Presentazione degli articoli del mese di giugno 2020

downloadAndrea Drigani nel centenario della nascita di San Giovanni Paolo II lo ricorda come il grande legislatore della Chiesa, con la promulgazione del Codice latino del 1983 e del Codice orientale del 1990, nonché come il maestro del «Ius Sacrum». Giovanni Campanella rammenta la figura di Antonio Genovesi (1713-1769), oggetto di una recente biografia di Pasquale Giustiniani, un sacerdote che in pieno Settecento, anticipando il magistero della Chiesa, sostenne la stretta connessione tra etica, economia e politica. Dario Chiapetti con il volume del teologo francescano Domenico Paoletti richiama il tema della «minorità» che si radica sulla vita di Gesù che spogliò se stesso per scegliere la povertà, l’umiltà, la morte e per questo la Gloria. Carlo Parenti per contribuire al dibattito sull’eventuale vaccinazione anticovid-19, ripresenta la generosa esperienza del medico e virologo Albert Sabin, che negli anni Cinquanta del secolo scorso, trovò il vaccino che ha debellato la poliomielite. Giovanni Pallanti in margine ad un corso di storia del cattolicesimo toscano del Novecento, invita a meditare sulla presenza nella Chiesa, al di là di peccati e omissioni, di sacerdoti, forse non famosi, ma esemplari per virtù teologali. Mario Alexis Portella con l’aforisma: «historia concordatorum, historia dolorum» introduce al tema complesso degli accordi tra la Chiesa e gli Stati, in particolare quelli autoritari o totalitari, che spesso non realizzano appieno la tutela dei diritti umani e cristiani. Leonardo Salutati riflette sulle manovre speculative durante la pandemia, che sono estranee a quest’ultima, essendo invece espressione di un avventurismo finanziario già prefigurato dall’Enciclica «Quadragesimo anno». Stefano Tarocchi annota che certi potentati politici ed economici, ieri come oggi, hanno lucrato sul dolore e sulla morte, tuttavia il Libro dell’Apocalisse preannuncia comunque la loro fine perché la vittoria sarà sempre del «Re dei re» e del «Signore dei signori». Antonio Lovascio dinanzi alle difficoltà della attuale situazione economica e sociale italiana indica un triplice progetto: l’impegno per la coesione sociale, la cura del «capitale umano», la lotta contro la «povertà educativa». Francesco Vermigli prendendo spunto da San Giustino martire, prototipo del sapiente cristiano che rintraccia elementi di verità nelle culture e nelle filosofie non cristiane, rileva, che nel filosofare, deve essere presente la radicalità del riferimento cristologico. Alessandro Clemenzia riferisce sull’istituzione di una nuova commissione di studio sul diaconato femminile, decisa da Papa Francesco, per un approfondimento storico e anche per riflettere sul ruolo della donna nella Chiesa. Gianni Cioli da un episodio evangelico (Gv 6,1-15) medita sulla risorgente povertà causata dalla pandemia, che può essere contrastata solo con senso di donazione proprio dei semplici e dei bambini. Stefano Liccioli interviene sul dibattito in corso sulla storia della solidarietà che non si fonda soltanto sull’antica filantropia (Enea che porta Anchise), ma principalmente sulla carità cristiana (il buon Samaritano). Carlo Nardi fa memoria di un prete fiorentino Mario Naldini (1922-2000), docente universitario di patrologia e di papirologia, promotore della «Biblioteca Patristica» e delle «Letture Patristiche», che ha fatto interessare ed avvicinare ai Padri della Chiesa. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si affronta la tematica della vigente organizzazione dell’università, non intesa come comunità accademica, perchè preoccupata più della concorrenza che della collaborazione.




Don Mario Naldini e le «Voci della Chiesa antica».

9788810420379di Carlo Nardi · Nel disporre le mie carte trovai un opuscolo del mille novecento novanta. L’aveva scritto don Mario Naldini (Impruneta 1922 – Careggi 2000), prete fiorentino, canonico di San Lorenzo, docente di papirologia e patrologia, nonché promotore della Biblioteca patristica e delle Letture patristiche nell’ambito del Centro di Studi Patristici, da lui avviato con attenta cura. Con le sue competenze nella scienza del tutto accurato divulgò seri e piacevoli scritti. Tra i preti dell’Opera della Madonnina del Grappa a Rifredi, mons. Corso Guicciardini e don Carlo Zaccaro chiesero per Il focolare a Naldini qualche scritto sui Padri della Chiesa e simili. Don Mario un po’ bofonchiò, ma poi ci prese gusto. Il secondo era tra I quaderni del ‘focolare’ apparve: Mario Naldini, Voci della Chiesa antica, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1980. Quindi un “Gesù sulla barca con gli apostoli: simbolo della chiesa (da un papiro figurato del VI secolo conservato al Museo archeologico di Firenze)”. E a questo punto a don Mario:

Premessa. / Tre anni or sono accolsi l’invito a scrivere qualche pensiero d’ispirazione patristica per “il focolare”, a riflettere cioè su alcune significative testimonianze dell’antichità cristiana con l’occhio rivolto alla storia e alla vita dei nostri giorni, e con la pretesa d’intendere, sia pure alla buona, il flusso vitale di una ‘tradizione ‘ perenne. / Il tentativo di presentare questa sorta di meditazione con un linguaggio piano e insieme espressivo è forse riuscito soltanto in parte; tuttavia è parso utile ad alcuni amici e a me stesso di raccogliere in quaderno i “pensieri” comparsi volta a volta su “il focolare”. Si tratta di brevi riflessioni su alcuni temi dell’anno liturgico e su qualche esperienza peculiare della vita umana e cristiana. Sono poche pagine, forse troppo poche in confronto a quante se ne potrebbero scrivere; ma la brevis oratio ha sempre il vantaggio, qualora non colga bene nel segno di ottenere con facilità il compatimento del lettore indulgente. / M. N. / 10 Agosto 1980 / Festa di S. Lorenzo (p. 3).

L’attenzione è al tempo, anzi all’anno: c’è il Verbo fatto carne a Betlemme, il miserere della conversione, la Pasqua del Risorto, la Pentecoste, che si avvia la santissima Trinità, la Chiesa di san Pietro, mistero e ministero nel Cristo Gesù, la Madre della salvezza, i Padri per la vita nostra e il prossimo con attenzione ‘il segni dei tempi’.

Infine “Finito di stampare dalla Tipografia Opera Madonnina del Grappa, Firenze, via d. Giulio Facibeni, 13 nel mese di luglio 1980” (p. 61). Don Naldini mi lesse, ancora in bozze, la Premessa, chiedendomi lumi. Quel modo di dire, “pensiero d’ispirazione patristica”, fu un mio pensiero che avevo in mente con il filosofico Jacques Maritain, e a Naldini parve adatto e ci rimase. D’altra parte, in un faldone dello stesso 1980 ritrovo un mio scritto Riflessioni d’ispirazioni patristica sul problema del senso della vita, che nel 1983 inviai come Il senso della vita. Riflessioni d’ispirazione patristica per la Rivista di ascetica e mistica, già Vita cristiana (52, pp. 20-24).

Intanto, domenica 14 dicembre 1980, era uscita dall’Osservatore Romano (p. 3) una mia recensione in merito alle Voci:

Chi ha letto la raccolta di “riflessioni d’ispirazione patristica” di Mario Naldini, gustando quelle “significative testimonianze dell’antichità cristiana”, sente riecheggiare una coralità multiforme di voci (…) delle tradizioni più diverse dell’orbe cristiano antico. (…) testimonianze letterarie dallo stile elevato e documentarie dal tono colloquiale, illustri dottori della Chiesa e personaggi altrimenti sconosciutici ci vengono incontro per parlare delle cose del loro tempo, ma anche per introdurci ad “intendere il flusso vitale di una ‘tradizione’ perenne”. (…)

Le pagine del Naldini dono sostanziate dell’acribia del filologo che non si esime del rigore, apparentemente arido, della lettura, (…) pervasa di maxima reverentia di fronte ad ogni frammento di umanità che sia testimone di una “fede vivente di una tradizione consacrata”, come si esprimeva Johann Adam Moehler (1796-18).download (6)

Ogni parola umana, che si impregna si divino, rimanda ad un preliminare lavoro di decifrazione, perché, insieme agli autori, vengono in mente al lettore puntuali contributi (…).

