Presentazione degli articoli del mese di dicembre 2019

giorgione_adorazione-pastori_natale_due-minuti-arteAndrea Drigani a seicento anni dalla morte di Baldassarre Cossa, l’antipapa Giovanni XXIII, con il volume di Mario Prignano, riflette su una pagina drammatica ma fondamentale della storia della Chiesa, per comprenderne il suo mistero: sintesi del divino e dell’umano. Giovanni Campanella presenta il libro-intervista di Monica Mondo ad Arnoldo Mosca Mondadori sull’ dell’Eucaristia, che non è un trattato di teologia sacramentaria, bensì un insieme di suggestioni e di riflessione personali (forse anche boder line) su questo grande sacramento. Carlo Parenti annota sul discorso del Papa al XX Congresso Internazionale di Diritto Penale in particolare laddove rileva il dovere di contrastare la macrocriminalità delle corporazioni finanziarie multinazionali in danno della proprietà, delle persone e dell’ambiente. Francesco Vermigli invita a contemplare nell’Immacolata Concezione il segno della «pre-destinazione» dell’uomo alla salvezza, predestinazione al bene nell’orizzonte dalla volontà di Dio che vuole la salvezza di ogni persona, al di là di ogni suo merito. Alessandro Clemenzia riporta l’incontro di Francesco con la Comunità Accademica dell’Istituto Universitario Sophia, con l’invito a riandare alla radici della fondazione, per proiettarsi sapienzialmente verso quell’umanità dove tutto è in relazione con tutto, dove Dio è già presente. Giovanni Pallanti recensisce il libro di Marco Follini sulla storia della DC, osservando come la scelta di Giovanni Battista Montini, il futuro San Paolo VI, per un partito unico dei cattolici democratici rese possibile una presenza politica significativa, fortemente ridimensionata dall’attuale dispersione. Antonio Lovascio richiama gli interventi del Papa sullo sport, grande scuola che insegna il valore di regole e di limiti, nel quale, purtroppo, si sono infiltrate gravi forme di illegalità e di disordine, di qui la necessità di rispondere con una vasta opera formativa. Stefano Liccioli partendo dal film «Una canzone per mio padre», recentemente uscito nella sale cinematografiche, prende lo spunto per affrontare due questioni: la figura del padre e il problema dell’alcol, che si devono inserire in una grande e urgente prospettiva pedagogica. Francesco Romano svolge alcune considerazioni, alla luce della tradizione canonica, sul diritto primordiale dei battezzati di ricevere la parola di Dio e sua volta di donarla. Leonardo Salutati rammenta, secondo le prescrizioni della nostra Costituzione Repubblicana, il dovere del cittadino di pagare le tasse e l’altrettanto fondamentale dovere di buona amministrazione delle risorse da parte delle autorità politiche. Mario Alexis Portella relazione sull’Iran, uno stato islamico-sciita con presenze di cristiani e di ebrei, che si trova in gravi problemi economici, il cui regime autoritario confessionale non sembra scalfito anche per la tolleranza di alcuni Paesi tra cui la Russia e la Cina. Dario Chiapetti introduce alla lettura di una raccolta di articoli pubblicati, sul quotidiano «Avvenire», dal teologo e scrittore ortodosso francese Olivier Clement, di cui ricorre il decennale della scomparsa, dedicati all’ecumenismo, all’Europa e alla spiritualità. Stefano Tarocchi dalla descrizione del giudizio universale (Mt 25,31-46), il più grande giudizio di Dio sulla storia, constata, tra l’altro, che mentre le «follie umane» fanno molto rumore, la «follia evangelica» rischia spesso di essere messa sotto silenzio. Carlo Nardi ripercorre la storia dell’interpretazione, difficile ma affascinante, del Cantico dei Cantici per concludere col pensiero di Emmanuel Mounier per il quale l’amore umano insegna molte cose riguardo alle vie dell’amore di Dio.




L’intero popolo di Dio è responsabile della genuina conservazione del deposito della fede

cq5dam.thumbnail.cropped.750.422di Francesco Romano • Il depositum fidei, affidato dal Signore alla Chiesa è la parola rivelata da Dio contenuta nelle fonti della Rivelazione. Esso deve essere custodito nella sua integrità e autenticità e interpretato autenticamente dal solo Magistero della Chiesa (DV n. 10). Al divino deposito appartengono anche tutti i mezzi di salvezza, soprattutto i sacramenti (can. 841).

Il diritto di ogni fedele di ricevere la parola di Dio, integralmente e autenticamente, è un obbligo di giustizia intraecclesiale: «Nel ministero della parola, che deve fondarsi sulla sacra Scrittura, la Tradizione, la Liturgia, il Magistero e la vita della Chiesa, sia integralmente e fedelmente proposto il mistero di Cristo». (can. 760).

Si tratta di un diritto che, ovviamente, non trova in Dio il corrispettivo obbligo giuridico di adempimento. Il diritto deriva dalla libera iniziativa di Dio di donare all’umanità, e in particolare al battezzato, la parola rivelata.

Il dono della parola data diventa diritto primordiale per il battezzato di riceverla e a sua volta di donarla. Tale diritto si fonda, appunto, su questa iniziativa divina di destinarla in possesso dell’intero suo Popolo.

Il rapporto tra Gerarchia e fedeli non si identifica propriamente come il corrispettivo dovere di “somministrazione”, ma come servizio che regola tale diritto di possesso sia nelle sue funzioni specifiche, come Magistero autentico, che nei rapporti giuridici intraecclesiali, rendendo concretamente attuale il principio di comunione.

Il diritto di ricevere la parola di Dio si traduce in molteplici doveri di adempimento della sua esigibilità. Senza la conoscenza della parola di Dio, anche solo a livello molto elementare, non è possibile adempiere alcun obbligo nella Chiesa. Pertanto, al diritto di conoscere la parola di Dio corrisponde per il fedele il dovere di impegnarsi ad apprenderla e di preoccuparsi della propria formazione cristiana. Condizione fondamentale, questa, per accedere ai sacramenti, per assumere svariati compiti e ministeri nella Chiesa, ecc. ecc.

La negazione di questo diritto può scaturire dall’insegnamento di dottrine attribuite erroneamente a Cristo, o dall’ostinata negazione o dubbio di verità che si devono credere per fede divina o cattolica, o dalla propalazione di pareri personali presentati come verità, soprattutto da parte di chi ha una specifica responsabilità e gode di una credibilità che gli deriva dal contesto ecclesiale in cui opera o è accreditato.

L’unità e l’integrità sono proprietà essenziali dalle quali il depositum fidei non può prescindere. Potremmo dire che come la parte sta al tutto, in modo essenziale e funzionale, ogni singola parte della parola di Dio non è indipendente né separabile per gli effetti che si riverserebbero sull’unico sacro deposito. San Giovanni Paolo II nell’Adhortatio apostolica Catechesi tradendae, scriveva: «Colui che diventa discepolo di Cristo ha il diritto di ricevere la “parola della fede” non mutilata, non falsificata, non diminuita, ma completa e integrale, in tutto il suo rigore, in tutto il suo vigore. Tradire in qualche cosa l’integrità del messaggio significa svuotare pericolosamente la catechesi stessa e contemporaneamente i frutti che il Cristo e la comunità ecclesiale hanno il diritto di aspettarsi» (cf. EV, vol. 6, n. 30, p. 1221).san_giovanni_paolo_ii

Il deposito della fede è un unicum nella sua autenticità e integrità in cui si possono distinguere, ma non dividere, le varie parti. Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero sono elementi in stretta relazione perché l’unico deposito della fede che costituisce la Parola di Dio, nella forma scritta o tramandata, «affidata da Cristo e dallo Spirito Santo agli Apostoli, viene trasmessa integralmente dalla Sacra Tradizione ai loro successori» (DV n. 9).

L’esperienza pastorale nel dialogo ecumenico o nelle catechesi, può richiedere una gradualità nella comunicazione del messaggio secondo l’insegnamento del Decreto sull’Ecumenismo, Unitatis redintegratio: «Insieme, la fede cattolica deve essere spiegata con più profondità ed esattezza, con quel modo di esposizione e di espressioni che possa essere compreso bene anche dai fratelli separati» (cf. UR, in EV, vol. 1, n. 11, p. 307). Va comunque preservata la totalità dell’insegnamento delle verità della dottrina cattolica che ogni fedele ha diritto di ricevere integralmente (can. 760).

