Presentazione degli articoli del mese di gennaio 2019

Giotto_-_Scrovegni_-_-18-_-_Adoration_of_the_MagiAndrea Drigani ricorda il cardinale Josef Beran, nel 50° della morte, un martire ed un difensore della libertà religiosa, che dette un contributo assai importante, durante i lavori del Vaticano II, per la stesura della Dichiarazione «Dignitatis Humanae». Francesco Romano richiama l’antico istituto dell’arbitrato, già disciplinato sia nella Bibbia che nel diritto romano, che continua ad esistere nell’ordinamento canonico e civile, ed esprime la volontà di risolvere pacificamente le controversie nel rispetto delle regole. Mario Alexis Portella compie una disamina sull’attuale equilibrio mondiale, incentrato sugli USA, la Cina e la Russia, che appare alquanto incerto ed instabile, ben lontano da quella pace che San Paolo VI vedeva fondata solo sul diritto e la giustizia. Dario Chiapetti con il volume di Irénée Hauscher illustra la tradizione esicasta, che non è solo un modello per monaci, ma può esserlo per ogni cristiano, perché nel distacco dal mondo si abbraccia il mondo. Giovanni Campanella ripropone una recente edizione di alcuni scritti di John Maynard Keynes (1883-1946), che suscita ancora interesse per le sua posizioni, in quanto appaiono una sintesi delle migliori indicazioni di politica economica, contro gli eccessi e gli estremismi. Antonio Lovascio col Messaggio per la LII Giornata Mondiale della Pace, presenta le indicazioni del Papa sull’urgenza di una «buona politica», presupposto fondamentale per ogni convivenza pacifica. Gianni Cioli ribadisce l’assoluta importanza di un adeguato annuncio cristiano sulla morte nell’evangelizzazione e nella catechesi, anche con il saggio uso degli eufemismi. Francesco Vermigli dal discorso di Papa Francesco per gli auguri natalizi alla Curia Romana annota sulle luci e le ombre nella vita della Chiesa, da qui la necessità di una costante e continua conversione, secondo l’antico detto: «Ecclesia semper reformanda». Alessandro Clemenzia recensisce il volume di Maria Licia Paglione che si sofferma sull’espressione «bene relazionale», per la quale tutte le relazioni umane, per essere veramente tali, sono da costruirsi sulla reciprocità e sulla gratuità. Leonardo Salutati si diffonde sul concetto di «periferie esistenziali» da intendersi in riferimento a tutti coloro che si sono allontanati da Dio o che lo cercano, verso i quali va promossa una grande opera di evangelizzazione che orienta sempre verso un’azione trasformante della storia. Stefano Liccioli fa memoria dei quaranta missionari uccisi nel 2018, si tratta del sacrificio di sacerdoti, religiosi e laici che hanno offerto la loro testimonianza cristiana di amore e di servizio, denunciando il male e l’ingiustizia. Giovanni Pallanti rammenta l’Appello ai «liberi e forti», lanciato cento anni fa da Don Luigi Sturzo, che portò alla fondazione del Partito Popolare Italiano e segnò l’inizio della storia della presenza politica dei cattolici democratici. Carlo Nardi sviluppa alcune considerazioni sulla competenza storiografica di San Luca, che riprende la metodologia medica: vedere, valutare, agire.




 A cento anni dall’Appello ai «liberi e forti»

L’evangelista Luca, storico competente da coscienzioso medico

IMG01651-20121117-1045(SanLuca)di Carlo Nardi • Senza dubbio competenza storica o, meglio, storiografica, quella che l’evangelista Luca nelle prime battute del suo Vangelo e degli Atti degli apostoli che sono la prima storia della Chiesa. E una storia fatta a regola d’arte: con quegli intenti e soprattutto quel metodo che Luca, greco di Antiochia di Siria, pare avere attinto dai più rigorosi storiografi greci: Tucidide e Polibio. Quali criteri? Si potrebbe dire con Cicerone: lo storico non deve dire nulla di falso né tacere nulla di vero. Inoltre la storia si fa con i documenti (Marrou) con relazioni scritte e ancora meglio con i «testimoni oculari», gli autóptai «quelli che hanno visto». Difatti il ricorso alla testimonianza di chi c’era di persona si chiamava autopsía, come dire “il voler rendersi conto di come stiano effettivamente le cose”.

E la parola ‘autopsia’ di competenza degli storici rimanda all’altra probabile competenza di san Luca: sembra lui in «medico Luca» della Lettera ai Colossesi (4,14). In tal caso, era uno dei tanti “figli d’Ippocrate”, come si diceva. Alle spalle aveva una lunga elaborazione di metodi e tecniche, la scienza di voler conoscere di fenomeni, i sintomi, per formulare diagnosi e prescrivere terapie.