Nel 1998 è un altro suo scritto: Mario Naldini, Tempi dello spirito. Voci dei Padri, Nardini Editore, Fiesole 1998, tra le Letture patristiche 5, con una copertina: “Pentecoste e predica di San Pietro. Antifonario (A4), c. 87r, del sec. XIV, Museo di Santa Maria all’Impruneta”, la sua cara Impruneta col Natio borgo selvaggio” del pacioso Ferdinando Paolieri imprunetino, che lo chiappò, tutto dire, dal malinconico immane Leopardi.

Ancora. Nelle Voci è una xilografia di Pietro Parigi (Settimello di Calenzano 1892 – Firenze 1990: cf. Anna Maria Manetti Piccini, La sgorbia esigente. Pietro Luigi xilografo dal 1920 al 1988, Il Ponte, Firenze 1988). Quella xilografia è la stessa, salvo l’ampiezza, nel Il vero Sesto Cajo Baccello. Giuda dell’agricoltore. Lunario per l’anno. Li si vede una famigluola con babbo stracco e mamma all’opera, e una giovinetta a far la calza e un mimmo per le terre. Vicino è un totto e un micio stizzito. Poi il gallo con diverse checche che fan coccodè, e in alto un ben d’Iddio: il mommo. Ma sora Alvara, spocchiona, sbotterebbe col suo dire: Che basso ceto! E forse anche con un: Cecco, le vacche e’ boi, come, ironici, pensavano i cosiddetti signori.

Eppure, talvolta c’era una schiettezza, quella della povera gente. Penso al dotto, a suo modo, e pio e generoso, il sarto nei Promessi Sposi con i suoi racconti della Tebaide (cap. XXIV), e dei Padri del deserto e il Leggentario de’ Santi (cap. XXIX) in volgare, che pur si trovano, e in greco e in latino, ai tempi di sant’Antonio abate (130-140 circa) nell’antico Egitto. E poi santa Tebaide ed il Sant’Antonio ‘dalla barba bianca’ su tutte, o quasi, le case dei contadini.

Cf. C. Nardi, Voci della Chiesa antica, in L’Osservatore Romano 120, domenica, 14 dicembre 1980, p. 3. In Rivista di Ascetica e Mistica 17 (Vita Cristiana 61), 1992, pp. 255-461: Testimonianze di spiritualità patristica, con Mario Naldini, Presentazione, pp. 255-227, con Michele Ranchetti, Mario Luzi, Enrico Livrea, Massimo Baldini, Carlo Nardi, Paolo Giannoni, Clara Burini, Lorenzo Perrone, Giordano Frosini, Paolo Carrara, Elena Giannarelli, Nicoletto Natalucci, mons. Lorenzo Chiarinelli, pp. 258-461, Vivens homo 24 (2013), pp. 273-418: Patristica a Firenze. Il contributo di Mario Naldini, pp. 273-418 con interventi di Gianni Cioli, Carlo Nardi, Manlio Simonetti, Silvano Piovanelli, Giulio Conticelli, Guido Bastianini, Clara Burini, Claudio Nardini, Elena Giannarelli; e di M. Naldini, con Vita dello spirito. Conversazioni radiofoniche tra il 1977 e il 1983 a cura di Agnese Maria Fortuna, pp. 382-403; con una Bibliografia a mia cura, pp. 406-418. Devo aggiungere: M. Naldini, Frammento ippoliteo (?) in un codice Laurenziani (Plut. VI.3). Nota esigetica, in Ad contemlandam sapientiam. Studi di filologia, letteratura, storia in memoria di Sandro Leanza, Rubbettimo, Soveria Mannelli, Catanzaro 2004, pp. 469-474. Sant’Antonio: C. Nardi, Sant’Antonio dalla barba bianca. Tra filologia e folclore nostrano, in Milleottocentosessantanove. Bollettino a cura della Società per la Biblioteca Circolante in Sesto Fiorentino 20 (1998), pp. 6-13.

.




Giustino, la fede cristiana e la filosofia

San Giustinodi Francesco Vermigli · Il mese di giugno inizia con la memoria di san Giustino martire (n. 100 – m. 163/167). Parlare di Giustino significa riandare a quel periodo in cui la comunità cristiana ha vissuto l’esperienza della persecuzione e del nascondimento. È l’epoca che portò alcuni gruppi di cristiani al martirio; epoca pre-costantiniana, in cui la Chiesa prega per i governanti e l’autorità politica, ma da quella medesima autorità subisce sofferenza e morte. Ma la storia di Giustino non solo reca con sé il segno del martirio. La sua persona rimane legata in maniera indissolubile alle sue opere; opere che attestano dello sforzo di entrare in contatto con la cultura pagana da parte di colui che proveniva da quella stessa cultura. Si tratta delle due Apologie, ma anche del Dialogo con Trifone, che mostrano la sollecitudine di stare davanti alla cultura non cristiana in una modalità che farà scuola.

Il suo pensiero riguardo al rapporto tra la dottrina cristiana e la cultura pagana è espresso da una formula, che è poi divenuta vulgata: la formula, cioè, dei logoi spermatikoi o semina Verbi. Come noto, andando al nocciolo della questione, con tale formula si vuole affermare che la dottrina cristiana si pone come sviluppo delle culture non cristiane, fino a condurle a pienezza; oppure – che è poi dire in altro modo la stessa cosa, ma vedendola in senso inverso – alla luce della dottrina che porta Cristo e che è custodita dalla Chiesa, il sapiente cristiano rintraccia elementi di verità nelle culture e nelle filosofie non cristiane. Eppure non possiamo non notare come questa argomentazione si fondi su basi teologiche molto più solide di quanto ad una prima lettura si potrebbe credere. Proprio queste basi ci aiutano a leggere la sintesi del pensiero di Giustino come occasione per riflettere sul rapporto tra la dottrina cristiana e il pensiero non cristiano anche ai nostri tempi.

La radicalità del riferimento teologico è in realtà radicalità del riferimento cristologico. Si badi, cioè, che Giustino, nel punto apicale della sua riflessione sul rapporto con la cultura antica – nello stesso momento, cioè, in cui usa la formula che abbiamo ricordato sopra – in quel momento esatto non dice solamente che c’è della verità nelle altre culture, ma che, se c’è questa verità, questa si deve a Cristo. In altri termini, quello a cui Giustino allude è il fatto che vi sia una presenza di Cristo prima della venuta di Cristo stesso. E si tratterebbe di una presenza soltanto iniziale, che attende compimento, che attende pienezza; si direbbe, secondo un’altra formula piuttosto famosa e diffusa, sebbene in contesto pienamente cristiano: il Verbo è “già” nelle culture pagane, ma “non ancora” esse godono della presenza piena, che viene portata nel mondo dalla Rivelazione del Figlio eterno incarnato.Raffaello_concilio_degli_dei

Com’è possibile la presenza del Verbo, prima della sua venuta nella carne? Unica soluzione possibile parrebbe quella secondo cui il Verbo è presente in nuce (in seme, appunto…) nelle filosofie antiche, perché è presente nella creazione e nella ragione che con le proprie forze indaga il creato e riflette a partire da esso. In questo senso, apprezziamo l’estrema modernità del pensiero di Giustino se lo confrontiamo con i dibattiti odierni (che poi hanno una radice in ultima istanza paolina…) circa l’ordinazione a Cristo del creato e dell’uomo stesso, considerato in quanto creatura. Così è per le culture e per le filosofie: esse attendono da Cristo la loro pienezza, ed ex post – cioè dopo la rivelazione definitiva – possiamo apprezzare di esse i segni di verità e di bontà e di bellezza che sono i segni della presenza del Verbo.