Il diritto dei fedeli di ricevere dai sacri Pastori la parola di Dio è congiunto al diritto di ricevere i sacramenti (can. 213).

La piena comunione si realizza nella compagine visibile dell’unione a Cristo mediante il ministero dei tria munera a favore dei fedeli che sono a Lui congiunti con i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico (can. 205).

Il munus docendi e il munus sanctificandi partecipano inscindibilmente all’opera della salvezza, soprattutto in relazione ai sacramenti. È la parola che costituisce la forma sacramentale, ed è attraverso la parola che avviene l’evangelizzazione e la preparazione a riceverli (can. 843 §2).

Parola e sacramenti appartengono al divino deposito che la Chiesa tutela, anche con sanzioni penali, attraverso l’esercizio del munus regendi dei sacri Pastori per la salvaguardia dell’autenticità della parola, della sua trasmissione, per la valida e lecita celebrazione dei sacramenti.

La dottrina proclamata dai sacri Pastori nel Magistero autentico ha per contenuto la fede e i costumi (cann. 747; 752). Questo inscindibile rapporto contrassegna la profondità dell’azione salvifica della parola che non veicola solo un insegnamento astratto da consegnare, ma deve inserirsi concretamente in ogni ambito della vita umana e da essa ripartire: «è compito della Chiesa annunciare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigono i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime» (can. 747 §2) Non a caso, a questo proposito, il can. 229, esplicitando il can. 217, dichiara il diritto dei fedeli laici di acquisire la conoscenza della dottrina cristiana «in modo adeguato alla capacità e alla condizione di ciascuno» per essere in grado di viverla, ma anche poter essere resi partecipi del munus docendi di annunciarla e difenderla.

Parola e mezzi di salvezza, oggetto degli atti magisteriali, sono un dono di Dio che la Chiesa riceve non solo come deposito della fede da trasmettere con l’annuncio, ma anche come compito per la custodia di quanto le viene consegnato in deposito.

La responsabilità per la genuina conservazione del deposito della fede coinvolge, oltre al Magistero, l’intero Popolo di Dio, in quanto il vincolo di comunione nella Chiesa è un obbligo per ogni singolo fedele (can. 205). Il comune assenso in cose di fede e di morale da parte dei fedeli, di tutto il popolo di Dio dai Vescovi fino all’ultimo dei laici, per l’unzione dello Spirito Santo, non può sbagliarsi nel credere (DV n. 12).

Ogni fedele potrebbe rappresentare un rischio per la fede altrui nel mantenere comportamenti fuorvianti da contraddire la sua identità cristiana e nel dare una testimonianza non veritiera circa la fede e i costumi di cui lui stesso dovrebbe farsi annunciatore e strumento di conoscenza per «tutti gli uomini che sono tenuti a ricercare la verità nelle cose che riguardano Dio e la sua Chiesa e, conosciutala, ne sono vincolati in forza della legge divina e godono del diritto di abbracciarla e di osservarla» (can. 748 §1).




C’è del marcio nello Sport. E Papa Francesco insegna come combatterlo

000494E8-papa-francesco-e-carlo-tavecchiodi Antonio Lovascio • Ricevendo in Vaticano campioni e dirigenti di tutte le discipline, Papa Francesco non perde occasione per dire che lo sport è una grande scuola che insegna il valore di regole e limiti. Un momento di crescita, di impegno e di aggregazione sociale. Lo ripete con forza, anche perché sempre più si scopre che anche qui c’è del marcio. A partire dal razzismo negli stadi, per contrastare il quale urge una battaglia soprattutto culturale, che la maggior parte dei club non vuole combattere, pur avendone gli strumenti. Per non parlare di riciclaggio di denaro sporco, infiltrazioni di cosche nelle tifoserie organizzate, corruzione per appalti di opere connesse ai grandi eventi sportivi, match fixing, scommesse clandestine, doping, sfruttamento degli animali. Insomma molteplici sono le forme di illegalità che si manifestano, come documentano le numerose inchieste giudiziarie che si sono susseguite negli ultimi anni.

E’ giusto che la Chiesa se ne occupi, per non venire meno alla sua missione educativa. Secondo recenti dati Istat oltre 20 milioni di persone sopra i tre anni praticano uno o più sport con continuità (24,5%) o saltuariamente (9,8%): L’incidenza dei praticanti sulla popolazione di 3 anni e più, è pari al 34,3%. Ginnastica, aerobica, fitness e cultura fisica attirano oltre 5 milioni di italiani (il 25,2% degli sportivi), contro i 4 milioni e 642mila del calcio, il più diffuso tra gli under 35. Il nuoto è lo sport più praticato dai bambini fino a 10 anni (43,1%).

Secondo un approfondimento di Eurispes, non esiste una disciplina sportiva immune rispetto al pericolo di condotte illecite. Né è possibile discriminare tra attività professionistiche e dilettantistiche, essendo anche queste ultime oggetto di interesse soprattutto della criminalità organizzata. Tutte le mafie hanno mostrato un certo interesse in particolare per il mondo del calcio sia in Italia che nei campionati stranieri. Tanto che organizzazioni criminali prive di scrupoli riciclano ingenti capitali, tendono a controllare la rete delle scommesse, si insinuano nella gestione degli impianti sportivi e nelle tifoserie, alla ricerca del consenso sociale, controllano il mercato delle sostanze dopanti e, attraverso le loro imprese, si infiltrano negli appalti delle grandi opere pubbliche.0005415D-razzismo-negli-stadi

Il mondo dello sport, soprattutto quello professionistico, ha visto crescere in modo esponenziale la sua dimensione economica: ingaggi milionari, sponsorizzazioni miliardarie e una vera globalizzazione delle più rilevanti competizioni, hanno moltiplicato i numeri degli investimenti anche da parte di imprenditori e società finanziarie venuti dalla Cina e dall’America, alla ricerca di profitti. A fronte di ciò, manca una vera regolamentazione giuridica del settore che abbia i caratteri della robustezza, richiesta da simili quantità e grandezze economiche.

Ma le regole non bastano. Ci vuole un’azione formativa che promuova appunto lo sport come momento di educazione, di crescita, di aggregazione sociale. Una funzione in passato svolta capillarmente dagli oratori (poi spariti) che le parrocchie più fortunate, appena ne hanno i mezzi, ora cercano di ricostituire. Ricordando questo prezioso impegno, Papa Francesco parlando ad una delegazione del CSI (ed indirettamente a dirigenti, agli allenatori, ai genitori, alle famiglie) ha sottolineato che “lo sport è una grande scuola a condizione che lo si viva nel controllo di sé e nel rispetto dell’altro, in un impegno per migliorarsi che insegni la dedizione e la costanza, e in un agonismo che non faccia perdere il sorriso e alleni anche ad accettare le sconfitte”. Il Papa esorta ad essere padroni, non schiavi dei propri limiti. Una grande lezione se lo sport ci aiuta ad affrontare anche la fatica quotidiana dello studio e del lavoro, come pure le relazioni con gli altri. Soprattutto se riesce ad eliminare il marcio che purtroppo ha in sé , può essere un grande fattore di coesione. Ne abbiamo bisogno.




Cantico dei cantici. Miei pensieri

Morelli, Domenico (1823-1901) - Il cantico dei cantici, 1890di Carlo Nardi • C’è in me una certa trepidazione nel far leggere il Cantico dei cantici a giovanottelli, talora fidanzatini, ma anche a prossimi al sì. Infatti mi domando che cosa penseranno di quel poemetto tutto speciale tra gli scritti sacri. Non credo, però, che pioni o baccalà, come si diceva, si scandalizzino in merito. Piuttosto l’edificante scrittura biblica potrebbe condurre, al di là degli intenti dei biblisti, allo sghignazzo della parodia? E che sia il caso di giovinetti di fronte a una specie di Nencia da Barberino con i suoi «occhi tanto rubacuori, / che la trafiggere’ con egli un muro»? Autore il birboncello niente meno Lorenzo il Magnifico (str. 5,1-2, in Poesie, a cura di L. Sanguineti, Milano 2002, p. 58. cf. pp. 57-63)? In realtà, non ho mai percepito situazioni incresciose.