E Luca, storico, ha fatto tesoro del suo metodo di medico per darci il suo Vangelo che è anche un vedere, un valutare, un agire: quel Vangelo che ha composto con lo stile, con l’anima di chi è vicino a chi è in situazione di penuria, di perdere e di perdersi. Una lettura attenta dei suoi scritti, Vangelo ed Atti, ci rileva, compiuta in Cristo e nel suo Vangelo, quella umanità a tutto tondo che i greci chiamavano philanthropía e i latini semplicemente humanitas, e che traspira proprio dal cosiddetto Giuramento di Ippocrate.

Certo, non era il comportamento di tutti né di sempre. Ma l’impegnativa lo richiamava.

E si capisce che san Paolo in un momento di solitudine e di scoraggiamento abbia potuto dire con tutta sincerità: «Solo Luca è con me» (2 Tim 4,11).




L’arbitrato, un antico istituto giuridico: dalla preistoria del diritto all’ordinamento canonico attraversando il diritto romano

ciclo-troiano11di Francesco Romano • L’arbitrato storicamente è un istituto che affonda le sue radici nella cultura primitiva, alle origini delle relazioni giuridiche tra gli uomini quando ancora iniziavano a orientarsi verso le prime forme di civile convivenza per risolvere le controversie, non più fondate sulla forza o regolate dalla vendetta, ma ricorrendo a una figura terza scelta dalle parti per comporre la disputa.

Una forma di arbitrato è possibile rinvenirla nella controversia indotta dalla dea della discordia. Paride fu chiamato da Zeus come arbitro per dirimere la controversia su chi fosse, tra Era, Atena e Afrodite, la più bella e attribuirle il pomo lanciato da Eris, la dea discordia. La terzietà nella scelta di Paride fu voluta da Zeus nonostante lui stesso fosse legittimato nel giudizio.

L’arbitrato sorge come evoluzione della società primitiva che rinuncia al regime di vendetta privata per sottomettere le liti al giudizio di una persona della comunità più qualificata per virtù e onestà denominata arbitro o conciliatore, scelta di comune accordo dai contendenti. Una delle tappe del progresso sociale è stata l’abbandono dell’uso della forza e il passaggio dalla giustizia privata alla giustizia arbitrale.

Platone riguardo alle controversie sorte sul possesso dei beni o sul comportamento di uno schiavo emancipato ritiene che “i processi per costoro siano di competenza dei tribunali e delle tribù, a meno che le parti non pongano fine alle imputazioni reciproche presso dei vicini o dei giudici da loro scelti” (Platone, Le leggi, Dialogo XI).

Secondo Seneca l’arbitro, a differenza del giudice, può decidere ancor prima che secondo legge e giustizia, con umanità e misericordia “non prout lex aut iustitia, sed prout humanitas aut misericordia regere” (Seneca, De beneficiis, 3.7.5).

Per Aristotele è meglio “preferire un arbitro piuttosto che una lite in tribunale, infatti l’arbitro bada all’equità, il giudice alla legge. L’arbitrato è stato inventato proprio per questo, per dar forza all’equità” (Aristotele, Rhetorica, 1.13.13).

Un esempio di giustizia arbitrale è descritto nel libro dell’Esodo per regolamentare la richiesta di risarcimento del danno senza cadere nella vendetta personale: “Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato” (Es 21, 22).

Nel Libro della Genesi un esempio di arbitrato lo si trova nel rimprovero di Giacobbe a Labano che lo accusa di essersi impossessato dei suoi idoli, in realtà trafugati da Rachele a sua insaputa. Per cui Giacobbe dice a Labano: “Ora che hai frugato tra i miei oggetti, che hai trovato di tutte le robe di casa tua? Mettilo qui davanti ai miei e tuoi parenti e siano essi giudici tra noi due” (Gen 31, 37). Troviamo anche Mosè arbitro nelle controversie tra capi di famiglia: “Mosè rispose al suocero: “Perché il popolo viene da me per consultare Dio. Quando hanno qualche questione, vengono da me e io giudico le vertenze tra l’uno e l’altro e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi” (Es 18, 16).