Resta un solo passo da compiere, un passo interpretativo decisivo: in quale modo si deve porre la dottrina cristiana rispetto ad ogni sapienza non cristiana anche oggi? Si direbbe che essa debba tenere sempre davanti, per così dire, lo stesso modus operandi di Giustino. A seguito della rivelazione di Cristo, la filosofia certo non viene abolita; anzi essa continua a mostrare una forza argomentativa e contenutistica non marginale. Ma la sapienza che reca Cristo agisce come una sorta di criterio di discernimento. Cosa concretamente significa questo?

Significa che appartiene costitutivamente alla dottrina cristiana la possibilità di discernere nel mare magnum delle filosofie e delle sapienze espresse nelle varie culture; avendo come bussola sicura la rivelazione che il Figlio incarnato ha fatto su se stesso, sul Padre che lo ha inviato, sullo Spirito che sarebbe stato poi inviato, sull’uomo, sulla storia e sul cosmo. E significa che ogni dottrina filosofica ed ogni sapienza espressa dalle mille e mille culture comparse sulla faccia della terra non potranno mai esaurire la rivelazione di Cristo. Quando la teologia si trova davanti all’obbiettivo dell’intelligenza del Mistero rivelato, sarà fedele al suo compito se e solo se saprà verificare cum grano salis categorie, concetti, criteri espressi dai sistemi filosofici e dalle culture varie del nostro mondo.




Un Progetto Italia per la «povertà educativa»

download (3)di Antonio Lovascio · Che autunno sarà ? Ce lo stiamo ripetendo con ansia, senza ancora sapere come passeremo l’estate, non solo perché temiamo la “seconda ondata” del Coronavirus. A molti fa paura la “tensione sociale” – già si usa il termine “rabbia” – che sta montando nel Paese. Vorremmo spendere parole di conforto per chi ha avuto lutti, e di speranza per chi ha perso un lavoro o pensa di perderlo ( si stimano tra i 700 mila e il milione di posti, che non verranno recuperati prima del 2023); per i 7 milioni di cassintegrati che non riescono a riscuotere l’indennità nei tempi delle loro urgenti necessità; per imprenditori, commercianti e artigiani che stentano ad accedere ai bonus ed prestiti garantiti dallo Stato e non sanno se potranno continuare la loro attività. Per la Scuola sottoposta a un lungo blackout: insegnanti e studenti non sanno quando e in che modo partirà il nuovo anno scolastico. E l’elenco potrebbe continuare.

L’Europa, dopo le gaffe iniziali, finalmente s’è desta. Smentendo i sovranisti e il pessimismo non solo degli euroscettici, si propone come forza propulsiva dello sviluppo e sta predisponendo un Piano di aiuti per andare in soccorso ai Paesi più in crisi. Sappiamo quanto l’’Italia ne abbia bisogno, ma sarà capace di collocare nella giusta direzione le ingenti risorse promesse da Bruxelles e dalla Bce, con condizionalità legate a certe riforme non più rinviabili ? Per superare il flagello pandemico sull’economia serve un Progetto di lungo respiro, non si può più procedere esclusivamente con l’assistenzialismo anche se le famiglie e chi ha perso lavoro non vanno abbandonati. L’intervento dello Stato e l’erogazione di sussidi sono necessari, ma non possono che avere una durata limitata. Si tornerà a crescere, sostenendo il peso del debito pubblico, solo con finanziamenti finalizzati alla coesione sociale ed a creare un sistema più efficiente, che privilegino competenze, merito, ricerca, concorrenza, come è emerso in un confronto a più voci sul “Corriere della Sera” aperto e condotto con lungimiranza e spirito di solidarietà da Ferruccio de Bortoli. In concreto: si dovrà avere cura del “capitale umano”, investire soprattutto – oltre che su Sanità e rilancio dell’occupazione – su Scuola, Università e Tecnologia. Evitando che si ripeta il crollo del 20 per cento nelle immatricolazioni degli atenei del periodo recessivo 2008-2013. Consapevoli che l’esplodere di una “povertà educativa” (ne conviviamo da sempre!) per effetto di una profonda congiuntura, aumenta ancora di più le disuguaglianze. Allarga il solco già profondo che separa chi è all’interno, seppur indebolito, di un circuito economico081900509-0e54099c-800d-4733-a5a7-cb93c4e0665b e chi ne è stato espulso. Questa fascia sociale in difficoltà – che vive soprattutto nelle periferie e nei quartieri difficili – sarà costretta a privilegiare il sostentamento immediato e a penalizzare l’investimento in istruzione e formazione dei propri figli. E così, con un “capitale umano”ulteriormente indebolito, sarà ancora più arduo per l’intero Paese ritrovare la via dello sviluppo senza la quale l’enorme debito accumulato non sarà sostenibile. Ma soprattutto rischieremo di penalizzare, ancora una volta, una generazione di giovani che non ha peso politico, non protesta, pagherà le scelte di necessità delle famiglie meno abbienti e gli errori di padri e nonni.

Un Governo già fragile di suo (lo si è visto in certi decisioni confuse durante il lockdown e all’inizio della Fase 2) deve poter contare sulla lealtà dell’opposizione: questa adesso collabori, non è il tempo della propaganda e delle chiusure ideologiche. Un passo lo ha già fatto il patron di Fininvest e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, rispondendo all’appello di Ferruccio de Bortoli, che ha invitato i maggiori imprenditori italiani a farsi promotori – superando però il mero concetto di mecenatismo – di una raccolta di fondi per finanziare un grande progetto, mobilitando family office per i quali l’Italia è un granello dei loro investimenti. Disposti anche ad autotassarsi se necessario. E offrire al Paese i mezzi necessari per una decisa lotta alla “povertà educativa”, il sostegno alla digitalizzazione scolastica, alla formazione in generale del capitale umano a supporto dell’istruzione pubblica – la cui centralità nessuno contesta – la crescita di una futura classe dirigente, pubblica e politica, di cui oggi scontiamo debolezze e incompetenze. “Guide” dotate di un’ampia cultura generale, che abbiano una visione complessiva della realtà italiana, la capacità di immaginare che tipo di società, di valori e di interessi si vuole incarnare. E’ la lezione che ci porta il Coronavirus e che dobbiamo raccogliere immediatamente, utilizzando al meglio le risorse che ci metterà a disposizione l’Europa. Convogliandole in un Progetto che ci trasformi in un Paese moderno, per giovani, sconfiggendo la burocrazia invasiva, facendo diventare l’Amministrazione pubblica alleata di imprese e cittadini. Ci vuole intanto un Patto tra Stato e privati all’insegna della competenza, per studiare una misura importante di supporto alla formazione, per unire esperienza e responsabilità, con creatività e coraggio.




Una nuova commissione di studio sul diaconato femminile

71EvE-LmJ8Ldi Alessandro Clemenzia · È stata resa nota l’8 aprile 2020 la decisione di Papa Francesco di istituire una nuova commissione di studio sul diaconato delle donne; argomento oggetto d’indagine di numerosi dibattiti e ricerche, già da diversi decenni, sia in campo teologico che magisteriale. Nel 2003, un documento della Commissione Teologica Internazionale, intitolato “Il diaconato: evoluzione e prospettive”, affermava chiaramente: «Spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione». Senza minimamente entrare nel tema o nei diversi contributi che hanno via via approfondito l’argomento in questi ultimi decenni, vorrei qui evidenziare soltanto alcune tappe nell’odierno Pontificato in cui è chiaramente emersa la questione del diaconato femminile.