Ma i Padri dell’antichità ci possono dire qualcosa? Nilo di Ancira, monaco del quarto secolo, era preoccupato: che una lettura del Cantico fosse fomite di pericolose concupiscenze al punto di ritrovarsi di fronte ad una canzonaccia, salve le interpretazioni teologiche e morali (Commentario al Cantico prologo 1: Sources chrétiennes [SCh] 403,112-114)?

Gregorio Magno (520 circa – 604, papa dal 598) prende altre vie. È chiaro che ‘poppe’ e ‘cosce’ del Cantico suscitavano ben diversi significati. Il papa però, con serena consapevolezza, mirava a convertire, per così dire, i ‘bollenti spiriti’ in ‘casti pensieri e santi desiderj’. Anche Gregorio temeva l’irrisione della lettera. Tuttavia, se la veneranda Pagina parlava di ‘gote’ e di ‘mammelle’, e di calientes ‘baci’, il pontefice si affrettava a difendere, a mo’ di teodicea, la gran ‘misericordia d’Iddio’. E il santo Padre ci dice il perché: l’Onnipotente, «per pungolare il nostro cuore ad amare l’amor sacro, fa sì che l’uomo si interessi anche di espressioni del nostro amore turpe (turpis amoris nostri)» (Esposizione al Cantico dei Cantici 3. cf. 1-4: SCh 314,70. cf. 68-76). Ossia non proprio da novizi? Anche se, per i nostri ragazzi, di ‘turpe’ c’è ben poco, ovvero di ‘brutto’. Tant’è che il turpis latino è un che di tipo estetico, come dire la pinguedine ad una certa era.

Eppure la Bibbia ha meno preoccupazioni dei suoi intrepreti. I padri della fede ventura mettevano le mani proprio su certe parti allo scopo di solennizzare moralmente in rapporti di eredità (cf. Gen 24,2). Del resto non si sente dire: Ci rimetterei …!? E si capisce dove e perché, e con debiti scongiuri (o meglio indebiti) per un supplemento di vitalità.

E ancora: «dalla coscia di Giacobbe», de femore Iacob nella versione Vulgata, «erano uscite settanta vite» umane tra figlioli e nipoti e nipotini. Infatti erano entrarti in Egitto per raggiungere Giuseppe, fratello o zio, il quale, come si sa, s’era fatta una bella posizione. Insomma ‘coscia’ quella del patriarca, la quale proprio ‘coscia’ non doveva essere stata (Es 1,5).cantico_cantici

Ma ci sono altri pensieri. Il senso morale, la distinzione tremendamente umana fra bene e male con i relativi dettami di un’aperta coscienza e d’una legittima legge, non può venire meno in questioni di sesso: a meno che si sguazzi nello squallore del lupanare. Invece, ben diversa è la turpitudine dal semplice parlar di pudenda.

Difatti il padre Adamo e la madre Eva «erano nudi e non ne provavano vergogna» (Gen 2,25). E mi dispiace che nei libri liturgici quest’ultimo stico non appaia. È chiaro che in chiesa si può opportunamente promulgare qualcosa di più di quel che è strettamente dovuto. Però con la lettura pubblica di Genesi 2,25 si sarebbe dato ai fedeli ulteriori motivi per fugare l’antica ‘eresia del male’, e sempre pullulante: intendo lo gnosticismo, come fosse ‘uno, nessuno e centomila (C. Nardi, Vangeli apocrifi. Testi tendenziosi: la produzione gnostica, in Apocrifi del Nuovo testamento, a cura di Anna Lenzuni, Bologna 2004, pp. 65-109)

Ci conferma invece la dottrina della Gaudium et spes (47-51) e dei papi seguenti con enclitiche e insegnamenti: il cristallino Paolo VI, il pacato e felice catechista Giovanni Paolo II, Benedetto XVI nel rapporto tra carità ed eros, e papa Francesco dai molti bagliori d’amore (cf. C. Nardi, Dal tedescoTaufe’. Tuffi e battesimo tra estetica ed etica, in Giornale di Bordo di storia, letteratura e arte terza serie 38 [2015], pp. 21-28).

E tutto nel Cantico esprime splendori. Lui si compiace del corpo di lei, come Adamo di fronte ad Eva e viceversa, e insieme agli amanti scendono e salgono con i loro corpo (Ct 2,25) per farsi ancor più luminosi grazie a risorse d’amore. E in particolare ecco le protuberanze di lui (Ct 5,8-16), come quelle d’un Ganimede (Ganymédes), appunto ‘dalle splendide membra’, effettiva etimologia gánysthai e médea, che Senofonte proprio nel rifiutare, sembra convalidare (Simposio 8,30): è l’attuazione dei sinonimi ‘fallo’ greco e ‘fascino’ latino (Petronio 92,9). E poi i misteriosi e conturbanti segreti di lei (Ct 4; 6,3-8; 7,1-8), come la ridanciana Baubò che, tirandosi su la veste, aveva suscitato una liberante risata, forse inventando la danza del ventre (Apollodoro, Bibliotheca I,5,30).

Il Cantico sembra darne conferma: per lei è lui, perché è «scelto (bâhûr) tra i cedri», è un ‘fusto’ più di ogni altro (Ct 5,15), «vessillato (dâgûl) tra migliaia» (Ct 5,10), con un «vessillo» tutto «suo» (diglô) (Ct 2,4), ‘vessillo’ (degel) che si staglia tra immagini arboree: uno ‘stendardo’, ma del tutto speciale, come si può capire. E c’è, ipotetico, un altro coetaneo «scelto» (bâhûr) per relazioni sociali e sessuali, e per godersi saggiamente la vita al cospetto di Dio: è invito di un senescente, ma non invidioso delle gioie di un ragazzo (Ecclesiaste 11,9) (cf. G. Ravasi, Qohelet, Cles [Trento] 1997, pp. 335-339; L. Mazzinghi,Gioisci, giovane, nella tua giovinezza!’ Il libro del Qohelet e la gioia del vivere, in Parola, spirito e vita 44 [2001], pp. 41-54; Id., ‘Ho cercato e ho esplorato’. Studi su Qohelet, Bologna 2001, pp. 276-281). Ben dotato è anche il «giovane scelto», perché «scelto» (bâhûr) alla comunità e alla milizia, che, secondo Isaia, «possiede una ragazza (betûlâh)», ‘inabitandola’, come traducono i Settanta. «Sposo, gioisce sopra (‘al) la sposa» in un esaltante amplesso. Il giovanotto sui vent’anni, per così dire abile e arruolato, capace com’è di ‘inabitare’ una ragazza, è da figurarselo più pronto che mai per una ‘milizia d’amore’ (Is 62,5. cf. 4), come nella travolgente Lisistrata di Aristofane (3-24.99-101.124-148.830-966.1275-1256) (C. Nardi, Eros: coazione a ripetere o libero dono. Patristica tra mito e logos, in Vivens homo 13 [2002], pp. 229-257; cf. L. Mazzinghi, Cantico dei cantici. Introduzione, traduzione e commento, Cinisello Balsamo 2011).

A questo punto mi piace pensare a Emmanuel Mounier (1905-1950): ventottenne, si esprime alla fidanzata Paulette, poi moglie, con una lettera del 13 marzo 1933: «L’amore umano insegna molte cose riguardo alle vie dell’amore di Dio» (Lettere sul dolore. Uno sguardo sul mistero della sofferenza, a cura di D. Rondoni, Milano 2005, p. 42).




«Una canzone per mio padre». Un film per far riflettere soprattutto i più giovani

hqdefaultdi Stefano Liccioli • Nel mese di novembre è uscito nella sale cinematografiche italiane il film “Una canzone per mio padre”, distribuito da Dominus Production, casa di produzione e distribuzione cinematografica italiana da anni impegnata a diffondere opere di alto valore artistico e culturale, con un profondo contenuto etico ed educativo. Il lungometraggio racconta la storia vera del cantante statunitense Bart Millard che dopo un’infanzia ed un’adolescenza difficile, abbandonato dalla madre e in balia di un padre violento e alcolizzato, scopre – per caso – il suo talento canoro che lo porterà, dopo alcuni anni di gavetta, al successo suggellato dalla canzone da lui scritta (I Can Only Imagine) vincitrice del doppio disco di platino. Non offrirò in questa sede una critica del film anche se vale la pena sottolineare la sua apprezzabile fotografia e la regia attenta che conferisce alla pellicola un buon ritmo. Allo stesso tempo è importante precisare che non si tratta del solito racconto di come un uomo sia arrivato al successo. Semmai l’attenzione dello spettatore si concentra maggiormente su qualcosa di più interessante (almeno da punto di vista educativo) e cioé le inevitabili difficoltà ed ostacoli che si devono affrontare quando si cerca di raggiungere un traguardo o si vuole inseguire un sogno.

