra).

Non sono in grado di riassumere, né tantomeno di valutare il loro operato come pastori, e neanche penso sia possibile, nello spazio qui a disposizione, illustrare compiutamente e mettere a confronto il loro pensiero teologico.

Tuttavia, per cogliere un aspetto essenziale della loro visione morale, possono tuttavia fungere da cartina di tornasole le posizione emerse nell’ambito del dibatto sul cosiddetto compromesso etico, un tema che ho avuto modo di studiare in modo dettagliatamente.

Il concetto di compromesso etico, sviluppatosi nell’ambito della teologia luterana soprattutto negli anni ’50 del secolo scorso attraverso l’opera di Helmut Thielicke, ha richiamato l’attenzione della teologia morale cattolica a partire dalla conclusione del concilio Vaticano II. Fra coloro che ne hanno proposto la valorizzazione si distinguono in particolare il redentorista olandese Coenraad A.J. Van Ouwerkerk, e lo statunitense Charles E. Curran. Per questi autori il compromesso in campo morale può ricondursi all’idea che sia possibile ipotizzare una giustificazione oggettiva di comportamenti non conformi alle norme morali ereditate dalla tradizione, data la strutturale limitatezza umana prima del compimento escatologico.

All’indomani dell’enciclica Humanae vitae (1968), sotto la pressione ingenerata dalla necessità di affrontare pastoralmente il problema della praticabilità delle direttive ecclesiastiche sul controllo delle nascite, furono elaborate soluzioni non prive di spessore teoretico e affini alle riflessioni sul compromesso, sebbene non vi facessero esplicito riferimento. Senza mettere in discussione la validità della norma si prospettava la sostenibilità di decisioni divergenti, a motivo sia della concupiscenza quale limite alla libertà, sia della conflittualità, talora soggettivamente insostenibile, dei beni in gioco nella concretezza del vissuto. Ulteriori apporti alla comprensione e valorizzazione del compromesso etico nel contesto cattolico sono emersi negli anni ’70 e ’80 con gli di Klaus Demmer e di Helmut Weber.

Tuttavia, nel dibattito postconciliare, tale utilizzo, esplicito o implicito, del concetto di compromesso in ambito teologico morale ha sollevato varie critiche.carlo-caffarra-cardinale-arcivescovo

Tra le altre quella del gesuita Josef Fuchs, che ha ritenuto di poter ravvisare nelle teorizzazioni che vi facevano riferimento il soggiacere di una inadeguata teoria della norma. Dato che la morale normativa mira a fornire indicazioni per l’agire moralmente corretto, secondo Fuchs è necessario domandarsi se le norme operative che tutelano valori premorali abbiano sempre effettivamente l’ampiezza di validità che pretendono. In altre parole, non si dovrebbe pensare a un intrinsece malum, ovvero alla possibilità di atti intrinsecamente cattivi, quando ci si riferisce a norme operative concrete. A tale livello la norma veramente oggettiva, vale a dire adeguata alla realtà, può essere formulata solo in relazione alla situazione dal soggetto agente.

Anche Tettamanzi («Il compromesso in campo morale: una soluzione delle situazioni di conflitto?», Rivista del clero italiano 60 [1979], 948-960), in sintonia con altri autori come Ferdinando Citterio e Marcelino Zalba, ha messo decisamante in evidenza la problematicità dell’uso del termine “compromesso”, pur rifiutando radicalmente le posizioni espresse da Fuchs e da altri autori che ne condividono la sua linea. Anch’egli riconosce che nel caso di situazioni conflittuali, il problema reale è quello di definire nel modo più preciso la norma morale o dovere, ma in nome della densità dell’oggetto dell’azione come elemento primario della moralità e da una prospettiva diametralmente opposta a quella di Fuchs, vede un limite alla possibilità di ridefinizione della norma proprio nella necessità di riconoscere l’esistenza di un intrinsece malum, ovvero di atti intrinsecamente cattivi e di correlative norme proibenti, di fronte a cui non si profilano spazi per un possibile compromesso. Negare l’intrinsece malum, scrive Tettamanzi, «significa negare la struttura propria e nativa di una certa azione, o, che fa lo stesso, significa ritenere che l’uomo possa sempre e in ogni caso, inserire in una certa azione un “significato” piuttosto che un altro, o addirittura due diversi e contraddittori».