In un discorso tenuto in occasione di un’udienza con l’Unione Internazionale delle Superiore Generali (il 12 maggio 2016), papa Francesco – rispondendo alle domande dei presenti – aveva sottolineato il debole inserimento delle donne negli organi decisionali della Chiesa. Nelle sue risposte emergeva soprattutto la necessità di non ridurre l’ordinazione sacra a uno strumento per arrivare a una qualsiasi forma di leadership nella Chiesa. È necessario, dunque, avviare una riflessione teologica e storica sull’argomento, tenendo sempre presenti due grandi tentazioni: il femminismo, che parla di un diritto che deve essere concesso in virtù della distinzione sessuale e non in forza del battesimo, e il clericalismo, che porta con sé l’idea del potere come forma estrema di protagonismo a discapito degli altri. È necessario, secondo il Pontefice, approfondire con competenza questo tema: «Dunque, sul diaconato, sì, accetto e mi sembra utile una commissione che chiarisca bene questo, soprattutto riguardo ai primi tempi della Chiesa».

Fu così istituita, nel maggio 2016, una commissione di studio sul diaconato delle donne, presieduta dall’allora Segretario (oggi Prefetto) della Congregazione per la Dottrina della Fede Mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, che ha elaborato un rapporto finale, consegnato nelle mani del Papa per la sua personale riflessione, senza volerlo destinare alla pubblicazione.

Un’altra tappa significativa è quella dell’incontro di Papa Francesco con i partecipanti alla 21ª assemblea plenaria dell’Unione Internazionale Superiore Generali (il 10 maggio 2019), dove il Papa, in un discorso a braccio, anche alla luce dei frutti del lavoro della commissione, riferisce la necessità di approfondire maggiormente la questione: «Si deve studiare la cosa, perché io non posso fare un decreto sacramentale senza un fondamento teologico, storico». Sempre in quella occasione, egli ha ribadito l’importanza di non ridurre la figura della donna nella Chiesa a un semplice ruolo funzionale, ma di recuperare invece quale sia il suo vero carisma.

Nel recente Sinodo sull’Amazzonia è uscito nuovamente, insieme a tante altre questioni, il tema del diaconato femminile. Nel discorso pronunciato dal Papa al termine dell’assemblea sinodale (il 26 ottobre 2019), è stato affermato: «Vorrei solo sottolineare questo: che ancora non ci siamo resi conto di cosa significa la donna nella Chiesa e ci limitiamo solo alla parte funzionale, che è importante, […] ma il ruolo della donna nella Chiesa va molto aldilà della funzionalità. È su questo che bisogna continuare a lavorare».412EMwLpyxL

Anche nell’Esortazione postsinodale Querida Amazonia viene messa in luce l’importanza che hanno ricoperto le donne in Amazzonia, soprattutto in un territorio che per un lungo lasso di tempo ha conosciuto una totale assenza di presbiteri: «Donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a pregare, sono state missionarie» (n. 99). Non si tratta di un semplice riconoscimento istituzionale, ma «ci invita ad allargare la visione per evitare di ridurre la nostra comprensione della Chiesa a strutture funzionali. Tale riduzionismo ci porterebbe a pensare che si accorderebbe alle donne uno status e una partecipazione maggiore della Chiesa solo se si desse loro accesso all’Ordine Sacro. Ma in realtà questa visione limiterebbe le prospettive, ci orienterebbe a clericalizzare le donne, diminuirebbe il grande valore di quanto esse hanno già dato e sottilmente provocherebbe un impoverimento del loro indispensabile contributo» (n. 100). È necessario, dunque, aldilà di una dimensione meramente funzionale, recuperare la figura della donna all’interno della struttura intima della Chiesa (cf. n. 101), cercando di stimolare, alla luce delle emergenze di questo preciso momento storico, il sorgere di nuovi servizi pastorali che valorizzino la donna per ciò che la rende peculiare nella sua vocazione e nel suo carisma. La scoperta del femminile, inoltre, deve essere contestualizzata a partire da una comprensione sinodale di Chiesa (cf. n. 103).

In questo contesto papa Francesco ha voluto approfondire maggiormente la figura della donna nei primi secoli della Chiesa, istituendo (lo scorso 8 aprile) una nuova commissione di studio, presieduta dall’Arcivescovo di L’Aquila, il cardinale Giuseppe Petrocchi, e mostrando così come la Chiesa possa offrire una sempre nuova e più attuale risposta alle sfide odierne tornando alle sue origini.




«Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Riflessione su Gv 6,1-15

fhhqmxwyftvdi Gianni Cioli · «In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.

Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”.

Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?”. Rispose Gesù: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.

Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!”. Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo» (Gv 6,1-15).

Nel Vangelo di Giovanni il segno compiuto da Gesù, che sfama una folla di oltre cinquemila persone con cinque pane e due pesci, introduce il famoso discorso sul Pane della vita che abbiamo avuto modo di ascoltare durante la liturgia feriale del tempo di Pasqua

In questa riflessione mi vorrei soffermare in particolare sulla domanda che Gesù pone prima di compiere il segno: «Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”». Questa domanda è terribilmente attuale, ce la poniamo tutti, in particolare se la pongono coloro che hanno grandi responsabilità decisionali in questo momento. Ce la pone di nuovo anche Gesù di fronte alle evidenti ricadute negative dell’emergenza pandemica globale che si stanno presentando. Siamo di fronte a povertà inveterate che peggiorano e nuove povertà che si profilano inesorabilmente. «Dove potremo comprare il pane?» è la domanda forse più attuale che si possa immaginare in questo momento.

Il Vangelo di Giovanni non solo ci aiuta a mettere a fuoco la domanda, ma suggerisce anche una risposta. Andrea, uno dei discepoli, avverte infatti Gesù che c’è un ragazzo (in greco paidarion: παιδάριον che potremmo tradurre anche “bambino”, pensando all’invito di Gesù a diventare come i bambini per entrare nel Regno: Mt 18,1-4) «che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».

Mentre cercavo su internet il significato più esatto del termine “paidarion”, mi sono imbattuto in un anonimo commento che già diceva sostanzialmente quelle che volevo dire io. Lo copio in parte e lo incollo qui, indicando il link:

«… chi offre a Gesù i cinque pani e i due pesci? Il vangelo ci dice che è un ragazzo (in greco: paidarion, che si può tradurre anche «un bambino», «un infante»). Un bambino ha portato qualcosa per sé: gli viene chiesto di condividerlo. Che cosa avrà pensato quel ragazzo, quando i discepoli chiedono in giro chi ha qualcosa da mangiare… Non è difficile indovinare i suoi pensieri: «Se metto in comune il poco che ho (e poi sono pani di orzo, di poco valore), con tanta gente, per me che cosa rimane?».

Eppure la logica che muove quel ragazzo è diversa! Fa un gesto semplice: non bada a se stesso e dona tutto quello che ha; ma è pure un gesto di una grandezza incommensurabile, perché Gesù prende proprio quei pani e quei pesci, li benedice e li dona a tutti! E una folla immensa si sfama! L’evangelista Giovanni nota il gesto generoso del bambino che ha capito lo spirito del vangelo.ravenna-s.-apollinare-nuovo-moltiplicazione-dei-pani-e-dei-pesci

Quante volte ci siamo sentiti interrogati dalle urgenze di altri e ci siamo acquietati dicendoci che posso dare?.., Non ho niente!… Ma è proprio quel niente nelle nostre mani che, affidato al Signore, può moltiplicarsi, e può diventare sostegno e ristoro per tanti al di là di ogni nostra previsione. Il Signore ci chiede questo: sii fedele nel poco, là dove essere fedeli non significa custodire rabbiosamente il poco che riconosciamo di avere, ma piuttosto avere l’umiltà e il coraggio di una condivisione nella fiducia che la volontà di salvezza del Signore vuole passare per le nostre povere mani» (vedi).

È questa la risposta che ci offre il Vangelo su cui possiamo meditare per attualizzarla, con la grazia di Dio, nella nostra vita personale.

Un altro spunto prezioso ci viene da quanto dice Gesù ai suoi discepoli dopo che tutti si furono saziati: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Può sembrare banale, ma per condividere dobbiamo anche reimparare a non sprecare.