Siccome, però, l’intento della Dominus Production è di rivolgersi in particolare ai giovani (a tal fine sono state preparate delle schede con i collegamenti disciplinari e le ricadute didattiche del film), mi preme riflettere e cercare di far riflettere su due argomenti (la figura del padre ed il problema dell’alcol) su cui giustamente è importante richiamare l’attenzione delle nuove generazioni.

Sul tema del padre sono significative, a mio avviso, le considerazioni di Massimo Recalcati che ultimamente ha definito il nostro tempo come il “tempo dell’evaporazione del padre”. Oggi i padri, a suo dire, sono stretti tra la paura di non essere amati dai propri figli se li dicono “no” e quella di rincorrere il riconoscimento dei figli, se li dicono sempre sì. Invece, secondo Recalcati, il ruolo del padre è quello di far crescere nei figli la consapevolezza che non tutto è possibile e che ci sono limiti: è errato pensare che si puà ottenere tutto. Egli rappresenta la legge, una legge però che non deve essere applicata in maniera anonima, ma che può prevedere anche delle eccezioni. Ciò che serve, afferma Recalcati, è “il padre-testimone” e la sua testimonianza viene resa mediante la sua vita:«Il padre non deve spiegare il senso della vita, ma deve mostrare attraverso la sua che la vita, con i dovuti limiti, può avere un senso, animando così la vita del figlio con la speranza». Come ogni processo educativo che si rispetti, anche quello della testimonianza non porta degli effetti immediati, si tratta di una semina che necessita del tempo (non si sa quanto) per generare i frutti. Fin qui la diagnosi. In questo contesto così complesso e difficile in cui non è per niente facile essere genitori, oltre alle analisi (l'”evaporzione del padre”) ed ad indicare l’obiettivo da perseguire (“il padre-testimone”), occorre proporre anche degli strumenti per accompagnare padri, ma anche madri, nel loro compito educativo. Sono sempre più convinto che se si vuole educare i ragazzi, bisogna seguire anche i genitori. Mi riferisco, per esempio, al tema dell’uso consapevole dei social media da parte di ragazzi e ragazze: come pensare di formare i giovani senza formare ed informare parallelamente anche i loro genitori che acquistano per loro i dispositivi con cui usano tali social media? In generale credo che sia la scuola che la Chiesa Cattolica, solo per citare due agenzie educative che sono a stretto contatto con le nuove generazioni, debbano preoccuparsi di accompagnare anche i genitori.Bart-Millard-story

L’altro argomento su cui è significativo soffermarsi e far soffermare i giovani è il consumo dell’alcol. In occasione dell’ultimo Alcohol Prevention Day, promosso tra gli altri dall’Istituto Superiore di Sanità lo scorso maggio, è emerso che tra i giovanissimi, anche italiani, è in aumento il Binge drinking, cioé le “abbuffate di alcol”. I rischi sia nell’immediato che a lungo termine di un tale comportamento sono evidenti. Le motivazioni che spingono ragazzi e ragazze a bere alcolici fino a sentirsi male li posso immaginare: voglia di trasgressione, desiderio di rompere la routine e di sentirsi vivi provando “emozioni forti”. Anche in questo campo la repressione non basta. Per avere risultati più duraturi occorrono fin dalla scuola primaria dei percorsi educativi che non si limitino a mettere in luce i rischi dell’assunzione dell’alcol ed in particolari facciano capire che le emozioni non possono essere le uniche e le principali guide della nostra vita. Ma questo potrebbe essere il tema per un’altra riflessione rivolta anche al mondo degli adulti.




Avevo fame e mi avete dato da mangiare

 

Cristo_separa_pecore_Ravennadi Stefano Tarocchi «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria.  Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Matteo 25,31-40).

Difficilmente si potrebbe riassumere in uno spazio più breve un giudizio così forte sulla storia degli uomini e il suo impatto sulla vicenda dei singoli: è il primo quadro della nota parabola del giudizio finale.

Premetto solo che ho reso ­ con “pecore e capri”, e non “pecore e capre”, i nomi dei due “gruppi” chiamati in gioco dal Vangelo attraverso la metafora del pastore e del suo gregge. Infatti, parlare di “pecore e capre” non ha molto senso. Infatti, il loro accoppiamento è sterile, e dunque non esiste nessuna possibilità di confondere le pecore con i capri, che restano quindi separati senza alcuna eccezione: la loro stessa natura li divide, prima ancora della parola del giudice.

La presenza di tutti i popoli davanti al Figlio dell’uomo, svelato nella sua gloria, crea la condizione per evidenziare la cifra dell’agire delle creature umane: «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

È questo il criterio del giudizio divino, che emerge nel secondo quadro della parabola: «poi [il Figlio dell’uomo] dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,41-45).

La risposta del giudice divino, il Figlio dell’uomo, è più che eloquente. Specularmente opposta a quanti hanno agito nei confronti «uno solo di questi miei fratelli più piccoli», di quelli cioè che contano meno.cq5dam.web.800.800

Possiamo attualizzare il Vangelo con le parole che papa Francesco ha usato recentemente davanti a specialisti del diritto: «la persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta (Evangelii Gaudium  56Laudato si’, 56)». E ancora: «oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati (Laudato si’, 196)» pertanto, «il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! – che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali» (Francesco al Congresso mondiale dell’Associazione internazionale del diritto penale: 15 novembre 2019)

Significativamente le parole del Papa, muovendo da una condizione – quella dell’uomo recluso in carcere, che al tempo del Vangelo, era l’intervallo che separava dal processo, e si concludeva solo con la liberazione o la morte del carcerato –, finisce per dare contenuto e spessore a tutte le condizioni di “minorità” e povertà, insite nella debolezza umana bisognosa di assistenza.

Così il racconto dell’evangelista Matteo chiude in una maniera inequivocabile l’insegnamento della parabola: «e se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna» (Mt 25,46).

Questo assunto conclusivo traccia in sostanza una linea insormontabile fra la follia evangelica, che di norma passa sotto silenzio, e l’umana follia (o stravaganza) che fa notizia anche per motivi banali: il Vangelo è infinitamente più rivoluzionario di quanto viene percepito nella realtà quotidiana.