Nel Vangelo possiamo rinvenire un esempio di arbitrato nella richiesta rivolta a Gesù di dirimere una controversia sorta tra due fratelli sull’eredità da dividere: “Uno della folla gli disse: «Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12, 13-14). Sotto l’aspetto strettamente giuridico la risposta di Gesù solleva una questione di legittimità sulla richiesta che gli viene rivolta in quanto nell’arbitrato sono entrambe le parti in causa che scelgono di comune accordo uno che sia al di sopra per dirimere la controversia. In realtà Gesù vuole appellarsi al fondamento biblico nella distinzione tra giustizia temporale giustizia spirituale.

San Paolo nella prima lettera ai Corinti (1 Cor 6, 2-9) ha presente l’istituto dell’arbitrato e lo indica come soluzione per dirimere le controversie sorte tra i cristiani di quella Chiesa anziché ricorrere ai tribunali civili. è preferibile subire l’ingiustizia e lasciarsi privare di ciò che un cristiano possiede piuttosto che trascinare il fratello nella fede in giudizio e per giunta davanti a giudici pagani. Il ricorso dovrebbe essere rivolto alla comunità dove poter trovare giustizia. Per questo San Paolo pone in senso interlocutorio la domanda: “non vi sarebbe proprio nessuna persona saggia tra di voi che possa far da arbitro tra fratello e fratello? No, anzi, un fratello viene chiamato in giudizio dal fratello e per di più davanti a infedeli!” (1 Cor. 6, 5-6).

San Paolo, nel rivolgersi ai Corinti propone il ricorso all’arbitrato essendo un istituto presente nell’ordinamento giuridico ellenico del tempo. Quindi, la funzione dell’arbitro scelto all’interno della comunità risponde all’esigenza di risolvere in via ordinaria le controversie sul piano temporale, non per particolare diffidenza sull’onestà dei giudici pagani. Per altro, proprio San Paolo esorta i cristiani a stare sottomessi all’autorità (Rm 13, 1-7). I magistrati pagani non possiedono la giustizia conferita da Dio, mentre l’arbitro scelto nella comunità tra i fratelli agisce come fratello nella fede, al rigor iuris fa prevalere l’aequitas cristiana in un connubio tra verità, giustizia e misericordia.

San Paolo rimane silente circa la composizione delle liti tra cristiani e pagani ed è evidente che in questi casi dovesse prevalere la giurisdizione laica pagana, non senza fare un tentativo di composizione della lite ricorrendo a una sorta di recuperator, un arbitro cristiano sul modello di figure analoghe conosciute nel diritto romano.

In epoca medievale l’istituto dell’arbitrato prende forma nella episcopalis audientia. I fedeli godevano della facoltà di sottoporsi al giudizio del Tribunale del Vescovo da loro eletto a essere arbitro nelle liti, anziché ricorrere alla magistratura statale, marcando verso di esso una maggiore fiducia rispetto alla struttura pubblica.

Da quanto detto, la Chiesa cattolica fin dalle origini, ma soprattutto nell’epoca del diritto comune, ha favorito il ricorso al sistema arbitrale non solo come figura terza per risolvere nelle vesti di arbitro le controversie, ma anche nelle liti in questioni di natura civile divenendo spesso l’arbitrato vescovile una procedura previa prima di fare ricorso alla giustizia ordinaria. L’arbitrator, con potestà diversa dalla iurisdictio del giudice, era un compositore della lite che risolveva in via equitativa ex bono et aequo in un ambito di natura privatistica. L’arbiter, invece, con potere prossimo alla iurisdictio del giudice, doveva procedere secondo le formalità del giudizio ordinario secundum iudiciorum ordinem.

Come era avvenuto dopo la caduta dell’impero romano, attraverso l’istituto dell’arbitrato si vede la continuità dell’organizzazione statale che fa propria la tradizione giuridica romanista fino a entrare nell’ordinamento canonico. Anche in età moderna negli Stati protestanti europei la tradizione giuridica romanista continuò a sopravvivere per la presenza di missionari cattolici che si avvalevano della normativa canonica nell’esercizio del loro apostolato.

Le definizioni arbitrali con frequenza crescente sostituivano le sentenze dei magistrati. L’arbitro godeva di una potestà delegata svolgendo una funzione analoga a quella ordinaria del giudice.

Parallelamente, con l’affermazione delle corporazioni professionali di commercianti e artigiani si estende anche il fenomeno arbitrale come alternativa alla giurisdizione statale. Tuttavia, a differenza di quanto accedeva nel diritto romano, essendo l’arbitrato imposto ex lege, la decisione arbitrale detta laudum, doveva fondarsi sul diritto piuttosto che sull’arbitrium e trovare omologazione con l’exequatur da parte del giudice pubblico.