La riaffermazione dell’ordine morale oggettivo non comporta d’altra parte – riconosce Tettamanzi commentando alcune affermazioni della Familiaris consortio in materia di procreazione responsabile – la negazione delle situa-zioni personali difficili. Presupponendo che le difficoltà sono da risolversi secondo verità l’autore, sulla scorta dell’Esortazione apostolica, ribadisce però che non si deve confondere fra “gradualità della legge” e “legge della gradualità”.

Su questa linea si può collocare anche la riflessione di Caffarra il quale, riflettendo sulla peculiarità del ruolo della coscienza nell’agire morale, riconosce la possibilità di scelte non colpevoli soggettivamente o non gravemente colpevoli, pur essendo oggettivamente contro il valore, ma sottolinea tuttavia che si deve evitare un generalizzato giustificare le violazioni del valore, «in quanto questa generalizzazione sposta sostanzialmente il discorso che riguarda unicamente la mediazione operata dal singolo mediante il giudizio della propria coscienza». Generalizzare, afferma Caffarra, «è teologicamente scorretto, in quanto sarebbe ancora confondere il discorso sulla imputabilità con il discorso sulla moralità di un atto e quindi» – in rapporto alla dottrina della Humanae vitae – «pastoralmente dannoso perché la generalizzazione suonerebbe come un venir meno della testimonianza al valore della procreazione responsabile». («Alcune tesi teologiche in tema di “Procreazione responsabile”», in S. Cipriani (ed.), Evangelizzazione e matrimonio, Napoli 1975, 147). Si comprende perciò come in questa linea risulti problematica una teorizzazione del compromesso.

Certo, analoghi presupposti teoretici non sempre hanno portato a conclusioni del tutto sovrapponibili, soprattutto nella prospettiva delle soluzioni pastorali. È noto, se consideriamo i fatti più recenti, il differente genere di accoglienza che i due cardinali hanno palesato nei confronti dell’esortazione Amoris laetitia di papa Francesco. Un confronto approfondito fra le loro linee di pensiero è forse, per il momento, prematuro, ma certo, non ostante parallelismi e analogie profonde nelle loro vite e nei loro insegnamenti, si può dire che entrambi sono stati personalità notevoli ma molto differenti, sia come teologi che come pastori.




Bontadini-Severino e…Agostino: disputa sull’essere e l’apparire

emanuele-severino-questionario-proust-sliderdi Dario Chiapetti L’essente è eterno o caduco? E il divenire è un uscire degli essenti dal nulla e ritornarvi o l’apparire degli eterni? Attorno a questi interrogativi si è svolto il dibattito tra due delle più rilevanti figure della filosofia contemporanea, Gustavo Bontadini (1903-1990) e Emanuele Severino (1929), di cui ora vengono offerti al pubblico i momenti più significativi. L’essere e l’apparire. Una disputa (G. Bontadini – E. Severino, Morcelliana, Brescia 2017, 79 pp.) raccoglie i quattro scritti del confronto durato più di trent’anni e che riassumono gli aspetti della discussione nelle loro elaborazioni più mature.