L’«altro Giovanni XXIII»:Baldassarre Cossa

3di Andrea Drigani Seicento anni fa, il 27 dicembre 1419, moriva a Firenze Baldassarre Cossa, che era stato antipapa con nome di Giovanni XXIII. La sua salma fu collocata nel Battistero di San Giovanni in un splendido monumento funebre opera di Donatello e Michelozzo. E’ uscito in questi giorni, per i tipi della Morcelliana, un interessante volume di Mario Prignano, intitolato Giovanni XXIII. L’antipapa che salvò la Chiesa, che non è solo una sua biografia, ma ripercorre anche le tappe più salienti del cosiddetto Scisma d’Occidente (1378-1417) che rappresentò uno dei periodi più difficili della vita della Chiesa. E’ sempre estremamente utile e proficuo leggere un libro di storia, tenendo pure conto di quanto affermava il celebre studioso di storia romana Theodor Mommsen (1817-1903): «Tutta la storia va considerata nelle sue relazioni con il presente». A maggior ragione questo vale per la storia della Chiesa nella consapevolezza che essa non è solo opera dell’uomo, ma opera di Dio, sintesi del divino e dell’umano, una storia che va interpretata alla luce dei valori cristiani, avendo come guida l’idea del Regno di Dio, che secondo il piano dell’Eterno, sotto l’azione dello Spirito Santo, deve realizzarsi nell’umanità (Cfr. K.Bihlmeyer-H.Tuechle, Storia della Chiesa, Brescia, 1973, I, 18). Certe letture servono, tra l’altro, ad evitare di porsi in un pessimismo disperante sui più o meno presunti declini della Chiesa. Lo Scisma d’Occidente, com’è noto, fu caratterizzato dalla presenza di tre papati, espressioni di tre obbedienze: «avignonese», «romana», «pisana». Una divisione profonda, non solo all’interno della Chiesa, ma anche tra i regni d’Europa, infatti i sovrani avevano pesantemente interferito, per motivi di interesse politico e finanziario, sull’istituzione ecclesiale. E del resto, purtroppo, i predetti motivi erano assai ben presenti all’interno della stessa compagine ecclesiale. Le cause della frattura, infatti, non furono di natura dottrinale, bensì vanno ricercate nel desiderio di un prestigio e di una sopreminenza anche di ordine economico. Nel 1410 Baldassare Cossa fu eletto papa, col nome appunto di Giovanni XXIII, dall’obbedienza «pisana», e si trovò a contendere il ruolo con l’«aragonese» Benedetto XIII (Pedro de Luna) e il «romano» Gregorio XII (Angelo Correr).61NoIs0uUbL In questo assurdo e triste contesto, diversi ecclesiastici, teologi e canonisti, pensarono che per giungere ad una soluzione occorreva indire un Concilio Ecumenico, l’ultimo era stato quello di Vienne celebrato tra il 1311 e il 1312. In questi frangenti cominciò pure a farsi avanti quella teoria, che verrà poi denominata «conciliarismo», che sosteneva la superiorità del Concilio Ecumenico sulla stessa potestà del Romano Pontefice. Per vari motivi, forse non ultimo questo, Giovanni XXIII confermò pienamente la decisione di Sigismondo di Lussemburgo, «Rex Romanorum», di indire il Concilio Ecumenico a Costanza che si aprì nel 1414. Baldassare Cossa-Giovanni XXIII prese parte ai lavori del Concilio. Con scarso senso di ecumenicità, intesa come universalità, nel Concilio si decise di far votare per «nationes» anziché per singole persone. Ben presto emerse una larga maggioranza che richiedeva la tripla rinuncia dei papi, Baldassare Cossa non era contrario, ma voleva che ciò accadesse contemporaneamente, poiché questo non avveniva, Cossa, temendo per la propria vita fuggì da Costanza, ma fu arrestato, processato e deposto. Baldassarre Cossa accettò la decisione del Concilio e venne imprigionato. Anche per l’intermediazione di Giovanni de’ Medici fu poi liberato. Nel frattempo Gregorio XII si dimette e Benedetto XII viene deposto. Nel 1417 viene eletto Papa il cardinale Oddone Colonna che assume il nome di Martino V, lo Scisma d’Occidente termina. Dopo varie peregrinazioni Baldassare Cossa giunge a Firenze, dove risiede Martino V, che lo accoglie cordialmente creandolo cardinale-vescovo di Frascati. Osserva conclusivamente Mario Prignano: «Convocando il concilio e recandovisi nonostante tutto, Cossa ha dimostrato, pur in modo contraddittorio e incerto, un qualche senso di responsabilità che però non ha retto alla prova dei fatti, perché nel giro di qualche settimana si è tramutato in terrore panico per la propria incolumità e lo ha spinto ad abbandonare Costanza…E’ questo complicato miscuglio di fatalismo, di furbizia spicciola e di paura, non l’ostinato rigetto di qualsiasi ipotesi di rinuncia o il colpevole disinteresse verso la divisione della Chiesa, ad aver caratterizzato, secondo me – afferma Prignano – il rapporto tra Cossa e il concilio che lo ha deposto». E’ un giudizio che in qualche modo riecheggia quello del cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, San Giovanni XXIII, che poco prima della sua elezione al pontificato disse di Baldassarre Cossa: «Un antipapa…Ma in fondo ebbe il merito di aver convocato il Concilio di Costanza, che restituì l’unità della Chiesa».




Perché l’Immacolata Concezione?

Immacolata Concezionedi Francesco Vermigli • La solennità liturgica dell’8 dicembre si approssima e ci chiediamo: qual è il significato del fatto che Maria è stata preservata dal peccato? In modo particolare, ci chiediamo: quale immagine di Dio svela tale fatto? Ancor prima di provare a capirne il senso teologico profondo, pare opportuno affrontare un po’ più nel dettaglio l’oggetto della nostra discussione; ricordando le parole della definizione dogmatica di Pio IX.

L’Immacolata Concezione – parafrasando la bolla Ineffabilis Deus del 1854 – è la dottrina secondo la quale Maria:

  • è stata preservata fin dal suo concepimento da ogni macchia di peccato;
  • per grazia e privilegio divino;
  • e in vista della missione salvifica di Cristo.

Già qui si apprezzano alcuni passaggi decisivi.

  1. Innanzitutto, Maria è senza peccato nell’atto stesso della sua esistenza; vale a dire che non esiste un solo attimo, anche fosse infinitesimale, in cui ella non sia stata immune dal peccato. In Maria essere (esistere) ed essere senza peccato (esistere senza peccato) coesistono e coincidono.
  2. Inoltre, questo avviene per divina benevolenza: se essere ed essere senza peccato coesistono e coincidono in Maria, significa che Maria non ha potuto meritare la propria condizione priva di peccato. Questo perché – anche solo se consideriamo banalmente la questione – non può meritare qualcosa fin dall’inizio della sua esistenza colui (colei in questo caso) che, non esistendo prima, non ha potuto mai operare niente che possa meritare qualcosa.
  3. Dunque, il motivo della condizione di Maria priva del peccato dal primo istante del suo stesso esistere deve essere cercato al di fuori di lei. L’unica ragione possibile per la quale Maria è stata preservata dal peccato deve essere cercata in Colui che è venuto a salvare il genere umano dal peccato medesimo. In quest’ottica deve essere dunque intesa la formula “in vista dei meriti di Cristo” (intuitu meritorum Christi Iesu Salvatoris humani generis, nel testo della definizione dogmatica).

Già se ci fermiamo sulle parole del dogma scopriamo di poter dare almeno in parte risposta alla domanda con cui si intitola questo articolo. Dunque, quale il senso profondo di un dogma come quello dell’Immacolata Concezione? Quale immagine di Dio rivela la fede nella preservazione di Maria da ogni macchia di peccato fin dal suo stesso esistere?md12440465426

L’Immacolata Concezione di Maria è segno luminosissimo della pre-destinazione dell’uomo alla salvezza. Parlare di predestinazione dell’uomo è fatto che non deve scandalizzare, dal momento che tale termine e tale categoria vengono usati da san Paolo a più riprese: a Rm 8,29 («quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo») o a Ef 1,3-4 («In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo»). Si tratta – come si può vedere facilmente – di una predestinazione al bene; nell’orizzonte misteriosissimo della volontà eterna di Dio che vuole la salvezza dell’uomo, prima di ogni suo possibile merito.

La predestinazione dell’uomo svela dunque il carattere prioritario dell’azione di Dio rispetto a quello che può compiere l’uomo. Si potrebbe dire che la salvezza è pienamente nelle mani di Dio: solo se Dio vuole salvare, l’uomo può essere salvato. Un’affermazione forse scontata, forse saputa, ma che la condizione esistenziale di Maria rivela con una forza e una chiarezza eccezionali. Dio è sempre avanti a noi, sempre ci precede; secondo il termine primerear che papa Francesco ha reso familiare alla Chiesa. Come accade in Maria, che prima ancora di essere (esistere), è già pensata e voluta da Dio come sanata dal peccato (esistere senza peccato).

Ma c’è un ultimo punto su cui è opportuno fermarsi: l’inserimento – si direbbe il radicamento e l’incardinamento del mistero di Maria Immacolata – nella missione e nella persona di Cristo. Ella, come Madre, porta in grembo Colui che le dà la grazia della salvezza prima di ogni suo atto meritorio: prima che ella esistesse, essa era stata già predestinata a godere dei frutti di salvezza ridondanti dalla missione di Cristo. La frase “in vista dei meriti di Cristo” coglie in pieno come la condizione immacolata di Maria si radichi negli stessi atti meritori compiuti da Cristo per la salvezza dell’uomo.

Tutto questo, a ben vedere, dice della relazione specialissima che Maria ha con Cristo; relazione imparagonabile ad ogni altra relazione che qualsivoglia creatura ha avuto, abbia o mai avrà con Cristo. Proprio perché non è possibile pensare Maria al di fuori del rapporto con Gesù, in tanto in quanto Madre sua, ella gode di un privilegio specialissimo. Tali ultime considerazioni mostrano infine per transennam come non possa esistere alcuna possibile mariologia che sia distaccata dalla cristologia; a meno che la mariologia non voglia ridursi ad una riflessione soltanto esangue e devota, priva di profondità e di densità teologica.