L’esercizio dell’arbitrato conosce un declino con l’assolutismo, mentre la funzione giudiziale rimane prerogativa dello Stato moderno. Tuttavia, l’arbitrato non ha cessato mai fino ai nostri giorni in tutti i sistemi giuridici di essere strumento efficace per dirimere le controversie.

Il vigente Codice di Diritto Canonico conosce l’istituto dell’arbitrato affidato all’ufficio del giudice: “Se la lite verte su interessi privati delle parti, il giudice consideri se la controversia possa avere fine utilmente mediante la transazione o il giudizio arbitrale, a norma dei cann. 1713-1716” (can. 1446 §3). Il Legislatore canonico indica quale modo per evitare i giudizi il ricorso al compromesso arbitrale: “Per evitare le liti giudiziarie, si può ricorrere utilmente alla transazione o conciliazione, oppure si può sottoporre la controversia al giudizio di uno o più arbitri” (can. 1713).

Con l’arbitrato le parti in lite sottoscrivono un contratto con l’intento di affidare la decisione della controversia a terze persone, cioè a giudici privati detti arbitri.

L’arbitrato, quindi, è un istituto giuridico che entra nella storia dell’umanità accompagnandola nel lungo percorso di civilizzazione, nel passaggio dalla giustizia privata, dalla risoluzione dei conflitti come vendetta personale all’individuazione di alcune regole per dirimere la disputa affidata dai contendenti a un arbitro o conciliatore. La giustizia arbitrale si rivela come prima necessità dell’uomo nello stabilire relazioni sociali fondate sulla convivenza pacifica, nel passare dal mondo dell’uomo selvaggio verso la civilizzazione, nel percepire di alcuni principi primi della giustizia come li ha enucleati Ulpiano: “iuris praecepta sunt honeste vivere, alterum non laedere, suumque tribuere” (Ulpiano, Regole, D. 1.1.10 pr.).

L’evolversi della giustizia arbitrale inizia il suo percorso nella mitologia come memoria delle civiltà antiche di avvenimenti realmente accaduti. L’arbitrato lo troviamo presente nella sacra pagina dell’Antico e Nuovo Testamento, nell’ordinamento giuridico romano e successivamente nell’ordinamento canonico. La funzione giudiziaria è propria dello Stato moderno, ma l’arbitrato continua a sopravvivere fino ai nostri giorni per risolvere pacificamente le controversie senza procedimento giudiziario ricorrendo a un soggetto terzo.




In ricordo di quei morti che non fanno notizia

Le dinamiche in cui questi missionari hanno perso la vita, puntualizza il dossier, sono spesso «tentativi di rapina o di furto, compiuti anche con ferocia, in contesti sociali di povertà, di degrado, dove la violenza è regola di vita, l’autorità dello stato latita o è indebolita dalla corruzione e dai compromessi, o dove la religione viene strumentalizzata per altri fini». Ognuno di loro, pur essendo consapevole dei rischi che correva, è rimasto al proprio posto per adempiere con fedeltà ai propri compiti.

Il rapporto racconta in sintesi anche le circostanze della morte dei vari missionari. Abbiamo José Maltez che faceva parte dell’Oratorio Salesiano e che è morto per un colpo al torace durante gli scontri tra bande e gruppi di difesa della città. Sandor Dolmus, quindici anni, giovane ministrante della Cattedrale di Leon (Nicaragua), è stato ucciso da paramilitari il 14 giugno 2018. Si trova per strada, insieme ad altri ragazzi, vicino alla chiesa di San José, nella zona di Zaragoza, a Leon, quando è stato colpito al petto da una pallottola sparata da un gruppo di paramilitari. Quelli che lo conoscevano ne parlano come un ragazzo molto buono e servizievole, che desiderava diventare sacerdote. E’ stato sepolto con l’abito dei ministranti.

Don Joseph Désiré Angbabata, parroco di una chiesa nel centro-sud della Repubblica Centrafricana è morto in seguito alle ferite che gli sono stati inferte da un gruppo armato che ha assaltato la sua parrocchia che si trovava in una zona strategica non solo per la sua posizione centrale, ma anche per la presenza di miniere di oro e diamanti ambite da diversi gruppi armati.

La perdita dell’egemonia americana e la nuova guerra fredda

foto1di Mario Alexis Portella • Il 4 ottobre 2018, il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, ha pronunciato un caustico discorso a Washington, sciorinando una lunga lista di gravi addebiti alla Cina. A partire dalle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale alla presunta ingerenza nelle elezioni statunitensi, Pence ha accusato Pechino di infrangere norme internazionali e di agire contro gli interessi americani. Il tono era abbastanza insolito e tagliente tanto da essere interpretato come un prodromo di una nuova guerra fredda tra le due potenze.