«Minorità: la forma di Francesco. Attualità inattuale» di Domenico Paoletti

minorita-la-forma-di-francescodi Dario Chiapetti · Domenico Paoletti (1955), frate minore conventuale, docente stabile di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università “San Bonaventura” di Roma, dove è stato Preside per due mandati, presenta al pubblico «Minorità: la forma di Francesco. Attualità inattuale» (Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2020, 129 pp.). Tale testo presenta in modo sintetico i tratti principali della nozione di minorità, colti sotto molteplici punti vista: biblico; dell’esperienza di Francesco; di Chiara; dell’Ordine; di tematiche quali l’ecologia, il dialogo e l’economia; del magistero di papa Francesco.

Innanzitutto, l’Autore mette in luce come il concetto di minorità sia proprio di Dio stesso, così come è rivelato dalla Scrittura. In primo luogo, nella Bibbia si incontra il Dio che crea contraendosi – è questa una lettura ebraico-cabalistica che l’Autore richiama e che questi collega addirittura a livello trinitario sulla base dell’affermazione di Francesco “Tu sei umiltà” – e che suggerisce la fondazione di una ontologia in cui la relazione reciproca sembra essere considerata la categoria ontologica ultima. Dio si rivela minore poi nell’Esodo, mettendosi dalla parte degli indifesi, fino al suo pieno disvelamento in Gesù Cristo il quale si spoglia della sua condizione di gloria per assumere quella di servo, segnata dalla povertà, dall’indigenza, fino alla morte per amore.

L’esperienza di Francesco nasce proprio dall’incontro col Dio minore rivelato in Gesù Cristo che egli riconosce nel crocifisso di san Damiano così come nei lebbrosi. È così che Francesco riceve la minorità che egli vive innanzitutto nei confronti di Dio stesso come accettazione stupita del dono, e che poi si traduce in fraternità, sia con i compagni che con tutte le creature. Essa mira a stabilire relazioni all’insegna della reciprocità, intensa sia come disponibilità non solo a donare ma anche a ricevere il dono dell’altro/che è l’altro, sia come movimento verso l’altro, atto a promuovere nell’altro la risposta, non tanto per appagare il desiderio di contraccambio, quanto per suscitare nell’altro il farsi fratello minore e quindi l’amore. Questa minorità si fa dialogo, che significa innanzitutto far passare l’altro da nemico a ospite, così come avvenne nell’incontro col Sultano, sia per quest’ultimo che per Francesco. Non da ultimo la minorità si fa cura ecologica giacché la creazione è riconosciuta non indifferente o soggiogata all’uomo ma sorella a cui dar voce per lodare Dio. La crisi ecologica attuale è quindi crisi socio-ecologica, in quanto si radica nel decadimento di rapporti di minorità tra gli uomini e chiede una differente economia che sappia interpretare maggiormente la minorità come «codice relazionale» che scaturisce dalla sorpresa di un Dio minore.download (1)

L’Autore riflette poi sul passaggio, che si è verificato a volte nella storia, dalla minorità di Francesco al minoritismo dei francescani, ossia dal carattere subordinativo del porsi e concepirsi di Francesco, che scaturisce dall’incontro col Dio minore, a quello dominativo dei suoi seguaci, i quali sono a volte caduti nella tentazione di esercitare la loro minorità come forma di superiorità o, meglio, di affermare la povertà senza che questa scaturisca dalla minorità.

Il testo si chiude col capitolo: «L’utopia della minorità è Chiara». In esso l’Autore mostra come Chiara non sia solo una plantula di Francesco (idea promossa da lei stessa) ma l’attuazione più piena della minorità – certo non possibile senza Francesco – sia perché l’utopia di Francesco incontrò da subito difficoltà e in qualche modo e in certa misura la arrestò, sia perché tale plantula fu «più forte e decisa del suo piantatore». Chiara, che già prima di incontrare Francesco, era dedita al servizio dei poveri, riesce a realizzare compiutamente l’essere minoritico innanzitutto grazie alla sua sensibilità femminile innamorata di Gesù «sposo celeste», che rivela, secondo l’Autore, un «cristocentrismo […] forse più evidente e immediato di quello di Francesco». Secondo poi, anche «la paupertas in Chiara ha connotati più mistici, assoluti e radicali», è Chiara che chiese con decisione al “signor papa”, il privilegium paupertatis. Esso fu vissuto concretamente nei confronti delle sue sorelle, ad esempio nel suo lavare i piedi, non solo alle servientes ma a tutte, sebbene Abbadessa, carica che non voleva ma che accettò per obbedienza verso Francesco. Ella poi dette forma alla minorità nel suo governo «in modo ancora più materno di Francesco» anche istituendo il «consiglio delle discrete per un’animazione corresponsabile della comunità».

Ecco tracciati gli aspetti principali che per Paoletti fanno della minorità un’attualità – ancora oggi tanta gente è affascinata dal Santo d’Assisi – inattuale – che rinnega l’immagine di uomo come individuo autocentrato per affermare quella di fratello minore. Ecco che la minorità si pone, secondo l’Autore, sotto la carica tensionale tra utopia e topia, tra il già e non ancora, tra l’attesa e il progetto.

Come viene ricordato in chiusura del testo, Papa Francesco, nell’incontrare i membri della Famiglia Francesca del Primo Ordine e del Terzo Ordine Regolare nel 2017, ha affermato che, non la fraternità, non la povertà, ma la minorità è l’«elemento costitutivo» della vocazione e della missione francescana. La minorità, quale luogo dell’incontro con Dio, con i fratelli e le sorelle, tutti gli uomini e le donne e con tutto il creato, è il segno distintivo del carisma di Francesco che è così attuale per la sua inattualità. E il testo di Domenico Paoletti, con tratti rapidi, precisi ed efficaci, ricorda alla Famiglia Francescana e a tutti la forza di un Dio minore e dell’uomo come fratello minore per la realizzazione di una fraternità cosmica.




Il primo docente di Economia Politica al mondo

downloaddi Giovanni Campanella · A metà del mese di marzo 2020, la casa editrice Rubbettino ha pubblicato un piccolo saggio, intitolato Soldi e preghiere. Attualità economico-teologica di Antonio Genovesi, all’interno della collana “Tra storia e religioni”. L’autore è Pasquale Giustiniani, professore ordinario di Filosofia teoretica nella sezione “San Tommaso d’Aquino” della Pontificia Facoltà di Teologia per l’Italia Meridionale di Napoli, dove dirige il Seminario Permanente di Studi storico–filosofici “Pasquale Orlando”. Giustiniani è anche titolare della cattedra di Filosofia della religione nella Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Suor Orsola Benincasa – Napoli.

Le prime quaranta pagine del saggio intendono dare un quadro sintetico generale del rapporto, non troppo idilliaco, tra teologia ed etica da una parte ed economia dall’altra nel corso della storia. Si parte dal Medioevo, passando inevitabilmente da san Tommaso d’Aquino; si tratta poi delle novità del Novecento, del Vaticano II, della grande opera di Lonergan, fino ad approdare ai giorni nostri e ai suggerimenti di papa Francesco.

Giustiniani passa poi a presentare per punti chiave il pensiero dell’abate settecentesco Antonio Genovesi, primo docente universitario di economia politica al mondo e primo teorico della cosiddetta “economia civile”, seme prodromico di esperienze economiche alternative attuali come l’economia di comunione. Per presentare Genovesi, Giustiniani usa come itinerario la struttura della sua opera fondamentale, Lezioni di commercio o sia di economia civile: comincia dal proemio e descrive poi a grandi linee i capitoli principali.unnamed

Antonio nasce nel 1713 a Castiglione, a pochi chilometri da Salerno. Date le sue spiccate doti intellettuali, il padre decide di avviarlo alla carriera ecclesiastica. Il ragazzo vive comunque tale percorso con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Studia filosofia, latino e letteratura, innamorandosi di Dante, Petrarca e dei poemi cavallereschi. Il padre lo manda poi a Buccino dove studia teologia, diritto civile e canonico. Nel 1735 prende gli ordini minori e nel 1737 è ordinato presbitero. A Salerno, insegna retorica nel Seminario. Trasferitosi poi a Napoli, fa in tempo a frequentare le ultime lezioni dell’anziano Giambattista Vico. Nel 1739 apre una scuola privata di filosofia e teologia. Nel 1745 ottiene il primo incarico universitario, come professore straordinario di materie metafisiche. Nel 1754 viene costituita una cattedra di “meccanica e commercio” (di fatto la prima di Economia Politica in Europa) presso l’Università di Napoli e viene affidata ad Antonio Genovesi.