Sapienza Patto e Uscita. Papa Francesco all’Istituto Universitario Sophia

Logo_sophia (1)di Alessandro Clemenzia A dodici anni dalla sua fondazione, l’Istituto Universitario Sophia ha inaugurato il suo anno accademico conferendo il Dottorato h.c. in “cultura dell’unità” (il secondo nella sua storia, dopo quello conferito nel 2015 al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo) a uno degli esponenti più illustri dell’attuale universo teologico, artefice di quella “mistica del noi” alla quale Papa Francesco, in un modo o nell’altro, si richiama costantemente: il gesuita argentino p. Juan Carlos Scannone, venuto a mancare proprio il 27 novembre.

Per questa occasione hanno raggiunto la Cittadella internazionale di Loppiano un numero di docenti e giovani ricercatori dell’America Latina, provenienti da diversi Paesi, per portare avanti – in collaborazione col dipartimento di Ontologia Trinitaria dell’Istituto Sophia – un progetto di ricerca sull’Antropologia trinitaria. Scopo di questo studio è quello di verificare, nei tanti e variegati approcci che caratterizzano l’antropologia odierna, una visione della realtà che si muova, attraverso un chiaro approfondimento ontologico e un rigoroso statuto epistemologico, nell’orizzonte di una particolare ontologia relazionale. Insieme ai docenti, hanno partecipato anche alcuni teologi del CELAM, luogo in cui convergono le diverse anime dell’America Latina.

Questa settimana di laboratorio, che ha visto purtroppo l’assenza del prof. Scannone a causa di un serio problema di salute, ha raggiunto il suo culmine nella visita di tutti i componenti del giovane Istituto Universitario al Successore di Pietro, perché da lì ripartisse, in modo riformato, quella nuova forma del pensare che trova nelle relazioni trinitarie la sua reale condizione di possibilità.

Il Papa ha ricevuto le 200 persone, convenute nella sala del Concistoro, e ha indicato ai presenti i tre punti di riferimento che devono orientare il cammino dell’Istituto Universitario Sophia: il carisma dell’unità, da cui essa nasce e a cui costantemente si ispira, essendo stata l’ultima creazione della fondatrice Chiara Lubich; la Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium, che è al cuore del progetto accademico ed educativo dell’Istituto, in particolare per quella inter- e trans-disciplinarità richieste a ogni facoltà teologica; il Patto Educativo Globale che vuole incarnare – nelle sue molteplici forme – quel paradigma relazionale che sta tanto a cuore all’attuale Pontificato.

Il Papa ha poi consegnato a studenti, docenti e staff, tre parole che possono dischiudere l’orizzonte e guidare il cammino comunitario: Sapienza, Patto, Uscita.

«La vostra Università si chiama “Sophia” perché il suo obiettivo è prima di tutto comunicare e imparare la Sapienza per impregnarne tutte le scienze». Non soltanto la teologia, ma tutti gli ambiti del sapere, dalla filosofia alla matematica, dall’epistemologia alla politica, dall’economia alla pedagogia, dalla sociologia allo studio delle lingue antiche e moderne, devono esse in-formati di questa luce sapienziale, ciascuno conservando le proprie peculiarità e il proprio linguaggio. Questa Sapienza, ha aggiunto il Papa, è per noi Gesù Crocifisso e Risorto: è Lui a irradiare la sua luce su tutte le discipline, le religioni e le culture, non è il frutto di uno sforzo umano.scannone-juan-carlos-755x491

La seconda parola offerta è Patto, inteso come chiave interpretativa di tutta la storia: «Il patto tra Dio e gli uomini, il patto tra le generazioni, il patto tra i popoli e le culture, il patto – nella scuola – tra i docenti e i discenti e anche i genitori, il patto tra l’uomo, gli animali, le piante e persino le realtà inanimate che fanno bella e variopinta la nostra casa comune». Questo Patto dice che tutto è in relazione con tutto, e proprio questa dinamicità è indice di come la creazione non sia soltanto a immagine della Trinità, ma anche il luogo in cui la vita di Dio può fluire nei rapporti umani.

Terza e ultima parola è Uscita. Quest’ultima è presa dal Papa come condizione di possibilità delle altre due: «Senza uscire non si incontra la Sapienza, senza uscire il patto non si propaga a tutti, con centri concentrici sempre più larghi e inclusivi». Tale uscita non ha come scopo quello di portare Dio dove ancora non c’è, ma quello di trovare Dio nel volto di ogni uomo e donna, a prescindere dall’essere dentro o fuori.

Papa Francesco, in questa udienza, ha così richiamato l’Istituto Universitario Sophia a rientrare nelle radici della sua fondazione, lì dove si trova il suo DNA carismatico, per poi proiettarsi accademicamente e sapienzialmente verso il fuori, verso quell’umanità dove tutto è in relazione con tutto, dove Dio è già presente.




Il caos in Iran e il profilo dell’oligarchia islamica

2di Mario Alexis Portella Tutti noi abbiamo visto su internet o al telegiornale o abbiamo letto su alcuni giornali il caos in Iran. Gli iraniani, lottando per far fronte al disagio economico — segnato dall’inflazione, una moneta svalutata e un’elevata disoccupazione — il 15 novembre sono scesi in strada per protestare contro l’improvviso aumento dei prezzi del carburante. Alcuni manifestanti hanno bruciato stazioni di servizio e distrutto edifici governativi, colpendo in particolare le banche. Il regime islamico, per poter sopprimere le proteste, oltre a reagire con la forza, ha bloccato l’uso di internet in tutto il paese. I media occidentali asseriscono che il governo dispotico sia sull’orlo di crollare, ma questo non è affatto vero.

L’Iran ha le seconde maggiori riserve di gas naturale e le quarte riserve di greggio al mondo e la vendita di queste risorse rappresenta oltre l’80 percento delle sue entrate dall’esportazione. La Repubblica islamica quindi dipende fortemente dalle entrate petrolifere per finanziare il suo avventurismo militare nella regione e sponsorizzare milizie e gruppi terroristici. Il bilancio presentato dall’Iran nel 2019 è stato di quasi 41 miliardi di dollari, il regime si aspettava di generare circa 21 miliardi di dollari solo dalle entrate petrolifere. Ciò significa che circa la metà delle entrate del governo iraniano proviene dall’esportazione del petrolio verso altre nazioni. Anche se il leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, si vanta dell’economia autosufficiente del paese, molti leader iraniani hanno recentemente ammesso la terribile situazione economica che il governo sta affrontando, in gran parte a causa delle nuove sanzioni statunitensi. Parlando nella città di Kerman, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha riconosciuto per la prima volta che “l’Iran sta vivendo uno degli anni più difficili dalla rivoluzione islamica del 1979” e che “la situazione del paese non è normale”.

Rapporti non ufficiali compilati dagli esiliati iraniani suggeriscono che circa 200 persone sono state uccise e circa 3.000 ferite dopo che Rouhani ha ordinato alle forze di sicurezza di occuparsi della cosa, in quanto lui ha classificato le proposte talvolta violente del popolo come una una rivolta sediziosa; il non-profit Center for Human Rights in Iran, con sede negli Stati Uniti, ha affermato che le forze di sicurezza hanno arrestato almeno 2.755 persone.

Khamenei, è andato oltre, sostenendo che le proteste non erano altro che “sabotaggi e incendi” condotti da “teppisti, non dal nostro popolo”. Come spesso accade quando il regime iraniano si trova sotto pressione, gli ayatollah ricorrono alla forza bruta della Guardia Rivoluzionaria Islamica (IRGC), come hanno fatto durante la Rivoluzione Verde nel 2009 quando ci furono giuste proteste contro il risultato delle elezioni di Mahmud Ahmadinejad come presidente; e quelli di noi che sono più adulti si ricordano ancora che le grandi proteste antigovernative della rivoluzione islamica del 1979 hanno portato all’estromissione dello Shah Mohammad Reza Pahlavi e di conseguenza alla crisi degli ostaggi americani, durata 444 giorni, quando i giovani studenti iraniani fecero irruzione nell’ambasciata Usa a Teheran, tenendo in ostaggio i cittadini e il personale di ambasciata.