à tornerà, con la Cina che interpreta il ruolo di superpotenza. La transizione sarà probabilmente un evento tumultuoso, forse addirittura violento, poiché l’ascesa della Cina metterà il paese in rotta di collisione con gli Stati Uniti su una serie di interessi. Ma mentre Washington si svincola lentamente da alcuni dei suoi impegni diplomatici e militari all’estero, Pechino non ha ancora un piano chiaro per riempire questo vuoto di leadership e ridefinire da zero un nuovo assetto geo-politico internazionale.

di Russia e Cina nel prossimo decennio si concentrerà principalmente sul mantenimento delle condizioni necessarie per la continua crescita economica dei due paesi, un obiettivo che potrebbe indurre i leaders di Mosca e Pechino ad evitare lo scontro aperto con gli Stati Uniti, ma non necessariamente con i suoi alleati.foto 2

à non è, pertanto, “guerra fredda” quanto piuttosto “pace calda”.

Donald Trump, con le sue pubbliche manifestazione di ammirazione per Vladimir Putin, gli ha sostanzialmente offerto, a giudizio di alcuni osservatori nazionali, l’opportunità di interferire a suo favore nelle elezioni americane del 2016. Considerata questa, la prima volta da quando, negli ultimi dieci anni, la Russia ha iniziato a servirsi di tali strumenti cibernetici, come arma politica. Di conseguenza, Putin sta sostituendo l’egemonia americana in varie regioni del Medio Oriente, così come Xi Jinping la sostituisce in Africa.

é tutti parlano russo>>, ma ha anche denunciato il Trattato stipulato nel 1987 con Mosca sugli armamenti nucleari ad intervallo intermedio inducendo così Putin a (o almeno fornendogli il pretesto per) muoversi più liberamente nei rapporti con l’Usa e i suoi alleati.

à, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali>>. Per averne conferma si pensi alle guerre per procura tra le potenze nel mondo islamico o al commercio del petrolio e di altre risorse naturali, in nome dei quali giustificano spesso anche le diffuse violazioni di ogni diritto umano. E a questo punto mi appare importante riportare altre parole pronunciate dallo stesso Paolo VI che meritano una profonda riflessione: <<La pace non può essere basata su una falsa retorica di parole, bene accette perché rispondenti alle profonde e genuine aspirazioni degli uomini, ma che possono anche servire, ed hanno purtroppo a volte servito, a nascondere il vuoto di vero spirito e di reali intenzioni di pace, se non addirittura a coprire sentimenti ed azioni di sopraffazioni o interessi di parte>>.




Considerazioni di un liberale atipico

jesper-jespersendi Giovanni Campanella • Nel 2016, la casa editrice Castelvecchi ha pubblicato un piccolo libro, intitolato Sono un liberale?, all’interno della collana “Eliche”. Nel libro, Jesper Jespersen ha raccolto alcuni piccoli interventi dell’illustre economista John Maynard Keynes su tematiche di pensiero sociale, aggiungendo una prefazione ed una introduzione. L’edizione italiana è curata dall’economista Bruno Amoroso.
John Maynard Keynes, nato a Cambridge nel 1883 e morto a Tilton nel 1946, è considerato il padre della teoria macroeconomica (nella prefazione, Jespersen arriva addirittura a chiamarlo l’«Einstein dell’economia»).

«Dopo gli studi a Eton e Cambridge, lavora come funzionario all’India Office. Durante la Prima Guerra Mondiale è al Ministero delle Finanze e negli anni immediatamente successivi elabora la sua critica all’ortodossia liberista» (copertina).

Il primo scritto proposto, Le mie prime convinzioni (il titolo originale è My Early Beliefs), non è di facile lettura: tratta di sottili temi di filosofia morale e di filosofia politica. In esso, Keynes racconta i giovanili scambi di opinione con gli altri membri del circolo di intellettuali di Bloomsbury. Illustra il suo tragitto interiore dall’affrancamento dall’utilitarismo benthamiano di matrice vittoriana all’approdo al cosiddetto “individualismo olistico”. Jespersen ammette che in effetti questa definizione