La disputa tra i due pensatori ebbe inizio con la pubblicazione del noto saggio di Severino «Ritornare a Parmenide» in Rivista di filosofia neoscolastica nel 1964. In esso l’Autore mostrava la necessità che ogni essente fosse eterno. Spieghiamo brevemente. Tale dimostrazione si basa sul principio di non contraddizione parmenideo – l’essere è e non può non essere – ma non nella comprensione che ne aveva offerto Aristotele – “è necessario che l’essere sia quando è e che il non-essere non sia quando non è” – ma secondo la prospettiva platonica secondo cui il divenire, inteso come il venire dal nulla e il tornare dal nulla, non appare affatto per cui non è in alcun modo evidente. Il principio parmenideo esprime invece, secondo Severino, l’opposizione assoluta tra essere e non-essere per cui ogni essente è, in modo assoluto, opposto al nulla e non può darsi né un tempo né uno stato in cui tale ente non sia. Da tale principio se ne deriva quello per cui il divenire dell’esperienza è da intendersi come l’apparire degli eterni. Ma, scrive Severino, «la gran questione è che altro è che tale principio sia noto, altro è che se ne veda l’estrema potenza – e, insieme, l’estrema follia. Giacché si tratta di capire che quel che Parmenide afferma dell’“essere”, va invece affermato di ogni essente». Ora, come sostiene Bontadini – che accoglie il principio di Parmenide e ammette il divenire nel senso nichilistico(provenienza dellessente dal nulla e suo ritorno al nulla), quello che per Severino rappresenta la «pazzia di Dio» – «l’atto creatore non è qualcosa che sia originariamente diverso dalla realtà diveniente, che le sia estraneo: anzi è più intimo a essa che non essa a sé medesima. Il divenire non è niente che è fuori dell’atto creatore, il quale pone e toglie, “suscita e atterra”». Se per Bontadini Dio non è un «tappabuchi», Severino mostra come la prospettiva del suo maestro dica esattamente il contrario: «è proprio Bontadini a dirci che i buchi (cioè il “non essere dell’essere”, la “ferita della negatività”) è “Dio” e non il nulla a farli». A ben guardare, per Bontadini, l’aspetto di Annullatore proprio di Dio sana la contraddizione inoculata dal non, dal negativo, per cui «quell’andare nel nulla (e similmente il venire dal nulla!) che risulta sul piano fenomenologico è risolto nel far andare nel nulla (e similmente nel trarre dal nulla), che è, in quanto fare, un positivo. Il negativo fenomenologico è un positivo metafisico». Pare proprio questa la questione. Severino critica a Bontadini di sostenere che «se qualcosa – un eterno! – esce dall’esperienza, allora è venuto meno (= andato nel nulla)». L’obiezione è formulata correttamente e rivela il punto insuperabile di avvicinamento delle due posizioni: quello che è un negativo contraddittorio per Severino è un positivo effettivo per Bontadini.

La discussione è certo stimolante. Mi sembra che la questione dell’essere e del non essere, della distinzione e dell’alterità, celi la questione ancor più profonda di come concepire l’essere stesso: e qui l’ontologia che scaturisce dalla rivelazione cristiana ha da offrire il suo contributo.gustavo-bontadini-102348

Agostino d’Ippona, a partire da quellesperienza personale di Luce che, purificando il suo sguardo, lo ha orientato dinamicamente verso la fonte di tale Luce, la Verità, è stato uno dei primi a comprendere che tale esperienza, e il conseguente sforzo di intelligere il dato dogmatico di fede a cui egli si è abbandonato in obbedienza ad essa, conduceva ad una comprensione dell’essere come dinamica d’unità tra distinti, le Persone divine. Ora, una simile prospettiva si oppone certo alla negazione di ogni predicazione d’alterità del Parmenide di Platone o del neoplatonismo di Plotino: essa rappresenta, secondo J. Ratzinger, «un’autentica rivoluzione del quadro del mondo […] il superamento di ciò che chiamiamo oggi “pensiero oggettivante” […] un nuovo pensiero dell’essere».