L’allontanamento di Pahlavi era un déjà-vu della deposizione, per opera della CIA, del Primo Ministro dell’Iran Mohammad Mossadegh nel 1953 reo di aver tentato di nazionalizzare il petrolio della sua nazione. Quello fu l’anno in cui la CIA prese di mira l’Iran con la sua prima operazione di cambio di governo. La CIA aveva chiesto al presidente Harry Truman (1945-1953) il permesso di avviare un colpo di stato per aiutare le compagnie petrolifere britanniche, che la CIA sapeva che avrebbero distrutto il popolo iraniano con la democrazia. A suo eterno merito, va detto che Truman disse di no. Ciò non ha però fermato la CIA. Non appena il presidente Dwight D. Eisenhower è divenuto presidente nel 1953, la CIA ha rinnovato la sua richiesta di colpo di stato, sostenendo che Mossadegh era un “comunista”.3

La rimozione di Mossadegh riportò al potere il giovane Shah Pahlavi, dando così all’élite qualcuno che potevano manipolare per amministrare il commercio petrolifero dell’Iran. Tuttavia, negli anni ’70 lo Shah, nonostante la rigidezza della polizia segreta, lo SAVAK, fu in grado di ristrutturare l’Iran in una società altamente sviluppata attraverso riforme educative, infrastrutturali e giuridiche; come il voto delle donne, la creazione di ospedali efficienti, oltre alle leggi sulla libertà religiosa. Egli rese il suo paese uno dei principali produttori mondiali del petrolio. Quando cercò di nazionalizzare il petrolio del suo paese, il che avrebbe significato che i paesi del Regno Unito e dell’America non avrebbero più dettato la politica in Iran, fu estromesso. Poco tempo dopo, nel novembre 1979 il presidente Jimmy Carter dette asilo a Pahlavi negli Stati Uniti per motivi umanitari, ma contemporaneamente ha aiutato l’Ayatollah Khomeini, che era in esilio in Francia sotto la protezione del presidente (socialista) François Mitterrand, ottenendo il controllo “momentaneo” dell’Iran ma istituendo una teocrazia islamica che la maggioranza degli iraniani sta affrontando.3

Dopo che il regime iraniano ha ripristinato l’Internet, almeno in parte, sono state pubblicate nuove informazioni e video sulle proteste mostrando come le forze di sicurezza hanno represso i manifestanti; le forze di sicurezza in borghese, arrestano, picchiano e trascinano le persone per strada dove in molti casi i manifestanti vengono ammazzati e il suono degli spari può essere udito mentre i manifestanti sono in esecuzione. Tanti sono stati gli arrestati a Teheran che la prigione centrale della capitale non poteva accoglierli tutti, Hassan Khalilabadi, capo del consiglio comunale di Shahr-e Rey, nel sud di Teheran, dove si trova la prigione.

Sina Toossi, una ricercatrice presso il National Iranian American Council, un gruppo, con sede a Washington, che cerca di promuovere legami tra americani e iraniani, ha affermato che “il governo iraniano non tollera un’assemblea pacifica dove la gente comune possa esprimere le proprie lamentele … Se l’Iran è sincero nel fare una distinzione tra proteste e rivolte, dovrebbe almeno facilitare questo primo passo nel consentire alle persone di esprimere pubblicamente le loro rimostranze”.

Il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha detto che “ha chiesto ai manifestanti iraniani di inviarci i loro video, foto e informazioni che documentano la repressione del regime nei confronti dei manifestanti. Gli Stati Uniti esporranno e sanzioneranno gli abusi”.

Toossi, comunque, ha avvertito che “il governo americano non dovrebbe confondere l’espressione iraniana delle loro legittime lamentele e la rabbia contro il proprio governo come un benvenuto ad una nuova interferenza degli Stati Uniti negli affari interni dell’Iran”, la cui massima espressione era un colpo di stato orchestrato dalla CIA nel 1953 nella quale, come ricordavo, il Primo Ministro iraniano, eletto democraticamente, è stato rimosso. “L’intervento degli Stati Uniti negli affari interni dell’Iran ha una lunga e brutta storia e ha solo peggiorato le cose per il popolo iraniano e la stabilità regionale”.

E’ da ricordare che l’Iran, prima della caduta dello Shah, era, a parte la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk, il luogo più tollerante verso le religioni non-islamiche in Medio Oriente. Il cristianesimo, come l’ebraismo, anche se è sempre stata una religione di minoranza — i cristiani in Iran vivono principalmente nella capitale Teheran e nelle città di Isfahan e Shiraz, ci sono almeno 600 chiese per 300.000–370.000 cristiani nel paese — e pur avendo una lunga storia in Iran che risale ai primi anni della fede, è perseguitato a causa della proibizione del proselitismo e l’apostasia.

Tanti miei amici iraniani qui a Firenze mi dicono che sperano che il regime cambi, ma non è per niente facile. Per prima cosa, i manifestanti non sono organizzati, cioè, non c’è una persona o un partito politico che li possa unire e condurre a una società democratica e, forse la situazione diventerebbe ancora peggiore con l’ingresso degli iraniani comunisti prevenienti dell’Iraq. Mentre c’è la volontà del popolo persiano di mandare via il regime, non hanno i mezzi per poter farlo. Sarebbe qualcosa di diverso se ci fosse un governo iraniano e secolare in esilio che sarebbe in grado di prendere il potere a Teheran.4

Secondo, il regime ha l’aiuto economico e politico della Cina e della Russia di Vladimir Putin. Finché ci sarà la loro presenza, le sanzioni economiche faranno soffrire soltanto il popolo mentre gli ayatollah e i loro servi politici — il presidente e i membri del parlamento — se ne approfitteranno per fini personali.




Piccolo dialogo sull’Eucaristia

1B36A057-1709-4D3B-A187-53307E7C745Adi Giovanni Campanella • Agli inizi di giugno 2019, la casa editrice Scholé ha pubblicato, all’interno della collana “Orso blu”, un piccolo libro intitolato Il farmaco dell’Immortalità – Dialogo sulla vita e l’Eucaristia. È un’intervista di Monica Mondo ad Arnoldo Mosca Mondadori.

Monica Mondo è torinese, laureata in Lettere classiche e vive con marito e figli a Roma, dove lavora come autore e conduttore a TV2000. Arnoldo Mosca Mondadori è figlio di Paolo Mosca e di Nicoletta Mondadori ed è pertanto pronipote di Arnoldo Mondadori, fondatore dell’omonima casa editrice Arnoldo Mondadori Editore. È inoltre nipote dello scrittore e umorista Giovanni Mosca e dell’editore Alberto Mondadori. È sposato e padre di tre figli. Editore, saggista e poeta, è stato il curatore dell’opera mistica della poetessa Alda Merini tra il 1998 e il 2009, pubblicata da Frassinelli. È segretario generale della Fondazione Benedetta D’Intino. È membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. È membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Cariplo. Dal 2010 al 2013 è stato Presidente del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Dal 1999 è ministro straordinario dell’Eucaristia ed è inoltre, direttore della collana «Scritture profetiche», edita da Morcelliana.

L’intervista è incentrata sulla speciale relazione che Arnoldo sente di avere con l’Eucaristia e tocca anche vari altri temi collaterali, muovendosi comunque sempre nell’ambito della fede cristiana di Arnoldo. Dal giorno della sua Prima Comunione, non ha mai interrotto il forte legame con il Corpo di Cristo, messo a base della sua vita. Rifacendosi a san Giovanni della Croce, assimila inizialmente questo suo rapporto a una ferita al cuore, attraverso la quale entra la luce e la pace di Gesù. Ovviamente, il libro in questione è assai ben lungi dall’essere un trattato di teologia sacramentaria. È un insieme di belle suggestioni e riflessioni personali sull’Eucaristia. La grande considerazione dei benefici dell’Eucaristia porta Arnoldo su posizioni anche un po’ border line, come l’essere favorevole a distribuire l’Eucaristia a categorie molto ampie di soggetti, comprendendo i divorziati risposati in qualsiasi caso.