Sono un liberale? (il titolo originale è Am I a Liberal?) è la trascrizione di un discorso tenuto da Keynes nel 1925 durante la Liberal Summer School di Cambridge. In esso, Keynes prende le distanze dal Partito Conservatore e dal Partito Laburista, anche se confessa di avere una lieve affinità con le frange centriste del secondo. Sembra che il piccolo Partito Liberale sia il gruppo a lui più consentaneo. Tuttavia, si distacca dagli ultra-liberali sottolineando la grande importanza di interventi statali per favorire il benessere sociale. Ricorrenti sono gli inviti alla politica a intervenire senza tentennamenti per combattere il flagello della disoccupazione, un male per tutti perché è espressione dell’inutilizzo di risorse per rafforzare il circuito economico di cui ognuno si giova. Far del bene agli altri non mira (solo) a ottenere il paradiso in cielo ma ottenerlo qui sulla terra. Per Keynes (come già per un liberale sui generis come Locke), interesse individuale e interesse pubblico non sono affatto antagonisti. Tutt’altro.
Lo scritto Liberalismo e laburismo, è un estratto dal discorso tenuto al Manchester Reform Club il 9 febbraio 1926. L’ultimo paragrafo è emblematico, degno di nota e dà una sintesi generale degli orientamenti di Keynesfee-john-maynard-keynes

Il cardinale Josef Beran e la «Dignitatis Humanae»

, dal 50° anniversario della morte del cardinale Josef Beran (1888-1969) un martire e un difensore della libertà religiosa, che proprio su tale diritto svolse un memorabile intervento durante i lavori del Vaticano II. E’ bene riandare, sia pur brevemente, alla storia della sua vita. Josef Beran era nato il 29 dicembre 1888 a Plzen, in Boemia, venne ordinato sacerdote il 10 giugno 1911, e conseguì il dottorato in Teologia a Roma presso la Pontificia Università Urbaniana. Rientrato in patria insegnò nel Seminario arcivescovile di Praga divenendone, poi, rettore nel 1932. Dopo il Patto di Monaco del 1938 Hitler instaurò il cosidetto protettorato germanico sulla Boemia e Moravia, Beran per le sue posizioni contrarie all’ideologia nazista era sorvegliato dalla Gestapo. Nel giugno del 1942 annunciò che avrebbe celebrato una Messa per gli ufficiali cecoslovacchi prigionieri dei tedeschi e che l’avrebbe fatto in lingua ceca, disobbedendo alle direttive dei nazisti. Fu arrestato come sovversivo e pericoloso. Dopo un brutale interrogatorio, fu incarcerato, poi mandato a spaccare pietre, quindi il 4 settembre 1942 fu deportato nel campo di concentramento di Dachau, nel quale furono reclusi oltre 2700 ecclesiastici, tra i quali i preti italiani Don Roberto Angeli e Don Paolo Liggeri, coi i quali strinse una grande amicizia. Il 29 aprile 1945 il campo di Dachau venne liberato dalle truppe americane e anche Josef Beran potè tornare a Praga divenendo professore ordinario di teologia pastorale all’Università «Carlo IV». Il 4 settembre 1946 Pio XII lo sceglie come nuovo arcivescovo di Praga. Nel 1948 coll’avvento del comunismo in Cecoslovacchia inizia una durissima politica di riduzione e di lesione delle libertà dei cittadini, in particolare di quella religiosa. Beran dopo aver tentato, invano, di aprire trattative con lo Stato per garantire un minimo di garanzie all’azione della Chiesa, prese atto di una serie di gravi soprusi e il 25 febbraio 1948 pubblicò una lettera pastorale contro il nuovo regime totalitario. L’arcivescovo Josef Beran venne messo agli arresti domiciliari il 16 giugno 1949, successivamente venne trasferito nel castello di Rozelov e in altre residenze fuori dalla diocesi e gli fu negato qualsiasi contatto con il mondo. San Giovanni XXIII gli inviò una lettera, nel maggio 1961, per il suo giubileo sacerdotale, ma la missiva fu respinta al mittente con la dicitura «senza recapito». Il 4 ottobre 1963, dopo lunghi contatti con la Santa Sede, il governo comunista concesse una specie di grazia a Josef Beran, attenuando il duro regime di internamento, ma non gli fu consentito di riprendere il governo dell’arcidiocesi di Praga. Nel 1965 gli venne accordato il permesso di partecipare al Concilio Vaticano II, ma a condizione di non rientrare più in Cecoslovacchia. Josef Beran per il bene della Chiesa accettò l’esilio a Roma. San Paolo VI lo creò cardinale, del titolo di Santa Croce in Via Flaminia, nel Concistoro del 22 febbraio 1965. Come si è scritto il cardinale Beran partecipò all’ultima sessione del Concilio Vaticano II, in particolare presentò alcune riflessioni di grande valore durante il dibattito sulla stesura della Dichiarazione «Dignitatis Humanae». Josef Beran dopo aver ricordato come la Chiesa in Boemia stesse espiando dolorosamente per gli errori e i peccati commessi in suo nome, nei tempi passati, contro la libertà di coscienza, come fu nel secolo XV il rogo di Giovanni Hus e nel secolo XVI la forzata conversione di gran parte del popolo boemo alla fede cattolica in base al principio «cuius regio eius et religio», annotava che questo trauma era stato di impedimento al progresso della vita spirituale ed aveva, inoltre, fornito e forniva facile materia di polemica ai nemici della Chiesa. Pertanto anche la storia ammoniva a che nel Concilio si dichiarasse con chiare parole e senza alcuna restrizione, il principio della libertà religiosa e della libertà di coscienza. Il cardinale Beran esortò a non ridurre la forza di questa Dichiarazione conciliare, invitando ad aggiungere a conclusione del testo queste o simili parole: «La Chiesa cattolica insistentemente prega per tutti i governi di questo mondo perché estendano efficacemente il principio della libertà di coscienza a tutti i cittadini, e perciò anche ai credenti in Dio, e cessino da qualsiasi oppressione della libertà religiosa. Vengano liberati immediatamente sacerdoti e laici che, per causa religiosa, sotto diverse accuse, da molti anni sono detenuti in carcere. Vengano restituiti al loro gregge molti Vescovi e sacerdoti impediti nel loro ufficio. Sia restituita alla Chiesa, in quegli Stati dove mediante leggi ingiuste essa è abbandonata all’arbitrio di magistrati a lei ostili, l’interna autonomia e un facile esercizio della comunione con la Sede di Pietro. Si cessi dal frapporre ostacoli ai giovani che vogliono abbracciare il sacerdozio o la vita monastica. Sia nuovamente consentita la vita comunitaria agli ordini religiosi. Infine a tutti i fedeli sia data un’effettiva libertà di professare la fede, di predicare e di spiegare positivamente le verità rivelate e di educare religiosamente i figli. E così si farà una vera opera di pace». Il cardinale Josef Beran morì a Roma il 17 maggio 1969 e fu sepolto nelle Grotte Vaticane. Il 20 aprile 2018 le sue spoglie sono state definitivamente traslate nella Cattedrale di Praga.