La maggioranza degli studiosi sono concordi nell’attribuire all’inglese Adam Smith il merito della vera fondazione della scienza economica moderna. Tuttavia il sistema di Genovesi, fondato sulla reciprocità e sull’interiorizzazione delle virtù civili, ha avuto grande influenza su un modo di fare economia non di mainstream ma più a misura d’uomo. «Ancora oggi, in Italia l’economia civile è viva nella cooperazione sociale, nel commercio equo e solidale, nell’economia di comunione, nella banca etica» (Bruni e Zamagni come citati a p. 87).antonio-genovesi-napoli-750x460

Nel Proemio della summenzionata sua opera principale, Genovesi raccomanda di seguire e coltivare l’etica, la politica e l’economia più delle altre scienze. «Quella parte, che abbraccia le regole da rendere la sottoposta nazione popolata, ricca, potente, saggia, polita, si può chiamare Economia civile» (Genovesi come citato alle pp. 57-58) mentre la politica è la parte che contiene l’arte legislativa e conservatrice dello Stato.

Più avanti, il nostro autore suggerisce alcune regole ai propri numerosi allievi per ben orientare l’operato. Tra esse spiccano:

«vivere il meno infelicemente su questa terra, vivere insieme e non da solitari, costruendo non una società qualunque (anche le bestie vivono in società) ma una società “ragionevole”, cioè fondata sui reciproci diritti, sulla sincerità e reciproca confidenza, sulla sicurezza scambievole della fede e virtù (non simulata) degli altri» (pp. 75-76).

I fondamenti su cui si muoveva Genovesi sembrano molto consoni con gli attuali fermenti di una nuova economia umana e relazionale, tanto caldeggiata dall’odierno Magistero e non solo.




Su un corso di storia della Chiesa toscana nel Novecento

unnamed (1)di Giovanni Pallanti · Il 21 maggio scorso ho concluso, come docente, un breve corso di storia della Chiesa toscana nel 900. La facoltà teologica dell’Italia centrale, su invito del Preside Mons. Basilio Petrà, sentiti i professori Don Stefano Tarocchi e Don Fabio Tonizzi, voleva integrare il corso di storia per gli studenti del quarto anno con esempi e riferimenti sull’attività del clero toscano in quel periodo storico. Lo stesso periodo che tratta, in parte, anche Mario Lancisi nel suo libro “I Folli di Dio” (edizioni San Paolo). Dico subito che condivido pienamente l’articolo apparso sul numero del 24 maggio 2020 di “Toscana Oggi” di Domenico Mugnaini: questo libro non può essere considerato un libro di storia ma bensì una narrazione piena di ammirazione per le figure di Don Milani, Padre Balducci, e Giorgio La Pira. La Storia infatti è tutt’altra cosa. Anche l’esame di singole figure vissute in contesti particolari vanno confrontate con quello che è successo ben oltre le loro singole imprese e i luoghi dove esse si sono svolte. Nel corso che ho tenuto, alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale, ho parlato di alcuni straordinari personaggi che hanno concretamente dimostrato il loro amore per il prossimo sacrificando anche coscientemente la propria vita. Tra questi c’è il parroco di Sant’Anna di Stazzema Don Innocenzo Lazzeri che quando vide che i tedeschi ammassavano i suoi parrocchiani davanti alla chiesa per fucilarli lui, che il suo padre aveva condotto in un bosco, scelse di tornare indietro e di farsi fucilare con i suoi parrocchiani. Stessa sorte toccò ad un sacerdote per cui si è aperto poco tempo fa il processo di beatificazione: Don Alcide Lazzeri ( i due sacerdoti martiri avevano lo stesso cognome ma non erano parenti ) parroco di Civitella Val di Chiana dove ci fu un orribile strage di civili ordinata dall’esercito tedesco. Don Alcide fu il primo ad essere fucilato perchè aveva tentato di offrirsi come unico ostaggio per salvare le altre vittime innocenti. Quindi Don Lorenzo Milani, grande pedagogo e scrittore, è uno di quei preti che hanno fatto cose buone ma non un personaggio da idolatrare come fosse l’unico ad aver fatto quello che deve fare un bravo Sacerdote. Padre Balducci poi è stato un intellettuale da salotto, intelligente e istrione, che io ho ben conosciuto per avere fatto con lui alcuni importanti dibattiti (uno in particolare sulla prima guerra in Iraq a Controradio). Padre Balducci è stato tutt’altro che un perseguitato. Anzi il Cardinale Silvano Piovanelli gli fece il funerale nel Duomo di Firenze. Ben altri sono stati i santi preti perseguitati: nel ‘900 quello maggiormente perseguitato dalla Chiesa è stato Don Ernesto Buonaiuti colpevole di studiare la storia del cristianesimo e da lì partire per una nuova Pastorale che emendasse gli errori commessi nel passato dalla Chiesa Cattolica. Fu sospeso a divinis e il Vaticano in combutta con il regime fascista lo obbligò a lasciare l’insegnamento di

Don Zeno Saltini

Don Zeno Saltini

storia del cristianesimo all’Università di Roma. Altri due grandi sacerdoti cattolici furono perseguitati per la loro generosità e l’anticonformismo che li contraddistingueva: Don Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia (Gr) e nella vicina Bologna Don Olinto Marella, fondatore della città dei ragazzi, tutt’e due sospesi a divinis ed umiliati prima di essere riammessi alla celebrazione della Santa Messa. Di Don Marella, Indro Montanelli che lo aveva avuto come professore di filosofia al liceo, diceva che si trattava per la bontà e l’intelligenza di questo filosofo e sacerdote di un vero santo. Quindi basterebbe allargare l’orizzonte degli studi per capire che i personaggi trattati dal buon Lancisi sono, alla luce dei fatti, più normali di quanto non si creda. Come loro ma meno appoggiati dalla cultura laica e comunista interessata a dividere il mondo cattolico due grandi preti come Mons. Bruno Panerai e Don Poggi, parroci rispettivamente di San Felice in Piazza e di San Gervasio a Firenze, furono due fondamentali esponenti della resistenza fiorentina al nazi fascismo. Basterebbe leggere l’omelia di Mons. Panerai tenuta il 23 luglio 1944, Firenze sarà liberata l’11 agosto di quell’anno, davanti ai comandi delle truppe anglo americane che da Porta Romana erano entrate in oltrarno fino alle rive dell’Arno: una omelia degna di un segretario di stato vaticano dove l’intelligenza politica e il benvenuto alle truppe alleate era venato dalla pietà per i morti nella

Don Olinto Marella

Don Olinto Marella

guerra e per la miseria della popolazione dell’oltrarno fiorentino che era disposta a tutto pur di mettere il pranzo con la cena. Infine merita anche di essere ricordato, oltre al Cardinale Elia Dalla Costa, il vescovo di Livorno Mons. Giovanni Piccioni, fratello di uno dei più importanti leader democristiani, esponente anch’esso della resistenza e tra i leader storici della democrazia cristiana Attilio Piccioni. Il vescovo di Livorno ebbe una grande intesa con Don Roberto Angeli fondatore dei cristiano sociali, uomo di grandissima cultura ed intelligenza, che nel campo di sterminio di Dachau si salvò per miracolo e di cui scrisse un fondamentale libro “ Il Vangelo nei Lager”. Tutto questo per dire che la Chiesa piena di peccati e di omissioni si regge sui santi che sono pochi ma su cui merita di riflettere per non cadere nell’errore di parlar bene di chi più o meno ci conviene. Per ultimo Giorgio La Pira che è stato sempre solo un uomo politico della democrazia cristiana e che in vita sua non ha mai avuto un voto né dei fascisti né dei comunisti.