Allora se, come sostiene Severino, «tutto è eterno», in un’ontologia, così come può essere colta dalla rivelazione divina, l’eternità di ogni essente è proprio quel «positivo metafisico» che passa attraverso il «negativo fenomenologico» bontadiniani. Ora, ogni essente è eterno in virtù proprio della croce/risurrezione di Cristo: atto eterno in quanto divino, storico in quanto eterno (l’apparire delleterno severiniano), e spazio in cui ogni essente continuamente scompare per il suo continuo darsi/consumarsi e continuamente appare per il suo continuo riceversi dal Padre per mezzo dello Spirito (è questo nient’altro che il dinamismo vitale del cristiano che trova nella logica sacramentale, e in particolare battesimale, la sua massima realizzazione). Quindi, ancor di più, se il divenire è l’apparire degli eterni, tale divenire non afferisce al solo aspetto fenomenologico ma trova a livello ontologico la sua condizione di possibilità: il ‘divenire’ in quanto dinamismo del – come formulerà in seguito A. Rosmini – «dare tutto»/«ritenere tutto» è costitutivo dell’eternità degli eterni. È questa la prospettiva che apre la “rivoluzione metafisica” di cui Agostino è uno dei pionieri: alterità e relazione sono nozioni ontologiche che dicono l’unità, l’eternità e l’immutabilità dell’essere, del Dio “amante”, “amato” e “amore”, e di ogni essente nella misura in cui esso si dà ontologicamente – e non solo intenzionalmente – all’essere, fino a ontologicamente da questo riceversi.




Due libri sui Parroci di oggi

DEF_Il_signor_parroco_ha_dato_di_matto.indddi Giovanni Pallanti • In una Parrocchia francese il Parroco viene assalito da una valanga di piccole beghe che lo distolgono dalla sua missione sacerdotale: celebrare la Messa e confessare i peccatori. Questa è in estrema sintesi la trama di un piccolo capolavoro sullo status della Chiesa e sul ruolo dei preti nel mondo di oggi. Si tratta di un romanzo di Jean Mercier “Il Signor Parroco ha dato di matto” Ed. San Paolo pagg.141, 2017.

Jean Mercier è uno scrittore che per campare fa il giornalista nell’importante settimanale francese “La Vie”. Mercier riesce a raccontare con estrema leggerezza un tema complesso e drammatico: descrive la crisi dei Sacerdoti che quando vengono nominati Parroci si trovano spesso immersi in un mare di piccole liti tra volenterosi frequentatori della Parrocchia, che non avendo nulla di buono da fare si litigano su tutto: come organizzare il coro, cosa cantare nelle Messe domenicali, come sistemare i fiori in chiesa, etc. Il tutto intrecciato agli aspetti caratteriali delle singole fedeli che in modo particolare tirano fuori le loro bizze e ansie di donne che segretamente, e con discrezione, se non proprio innamorate, ricercano per se stesse, e solo per se stesse, l’attenzione del Parroco. Don Beniamino Bucquoy, il protagonista di questa storia emblematica, spera che il suo Vescovo Jean Philippe Vignon lo tragga fuori dall’insopportabile situazione che si è creata nella sua Parrocchia. Essendosi addottorato con molta fatica Don Beniamino aspetta da un momento all’altro di essere chiamato ad insegnare in Seminario. Succede invece che Monsignor Vignon chiama a questo incarico un altro Prete amico di Don Beniamino. La nomina ad insegnante di don Julien determina l’impazzimento di Don Beniamino, stressato da una logorante esperienza in Parrocchia e vista cadere la speranza di diventare insegnante del Seminario della sua Diocesi, Beniamino fa una scelta radicale: si rinchiude in una vecchia baracca abbandonata nel grande giardino della sua Canonica. Per non essere disturbato mura la porta d’accesso affinché nessuno vada a trovarlo in questo suo eremo.