È legittimo, anzi opportuno, l’uso di eufemismi per parlare della morte in un discorso cristiano

depositphotos_111129196-stock-photo-ascent-to-heavendi Gianni Cioli • Recentemente una lettrice del settimanale Toscana oggi poneva la questione se l’uso di eufemismi per parlare della morte («scomparsa», «transito», «trapasso») o di chi è morto («splende di nuova luce», «non è più tra noi», «è salito al Padre», «si è spento», «è venuto a mancare») non possa essere il sintomo che anche noi cristiani tendiamo ad esorcizzare la morte pur avendo fede nell’aldilà. Si tratta in verità di un’opinione non isolata e che mi è capitato di trovare anche nelle pagine di una tesi di laurea elaborata presso l’Istituto di scienze religiose. Personalmente ritengo che una simile interpretazione, pur nascendo da una preoccupazione giustificata, non colga nel segno e possa in effetti condurre, se non ad una visione culturalmente forviante, quanto meno ad un impoverimento del linguaggio.

Certo, ritengo che sia del tutto giustificata la critica alla censura al tema della morte che, nel corso del XX, secolo ha indubbiamente preso campo nelle società occidentali (cf. Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente: dal Medioevo ai giorni nostri, Milano 1978). Nella Chiesa e nella società tornare a parlare senza imbarazzo della morte è oggi, a mio parere, non solo opportuno ma anche necessario. La coscienza della sua ineluttabilità ci permette infatti di prepararci meglio ad affrontare il momento della morte e ci aiuta a vivere la vita con più generosità e amore, mentre la sua completa rimozione dall’orizzonte dei nostri pensieri quotidiani induce angoscia e paura.

Inoltre il non censurare la morte a livello sociale appare un presupposto imprescindibile per dare, a chi abbia subito la perdita di un congiunto, la possibilità di elaborare adeguatamente il lutto senza imbarazzi e remore, esprimendo pubblicamente e simbolicamente il proprio dolore, per ricevere la solidarietà altrui. Il dolore per una perdita importante non può ridursi a un mero fatto privato. Significativi studi nel campo della psicanalisi come nel campo dell’antropologia culturale hanno messo in evidenza l’importanza della manifestazione sociale del lutto. Là dove questa viene a mancare perché la morte è rimossa dalle relazioni sociali cresce il disagio e si facilitano i casi di depressione.