Albert Sabin non brevettò il suo vaccino per regalarlo a tutti i bambini del mondo!

zzz-4di Carlo Parenti · Nel Marzo di 27 anni fa morì Albert Sabin, il medico che decise di non brevettare il suo vaccino in modo che tutte le case farmaceutiche potessero produrlo, per regalarlo a tutti i bambini del mondo.

Medico e virologo ebreo naturalizzato statunitense, famoso per aver scoperto il vaccino contro la poliomielite, rinunciò quindi ai soldi del brevetto, non guadagnando quindi un solo dollaro, consentendone la diffusione per tutti, anche fra i poveri. Dal 1959 al 1961 furono vaccinati milioni di bambini.

Sabin era nato nel 1906 a Byalistok, un villaggio della Polonia. Già da bambino sognava di poter studiare medicina e un giorno lo colpì profondamente una frase che il suo maestro lesse in classe: “Non cercate altro premio, o una grande ricompensa su questa terra, se non la gioia spirituale che possiede solo chi sa donare”. Albert non la dimenticò più. Negli anni 30 si trasferì in America.

Sabin, lavorando all’Università dell’Ohio, scoprì nel 1954 un vaccino che poteva essere somministrato ponendone poche gocce su una zolletta di zucchero da ingoiare. Una grande innovazione rispetto a quello precedentemente realizzato con virus inattivato da Jonas Salk. Questo andava iniettato per via intramuscolare. Sabin lo aveva provato su uno scimpanzé, su sé stesso, su altri volontari adulti, ma bisognava provarlo sui bambini e disse a sé stesso: “Ci sono le mie piccole Deborah e Amy”, così nel 1957 sperimentò il vaccino sulle figlie. Il suo vaccino contiene dei virus polio vivi attenuati e, venendo  somministrato per bocca, mima in questo modo le vie naturali di accesso all’organismo umano.  Per la facilità di somministrazione, la maggiore efficacia e il basso costo (al quale contribuì anche la rinuncia al brevetto), ha consentito di eliminare questa grave malattia519e9af3-a222-48fe-83d2-091777fc2bea_large

Albert Sabin ebbe a dire ormai vecchio: «Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo. Essere giovane significa conservare, a settant’anni, l’amore del meraviglioso, lo stupore per le cose sfavillanti e i pensieri luminosi, le sfide intrepide lanciate agli avvenimenti, il desiderio insaziabile del fanciullo per tutto ciò che è nuovo, il senso del lato piacevole e lieto dell’esistenza. Resterete giovani finché il vostro cuore saprà ricevere i messaggi di bellezza, di audacia, di coraggio, di grandezza, di forza che vi giungono dalla terra, da un uomo o dall’infinito. Quando tutte le fibre del vostro cuore saranno spezzate e su di esso si saranno accumulate le nevi del pessimismo e il ghiaccio del cinismo è solo allora che diverrete vecchi e possa Iddio aver pietà della vostra anima». 

Da aggiungere un particolare poco conosciuto: durante la Guerra Fredda, Sabin donò gratuitamente i suoi ceppi virali allo scienziato sovietico Mikhail Chumakov, in modo da permettere anche nell’URSS lo sviluppo del suo vaccino. Anche in questo caso Sabin andò oltre le questioni politiche per un bene superiore.

Ed è bello ricordare che se oggi la poliomelite è scomparsa al mondo (salvo piccole sacche di decine di casi in Afghanistan e Pakistan, dove si pensa che la vaccinazione sia un complotto degli americani per fiaccare i quei popoli) lo si deve anche ad un italiano.

Si tratta di Sergio Mulitsch ideatore e sostenitore del progetto antipolio, poi diventato Polio Plus. Sergio Molitsch De Palmenberg, discendente da un’antica nobile famiglia di industriali di origine goriziana, era nato nel 1923 a Trieste e in questa città svolse i suoi studi classici ed universitari. Da una sua grande intuizione, quando era socio fondatore del Rotary Club Treviglio, nacque nel 1979 il programma (poi progetto rotariano) per la vaccinazione antipolio dei bambini dei paesi in via di sviluppo quali, fra i primi, le Filippine ed il Marocco. Infatti una raccolta di fondi effettuata da 24 Rotary Club italiani, dal Rotaract di Bassano del Grappa e da 4 Governatori italiani, consentì di spedire nelle Filippine, nella seconda metà di gennaio del 1980, 500.000 dosi di vaccino prodotte in Italia. Così ebbe inizio la campagna mondiale contro la polio. Già nel Maggio del 1981, il Dr. Albert Sabin, pure lui rotariano, con il quale Mulitsch collaborava attivamente, disse: “Sono a conoscenza di quanto il Rotary ha fatto per la poliomielite e so che voi in Italia siete stati all’avanguardia tra i Rotary Club di tutto il mondo nell’avviare l’azione contro questo terribile flagello”.images (1)

Nel 1985 Il Rotary International lancia nel mondo “PolioPlus”, il primo e più grande impegno del settore privato coordinato a livello globale su un’iniziativa di sanità pubblica, con un obiettivo di raccolta fondi iniziale di 120 milioni USD. Nel 1988 Il Rotary International e l’Organizzazione Mondiale della Sanità lanciano la Global Polio Eradication Initiative. Si contano allora circa 350.000 casi di polio in 125 Paesi.

Nel 2009 Il contributo complessivo del Rotary per l’eradicazione della polio si avvicina 800 milioni USD. Nel mese di gennaio la Fondazione di Bill & Melinda impegna 355 milioni e rivolge al Rotary una sovvenzione sfida di 200 milioni. Da questa iniziativa deriverà un ammontare combinato di 555 milioni a sostegno della Global Polio Eradication Initiative.

Ad oggi sono stati vaccinati più di un miliardo di bambini con una spesa totale di non meno di 2 miliardi di dollari.

Silvio Garattini, decano dei farmacologi, ha dichiarato al Messaggero: “Una dose di vaccino anticovid potrebbe costare fino a mille euro, una cifra insostenibile e solo per l’Italia servirebbero almeno 50 miliardi per poterlo fare a tutti, una cifra insostenibile“, per cui “l’Europa si faccia capofila per un’equità di accesso ai vaccini. Ma va fatto ora, non fra sei mesi“. Inoltre è possibile, ma sta diventando probabile, che la velocità della corsa mondiale alla preparazione dei vaccini anti Covid-19 porti a nuove pericolose ingiustizie (vedi). È possibile, o sta diventando probabile che la velocità stellare della corsa mondiale alla preparazione dei vaccini anti Covid-19 porti alla creazione di una nuova ingiustizia stellare? Quanti saranno i nuovi semi di malattia, disperazione e morte che un impossibile accesso al vaccino seminerà tra i popoli della terra?

Sabin e l’italiano Sergio Mulitsch (del quale si sta purtroppo perdendo la memoria) sono dunque un bell’esempio di altruismo globale che non richiede ulteriori commenti su quanto stiamo tristemente assistendo sulle “sfide” per accaparrarsi il vaccino e sfruttarlo commercialmente e geopoliticamente!