I parrocchiani cominciano a cercarlo. Il Vescovo Vignon si mette in contatto col Sindaco del paese dov’è la Parrocchia di Don Beniamino, si mobilita la gendarmeria, ma nessuno lo trova. La fuga di Don Beniamino, che tutti immaginavano chissà dove, si era fermata a pochi passi dalla Canonica in cui egli risiedeva. Per questa ragione nessuno lo trovava. Passando vicino a questa cassa semidiroccata una vecchia parrocchiana sente Don Beniamino celebrare la Messa, si avvicina e scambia con il Parroco “murato” come un mistico del Medioevo, alcune parole, che la signora crede provengano dal Paradiso. Si diffonde la voce, quindi, che Don Beniamino è vivo dentro una cella murata. Tutti i giornali e le televisioni francesi vanno intorno alla casa-cella di Don Beniamino e lo intervistano tramite una piccola fessura nel muro. Il Vescovo Vignon gli proibisce di rilasciare interviste in attesa di poterlo liberare dal muro e dal cemento dietro il quale don Beniamino si è barricato. Potrà parlare con gli estranei solo se essi vorranno confessarsi. Così in migliaia, vanno a chiedere perdono a Cristo tramite l’intercessione del Sacerdote Beniamino facendo, così, diventare il Prete murato il simbolo del confessionale come in passato lo era stato il Santo Curato d’Ars.

Dopo 40 e passa giorni il Sindaco del Comune ordina di aprire un varco nella tana in cui si è rinchiuso il Parroco, che nel frattempo ha raggiunto una notevole pace spirituale e ritrovato il senso profondo della sua ordinazione sacerdotale. Per liberare Don Beniamino cominciano a demolire la baracca, che all’improvviso crolla sul povero Prete. Don Beniamino estratto in coma rimane privo dell’uso delle gambe. Quando ormai si è rassegnato a dirigere un ospizio di vecchi Preti che lui mobilita come confessori in servizio permanente effettivo per il popolo di Dio, arriva il colpo di scena: il Nunzio Apostolico in Francia comunica a Don Beniamino che il Papa lo nominerà Vescovo di una piccola e povera Diocesi francese, dove il Clero è composto da pochi vecchi Preti fisicamente malandati. Don Beniamino sorpreso sembra volere rifiutare la nomina episcopale. Il Nunzio Apostolico gli dice che proprio il suo handicapp e la sua debolezza saranno la sua forza: questa è la vera testimonianza cristiana che si contrappone al mondo dei ricchi, dei privilegiati e di coloro che pensano di aver tutto ed in realtà non hanno niente. Un romanzo questo di Jean Mercier da leggere utilmente per i preti e per i laici, senza annoiarsi o intristirsi perché questa storia è raccontata con grande leggerezza ed eleganza. Leggerezza ed eleganza di visione del mondo che dovrebbe essere la sostanza della vera fede cristiana.

download (3)Sullo stesso tema ha scritto un libro l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini dal titolo “Con il dovuto rispetto, frammenti di saggezza all’ombra del campanile” Ed. San Paolo pagg.151, 2017. Il libro di Monsignor Delpini è composto da una serie di bozzetti di vita parrocchiale dove si ritrovano i soliti noti personaggi che spendono la loro vita più che per amore della Chiesa, a dar noia al Parroco. Tutti animati, forse, da buone intenzioni, ma tutti, o quasi, pronti a scaricare problemi di ogni genere sulle povere spalle del loro Prete. Monsignor Delpini dimostra di avere, avendo scritto questo libro, una profonda conoscenza della vita della Chiesa e anche una notevole dose di ironia e pazienza nel descrivere i difetti e qualche virtù del popolo di Dio. Come nel romanzo di Jean Mercier, Monsignor Mario Delpini, tratta gli stessi argomenti con una penna anch’essa intinta nell’ironia, ma che non riesce a sottrarsi ad un bozzettismo di maniera, tipico di certe scene raccontate nei romanzi di Guareschi, con protagonista Don Camillo, e i famosi aneddoti del Pievano Arlotto. Tutti e due questi libri sono da leggere ma, per quanto mi riguarda, a chi non ha molto tempo a disposizione per questa salutare attività, come spesso capita ai Preti e ai laici, consiglio di leggere per primo il libro di Mercier.

Don Matteo Prodi (nipote di Romano Prodi), Parroco della Diocesi di Bologna, recentemente dimessosi da Parroco, in polemica con i suoi parrocchiani accusati di averlo stressato, se avesse letto questi due libri probabilmente non si sarebbe dimesso e avrebbe sopportato lo stress.