Sono convinto che la predicazione e la catechesi proposte dalla Chiesa debbano oggi dedicare particolare attenzione non solo alla morte ma anche alle tematiche escatologiche in genere, dette altrimenti anche novisimi, per riaffrontarli con un linguaggio adeguato alla cultura contemporanea.

Premesso questo non sono invece d’accordo sul fatto che l’utilizzo di eufemismi per definire la morte debba essere indicativo di questa tendenza «ad esorcizzare la morte» stessa.

In effetti l’uso di eufemismi per definire la morte e tutto ciò che ad essa è collegato non è affatto una prerogativa della cultura postcristiana ma, al contrario, è ampiamente presente nella tradizione cristiana già a partire dal Nuovo Testamento e, piuttosto che il tentativo di esorcizzare la morte, può essere espressione della volontà di parlarne in maniera qualificata, con rispetto e delicatezza per le persone che vivono il lutto e, soprattutto, con uno sguardo particolare all’orizzonte della fede.

Se ad esempio mi rivolgo a chi vive una situazione di lutto manifestandogli la mia partecipazione al suo dolore per la perdita del caro congiunto, o mi esprimo dicendo che l’amico è venuto a mancare, non voglio necessariamente esorcizzare la morte né tanto meno banalizzarla, ma probabilmente la considero nella sua serietà dolorosa di perdita incolmabile che ha bisogno di essere affrontata con il tempo e l’accompagnamento della comunità, in particolare degli amici. Se ricordando qualcuno che è stato significativo per la comunità lo definisco come il nostro compianto amico piuttosto che semplicemente come il nostro amico che morto, voglio semplicemente sottolineare che siamo stati addolorati dalla sua morte e che ci manca, che si sentiamo insomma un po’ orfani. Se poi dico che splende di nuova luce, o che è salito al Padre – per rifermi ad eufemismi ricordati dalla lettrice – potrei magari anche inconsciamente voler esorcizzare la morte, ma forse voglio piuttosto semplicemente esprimere e condividere un sentimento di speranza cristiana. Anche quando si parla di transito o di passare a miglior vita ci si rifà di fatto, che ne siamo consapevoli o no, ad espressioni della tradizione cristiana potenzialmente significanti la certezza di fede che, a chi è fedele, «la vita non è tolta ma trasformata».

Oltretutto, come si diceva, eufemismi particolarmente significativi circa la morte sono già presenti nel Nuovo Testamento, in genere con una ben precisa implicanza teologica.

In conclusione, gli eufemismi a riguardo della morte ci sono sempre stati nel linguaggio umano, anche – e in particolare – in quello cristiano. Anzi nel linguaggio cristiano hanno spesso avuto la felice funzione di offrire della morte un’interpretazione teologica ben precisa. Sebbene – lo concedo – oggi si possa correre il rischio, in un contesto culturale scristianizzato, di usarli per consuetudine e senza riflettere sulla loro pregnanza.




«Solitudine e preghiera». Irénée Hausherr sulla tradizione esicasta

Il discorso del papa alla Curia: necessità della conversione della Chiesa

La corruzione dilaga, dice il papa, nei ministri della Chiesa, quando – commettendo come una sorta di reato di “peculato spirituale” – si appropriano di “cose” che non appartengono loro e che essi stessi dovrebbero al contrario servire: le cose sante del Signore, che non sono altro che il popolo di Dio e la sua santificazione. Non dovrà più accadere, scrive Francesco, che i casi di abusi siano affrontati con superficialità, leggerezza, pressappochismo, impreparazione… E non si dovranno accusare i media di ostilità pregiudiziale nei confronti della Chiesa, nel momento in cui rivelano la veridicità delle accuse: anzi, essi diventano quasi strumenti di conversione per la Chiesa, posta davanti alla verità dura e amara di abusi e delitti commessi da propri membri. La Chiesa ha bisogno di odierni Natan: di profeti, cioè, che come accadde a Davide mostrino ai consacrati da quale dignità ministeriale essi siano caduti e quale giudizio spetti loro.

La Pace e le Beatitudini della Buona Politica

Solo così “ognuno può apportare la propria pietra alla costruzione della casa comune”. E questo vale soprattutto nei tempi odierni, caratterizzati da “un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi”, e si manifesta “purtroppo attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno”. L’Europa e l’Occidente, che hanno perso la bussola, sapranno cogliere questo ammonimento ?