San Giovanni Paolo II e il «Ius Sacrum»

9788820916107di Andrea Drigani · Lo scorso 18 maggio si è fatto memoria del centenario della nascita di San Giovanni Paolo II. Per questa circostanza molte cose sono state scritte e dette su di lui cominciando da Papa Francesco. Ma per i cultori di diritto canonico (postilla: secondo il Devoto-Oli il cultore è una «persona che si dedica, per lo più a livello scientifico o professionale, a un’attività intellettuale con interesse e passione costanti») tra i quali anch’io mi annovero, le decisioni e il magistero di Papa Wojtyła costituiscono, realmente, come si suol dire, una pietra miliare nella storia del diritto della Chiesa. Lui, infatti, ha portato a conclusione l’opera, iniziata da San Giovanni XXIII e proseguita da San Paolo VI, per una rinnovata codificazione canonica latina ed orientale, attraverso la promulgazione nel 1983 del «Codex iuris canonici» e nel 1990 del «Codex canonum ecclesiarum orientalium». Si è trattato, com’è noto, di un cammino complesso e difficile, di studio e di confronto, non immune anche da contestazioni. Di tutto ciò si possono cogliere gli echi nel discorso che San Giovanni Paolo II pronunziò il 3 febbraio 1983 per la presentazione del nuovo «Codex» latino. Fu un’allocuzione magistrale, non solo nel senso della provenienza, ma pure della competenza. Papa Woityła esordì con una domanda: «Che cos’è il diritto nella Chiesa?». Una prima risposta, osservò San Giovanni Paolo II, si trova nella storia, non soltanto nella storia della Chiesa che ha visto una lunghissima tradizione giuridica di grande valore dottrina e culturale, ma nella storia del popolo di Dio nell’Antico Testamento, dove l’alleanza tra Dio e il popolo d’Isreale costituisce un vincolo d’amore, che deve trovare espressione nella testimonianza della vita quotidiana, attraverso l’osservanza dei comandamenti. Tale fedeltà fu considerata una vera sapienza. Il ministero dei profeti richiamò il popolo ebraico al rigoroso rispetto dell’alleanza e delle leggi, ribadendo, per quest’ultime, la necessità di un’osservanza interiorizzata. Gesù, proseguì Papa Wojtyła, ha proclamato di non essere venuto per abolire, ma per dare compimento alla Legge. Agli Apostoli e ai discepoli chiede la permanenza nell’amore, ma questa permanenza è condizionata dall’osservanza dei suoi precetti. Nelle prime comunità cristiane, come emerge dall’epistolario paolino, gli Apostoli con l’autorità ricevuta dal Signore, impartiscono ordini e disposizioni per la necessaria disciplina all’interno delle Chiese particolari. Ma, oltre alla risposta storica, San Giovanni Paolo II indicava le motivazioni più profonde e più vere della legislazione ecclesiastica nella prospettiva teologica ed ecclesiologica. In special modo tenendo presente le affermazioni della Costituzione conciliare «Lumen gentium», secondo cui la Chiesa è, contemporaneamente ed inseparabilmente, comunità messianica ed escatologica soggetta al suo Capo e compagine visibile, costruita e organizzata come società; ne consegue che la Chiesa è anche una struttura visibile con precise funzioni e poteri. Benchè, diceva ancora Papadownload (2) Wojtyła, tutti i battezzati partecipino dell’ufficio regale, profetico e sacerdotale di Cristo, tuttavia i chierici e i laici ricevono distinte funzioni in ordine alla loro sociale attività, funzioni regolate e tutelate per volontà di Cristo dal «sacro diritto» (Ius Sacrum), in modo che si provveda al bene comune della Chiesa. San Giovanni Paolo II rilevava, inoltre, che è da questa mirabile realtà ecclesiale, invisibile e visibile, che dobbiamo riguardare il «Ius Sacrum», che vige ed opera all’interno della Chiesa: è prospettiva che, evidentemente, trascende quella meramente storico-umana, anche se la conferma ed avvalora. Papa Wojtyła, verso il termine del discorso, rispondeva alla domanda con la quale aveva iniziato la sua allocuzione, affermando che il diritto canonico non va considerato come un corpo estraneo, né come una sovrastruttura ormai inutile, né come un residuo di presunte pretese temporalistiche. Connaturale è il diritto alla vita della Chiesa, cui anche di fatto è assai utile: esso è un mezzo, è un ausilio, è anche – in delicate questioni di giustizia – un presidio. Ritengo che questa visione del «Ius Sacrum» presentata da San Giovanni Paolo II sia sempre da coltivare.




Ricordiamo l’esempio di S. Giovanni Paolo II

iu-1di Mario Alexis Portella · Nel 2018 la Sede Apostolica ha fatto un accordo provvisorio, progettato dal Segretario di Stato Vaticano il Cardinale Pietro Parolin, con la Cina con la speranza di “riconciliare… alla piena comunione di tutti i cattolici cinesi,” in modo particolare, l’Associazione patriottica cattolica cinese, cioè il clero ed i fedeli della Chiesa di stato.

L’impressione immediata è che il cattolicesimo abbia trovato una serenità reale in Cina. Sebbene i dettagli dell’accordo del 2018 non siano ancora stati resi pubblici, sappiamo che il Partito Comunista Cinese (PCC) ha l’autorità di nominare i vescovi; il Vescovo di Roma li conferma in seguito.

Questo non è la prima volta che la Chiesa fa un concordato con uno Stato autoritario, come:

  • I Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929; in quel occasione si è concluso un lungo e travagliato percorso storico, diplomatico e politico che portava al duplice riconoscimento tra lo Stato italiano e la Santa Apostolica. In tal modo la Questione romana veniva dichiarata “definitivamente e irrevocabilmente” superata. Il paradosso fu che Benito Mussolini consolidò il suo potere, così portò il paese, con l’appoggio di quasi tutta la gerarchia cattolica italiana, in due guerre: quella contro l’Etiopia e la Seconda Guerra Mondiale.pope-pius-xii-460_980938c

  • Il Reichskonkordat tra la Sede Apostolica e la Germania nazista. Firmato dal Nunzio Apostolico l’Arcivescovo Eugenio Pacelli (il futuro papa Pio XII) — nonostante delle perplessità del papa Pio XI — e Franz von Papen, il Vice Cancelliere di Adolf Hitler il 20 luglio 1933. Esso inoltre assicurava la lealtà dei vescovi allo stato attraverso un giuramento e richiedeva che tutti i preti fossero tedeschi e soggetti ai superiori tedeschi. Restrizioni furono anche poste alle organizzazioni cattoliche.

Negli anni 60, la Chiesa iniziò, sotto il suo principale architetto, l’Arcivescovo Agostino Casaroli, l’obiettivo strategico dell’Ostpolitik. Essa cercò di trovare un modus non moriendi (modo di non morire) per la Chiesa nei paesi del Patto di Varsavia. Le tattiche includevano la cessazione di tutte le critiche pubbliche del Vaticano nei confronti dei regimi comunisti e infinite trattative con i governi comunisti. I risultati furono, per dirla delicatamente, terribili:

  • In Ungheria, dove, a metà degli anni ’70, la leadership della Chiesa e le sue proprietà erano gestite dal partito comunista ungherese, che aveva anche il controllo de facto del Collegio ungherese a Roma.

  • U.S. Congressional-Executive Commission on China. In Cecoslovacchia, l’Ostpolitik ha dato potere a una banda di collaboratori clericali che hanno servito come fronte per il partito comunista e le sue repressioni.

Tutto saltò con l’imprevista elezione di S. Giovanni Paolo II al soglio di S. Pietro: Il Patto di Varsavia nulla potè contro questo Pastore Universale che smascherò le dittature comuniste.

Come ha comunicato il U.S. Congressional-Executive Commission on China e il giornale Asia News, per la domenica di Pasqua—mi limito a questo esempio tra tanti—le autorità cinesi hanno demolito la croce che sormontava il timpano di una chiesa nella Diocesi di Xinxiang nella provincia di Henan. Un sacerdote, il Padre Shanren Shenfu, ha spiegato che il silenzio di fronte alla distruzione delle croci fa parte del prezzo per l’accordo del Vaticano con il PCC:

«Ora quando una croce viene rimossa, i cristiani devono essere calmi e sorridere. Accettare la rimozione delle croci come un evento quotidiano sembra quindi essere l’unico grande contributo che i fedeli cattolici cinesi e tutto il popolo di Dio possono dare alla continuazione dell’accordo».

Dobbiamo tenere presente che la Cina è uno dei più grandi violatori dei diritti umani nel mondo. Per il PCC il cristianesimo promuove valori e ideali occidentali che sono in conflitto con gli obiettivi del governo autoritario cinese, cosa che non avviene ne in Corea del Sud ne nelle Filippine.

Sarebbe opportuno di ricordare quella frase riportata dal Cardinale Alfredo Ottaviani: «historia concordatorum, historia dolorum Ecclesiae».