Lo stretto legame col Santissimo Sacramento lo spinge a concepire un progetto originale:

«Un giorno mi sono chiesto nella preghiera come poter comunicare a tante persone che Lui è lì, presente, e in un istante ho sentito dentro di me che avrei potuto organizzare un laboratorio in carcere dove fossero i carcerati a preparare le ostie per i sacerdoti. Forse poteva essere un modo non canonico per dire il paradosso dell’amore divino: quelle ostie preparate da persone che avevano commesso gravi delitti sarebbero diventate Dio» (p. 91).mosca_mondadori_800_2610924

Nel 2015, si apre nel carcere di Opera un laboratorio di produzione di ostie. I detenuti di Opera hanno poi realizzato delle videolezioni in modo da poter fare formazione a distanza per altri detenuti. Grazie a queste videolezioni, sono nati laboratori in Mozambico e Sri Lanka e presto ne nascerà uno a Buenos Aires. Alla base sta l’idea di far rifiorire la cultura eucaristica. Come sono belle la fantasia e l’originalità dello Spirito! Oltre a e prima di consacrare le ostie, si serve di strumenti impensabili per realizzare la materia del Suo miracolo, per far scendere il cielo in terra! La Bellezza abbraccia ancora una volta e sempre la bruttezza e la fa diventare come sé!




«L’idolatria del mercato»

cq5dam.web.800.800 (1)di Carlo Parenti Nel mondo molte oggi sono le nazioni in cui ‘insieme’ le persone lottano contro regimi autoritari e le derive neoliberiste. Si pensi all’Iraq, al Libano, all’Egitto, all’Algeria, a Hong Kong, al Cile e non solo. La ribellione è indirizzata quindi sia contro l’oppressione negatrice dei diritti, laddove ci sono regimi militari o statalisti, sia contro l’accumulo di ingenti ricchezze in pochi mani. Quest’ultima ormai è poi regola universale che accumuna dittature e democrazie. Si pensi non solo al Cile, ove nella dittatura di Pinochet trovarono albergo gli esperimenti della scuola di Chicago, capitanata da Milton Friedman, insignito addirittura del premio Nobel, ma anche alle democrazie del nord America e dell’Europa. Un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz, ritiene che si sia in presenza della probabile fine del neoliberismo. Per l’economista americano è stato ed è proprio il neoliberismo a minare la democrazia. Infatti al dio pagano rappresentato dal mercato senza regole si sono sacrificate le tutele sociali, gli stipendi (ora decrescenti), le tasse progressive, le regolazioni finanziare eque e limitatrici delle diseguaglianze, i servizi statali e il welfare. Tutte conquiste rese possibili dalla precedente capacità di governo delle persone che nelle democrazie potevano tutelare gli interessi generali. Ma poi nel nome del mercato e dello spauracchio della perdita dei posti di lavoro, a causa della competitività globale da cui si aspettava prosperità per tutti, le conquiste citate sono state ridotte o eliminate a vantaggio di pochi accumulatori di smisurate ricchezze.

Tutto questo è ben chiaro a Papa Francesco che si conferma il concreto leader di chi vuole cambiare i modelli neoliberisti a favore di “una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda”

Questi temi sono uno sprone a sviluppare analisi e proposte valide anche per l’Italia e l’Europa. Un recente, concreto, specifico, stimolante esempio di Francesco è il seguente.

La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare” il fenomeno “dell’idolatria del mercato[…]che mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità”. Lo ha detto, lo scorso 15 novembre, il Papa ai partecipanti al XX Congresso Mondiale dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, sul tema “Criminal Justice and Corporate Business”. 

In concreto – ha spiegato Francesco entrando nel dettaglio – la sfida presente per ogni penalista è di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali[…]La persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta”. Per il Papa “oggi alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo[…]Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali”.amazzonia

Francesco ha poi rilevato che “Una delle frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività sanzionatoria, è la scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più potenti, in particolare la macrodelinquenza delle corporazioni[…]Il capitale finanziario globale è all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente”, ha fatto notare Francesco anche a proposito della “criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta[…]Il diritto penale non può rimanere estraneo a condotte in cui, approfittando di situazioni asimmetriche, si sfrutta una posizione dominante a scapito del benessere collettivo[…]Questo succede, per esempio, quando si provoca la diminuzione artificiale dei prezzi dei titoli di debito pubblico, tramite la speculazione, senza preoccuparsi che ciò influenzi o aggravi la situazione economica di intere nazioni[…]Si tratta di delitti che hanno la gravità di crimini contro l’umanità – la denuncia del Papa – quando conducono alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni”.

il Papa ha proposto di considerare un nuovo reato, di cui si è parlato durante il recente Sinodo per l’Amazzonia: l’ecocidio.“Un elementare senso della giustizia imporrebbe che alcune condotte, di cui solitamente si rendono responsabili le corporazioni, non rimangano impunite”, ha spiegato infatti Francesco, citando in particolare “tutte quelle che possono essere considerate come ‘ecocidio’: la contaminazione massiva dell’aria, delle risorse della terra e dell’acqua, la distruzione su larga scala di flora e fauna, e qualunque azione capace di produrre un disastro ecologico o distruggere un ecosistema[…]In questo senso, recentemente, i Padri del Sinodo per la Regione Panamazzonica – ha ricordato il Papa – hanno proposto di definire il peccato ecologico come azione oppure omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente. È un peccato contro le future generazioni e si manifesta negli atti e nelle abitudini di inquinamento e distruzione dell’armonia dell’ambiente, nelle trasgressioni contro i principi di interdipendenza e nella rottura delle reti di solidarietà tra le creature e contro la virtù della giustizia”. Per “ecocidio”, ha proseguito il Papa, “si deve intendere la perdita, il danno o la distruzione di ecosistemi di un territorio determinato, in modo che il suo godimento per parte degli abitanti sia stato o possa vedersi severamente pregiudicato. Si tratta di una quinta categoria di crimini contro la pace, che dovrebbe essere riconosciuta tale dalla comunità internazionale”. Di qui l’appello ai giuristi e “a tutti i leader e referenti nel settore perché contribuiscono con i loro sforzi ad assicurare un’adeguata tutela giuridica della nostra casa comune”. “Stiamo pensando di introdurre nel Catechismo della Chiesa cattolica il peccato contro l’ecologia, il peccato ecologico, contro la casa comune, perché è un dovere”, ha aggiunto il Papa a braccio.

Francesco ha poi denunciato “La cultura dello scarto, combinata con altri fenomeni psico-sociali diffusi nelle società del benessere, sta manifestando la grave tendenza a degenerare in cultura dell’odio” e ha fatto notare che oggi “si riscontrano episodi purtroppo non isolati, certamente bisognosi di un’analisi complessa, nei quali trovano sfogo i disagi sociali sia dei giovani sia degli adulti[…]Confesso che quando sento qualche discorso, qualche responsabile dell’ordine o del governo, mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel ’34 o nel ’36”, ha detto a braccio. “Non è un caso – la tesi di Francesco – che a volte ricompaiano emblemi e azioni tipiche del nazismo, che, con le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omosessuale, rappresenta il modello negativo per eccellenza di cultura dello scarto e dell’odio”. “Occorre vigilare, sia nell’ambito civile sia in quello ecclesiale, per evitare ogni possibile compromesso – che si presuppone involontario – con queste degenerazioni”, il monito. No anche al “lawfare”, che consiste nel “ricorso a imputazioni false contro dirigenti politici, avanzate di concerto da mezzi di comunicazione, avversari e organi giudiziari colonizzati”. In questo modo, ha osservato il Papa, “si strumentalizza la lotta, sempre necessaria, contro la corruzione col fine di combattere governi non graditi, ridurre i diritti sociali e promuovere un sentimento di antipolitica del quale beneficiano coloro che aspirano a esercitare un potere autoritario”. Secondo il Papa, infine, “è curioso che il ricorso ai paradisi fiscali, espediente che serve a nascondere ogni sorta di delitti, non sia percepita come un fatto di corruzione e di criminalità organizzata”. Analogamente, “fenomeni massicci di appropriazione di fondi pubblici passano inosservati o sono minimizzati come se fossero meri conflitti di interesse”.

Inoltre il Papa ha anche proposto, sempre a braccio, di “Ripensare sul serio l’ergastolo . Le carceri devono avere sempre finestre, cioè orizzonti. Dobbiamo guardare ad un reinserimento, pensare profondamente al modo di gestione delle carceri, cercando di seminare speranze di reinserimento e pensando se siamo capaci di accompagnare queste persone”.