Presentazione degli articoli del mese di luglio 2019

bigida1Andrea Drigani introduce una riflessione «de iure condendo» sul ruolo degli Arcivescovi Metropoliti che potrebbe costituire una realtà intermedia tra il Vescovo di Roma e i vescovi diocesani. Giovanni Campanella con un volume a più voci (Mastrantuono, Grion, Lusek, Ammendolia) invita a riflettere sul rapporto tra la pastorale e lo sport puro per contribuire a rafforzare la pace, far scoprire le ricchezze dell’altro e potenziare l’unità. Dario Chiapetti presenta il saggio di Jean Paul Lieggi che ribadisce la centralità del Mistero Trinitario per lo studio della teologia, nonché per l’ambito ecclesiale ed esistenziale. Giovanni Pallanti ricorda Franco Zeffirelli, grande regista teatrale e cinematografico, una personalità unica nell’ambito artistico e culturale, che non hai mai nascosto la sua fede cristiana. Carlo Nardi riprende l’antica questione delle consonanze tra la Quarta Ecloga di Virgilio e le profezie di Isaia, provenienti dall’ambiente mediterraneo, che costituiscono comunque una preparazione evangelica. Mario Alexis Portella partendo dall’ennesimo piano di pace per il Medio Oriente, destinato a fallire, sottolinea l’opportunità di collocarsi nell’ambito di un perdono reciproco come avvenne nell’accordo Sadat-Begin del 1978. Carlo Parenti dinanzi alle gravi vicende del Consiglio Superiore della Magistratura richiama la testimonianza («martirio») del giudice Rosario Livatino del quale è in corso la causa di beatificazione. Francesco Vermigli illustra il Documento della Congregazione per l’Educazione Cattolica «Maschio e femmina li creò», che alla luce dell’antropologia cristiana respinge l’ideologia gender. Stefano Liccioli riporta l’esperienza di uno straordinario pellegrinaggio a piedi dal settembre 2015 al dicembre 2016, da Czestochova a Monte Berico, segno e simbolo del cammino dell’esperienza cristiana. Gianni Cioli recensisce uno studio di Gabriella Pozzetto sulla produzione cinematografica di Pier Paolo Pasolini, in speciale riferimento al «Vangelo secondo Matteo» nel quale cerca di coniugare il sentimento del sacro con l’attenzione agli ultimi. Alessandro Clemenzia muovendo dal discorso di Papa Francesco a Napoli, in visita alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, annota sull’importanza di un rinnovato metodo teologico per avviare nuovi processi all’interno del popolo di Dio. Antonio Lovascio, in margine al convegno internazionale di Caltagirone su di don Luigi Sturzo, svolge alcune considerazioni sulla necessità di superare il dualismo tra etica e politica e di fondare sul Vangelo la retta intenzione di operare nelle istituzioni. Francesco Romano alla luce del Magistero del Concilio Vaticano II ribadisce che la dimensione giuridica della Chiesa risiede nei suoi momenti fondativi: la Parola, i Sacramenti ed il Carisma. Stefano Tarocchi commenta alcuni versetti del capitolo 21 del Libro dell’Apocalisse per rammentare che Dio, Alfa e Omega della storia, e suo inizio e compimento, darà in doni i suoi beni a chi avrà condiviso la vittoria di Cristo.




Per Franco Zeffirelli

gesù_di_Nazareth_zeffirelli_powell_set_making_1di Giovanni Pallanti • La morte di Franco Zeffirelli ha avuto un’ enorme eco in Italia e nel mondo. E’ superfluo, quindi, ripassare per l’ennesima volta le benemerenze artistiche di questo grande uomo di teatro che nella regia delle opere liriche ha raggiunto traguardi di spettacolarità e di perfezione tra i più significativi . Autore anche di regie di prosa ha messo in scena Shakespeare e Edoardo De Filippo in versione inglese. Per questa sua dedizione al grande teatro la Regina di Inghilterra Elisabetta II lo nominò cavaliere dell’impero britannico. In Italia è stato spesso criticato per le sue regie cinematografiche che pure hanno avuto sempre un grande successo di pubblico fuori dai confini nazionali. Franco Zeffirelli aveva un amore viscerale per la sua città d’origine: Firenze. Di questa città, forse, è stato l’ultimo epigono rinascimentale per la sua creatività e il suo stile di vita. Le sue principali caratteristiche sono state tre. Caratteristiche che sono state poco sottolineate .

Uno) Si è detto che Zeffirelli è stato antifascista e anticomunista .L’avversione all’egemonia comunista nel mondo della cultura lo ha portato ad essere osteggiato in molti ambienti culturali. In verità Zeffirelli ha spesso lavorato con persone legate al partito comunista più o meno organicamente come i costumisti Danilo Donati, Anna Anni e Piero Tosi. Sia Tosi che Donati hanno vinto l’Oscar per i costumi . Un altro esponente comunista fu chiamato da Zeffirelli a interpretarlo nel suo film autobiografico “Un tè con Mussolini”: l’attore è Massimo Ghini che è stato segretario generale del sindacato attori CGIL. Quindi Zeffirelli era aperto alla collaborazione con dei bravi professionisti indipendentemente dalle loro scelte politiche. Nonostante questo Zeffirelli ha sempre avuto il coraggio delle sue idee: nel 1983 si candidò alla Camera dei Deputati per la Democrazia Cristiana fiorentina risultando il primo dei non eletti. Una scelta coraggiosa anche perché nessuno pensava che pochi anni dopo, nel 1989, sarebbe iniziata la crisi definitiva del comunismo su scala mondiale. Nel 1994 fu eletto Senatore della Repubblica per Forza Italia nel collegio di Catania.

Due) Zeffirelli con il film “La vita di Gesù” ha compiuto un capolavoro che ha segnato la storia della cinematografia cristiana .In questo campo Zeffirelli ha tracciato con immagini bellissime una strada di alto profilo estetico per la pietà popolare che è il fulcro essenziale della fede cattolica. Come diceva il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, ma insigne studioso dei Padri della Chiesa,” …la pietà popolare è l’arteria principale della fede cristiana: e vale molto di più delle ricerche teologiche….”Italy Zeffirelli Funeral

Terzo) Pur essendo cattolico praticante, i suoi funerali si sono celebrati il 18 giugno di quest’anno nel Duomo di Firenze, officiati dal Cardinale Betori , Zeffirelli era dichiaratamente omosessuale. Al contempo, però, era contro l’aborto, da Lui definito “un assassinio” , era contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso e contro i gay pride. Per queste ragioni Zeffirelli è stato una personalità unica nella storia del novecento e per questa ragione la sua morte, all’età di 96 anni, ha suscitato una profonda commozione.




Quando «Dio asciugherà ogni lacrima dagli occhi degli uomini»

 

GerusalemmeCelesteBambergadi Stefano Tarocchi Il percorso sui testi giovannei, che caratterizza le liturgie del tempo pasquale nelle domeniche Quinta e Sesta di Pasqua, in quest’anno 2019 è stato particolarmente impreziosito con la lettura di larghi tratti del capitolo 21 del libro dell’Apocalisse di Giovanni, l’ultimo scritto del Nuovo Testamento.

Userò in queste brevi note una delle preziose traduzioni di Ugo Vanni, uscita postuma da pochi mesi in due volumi (il primo sul testo e sulla sua struttura, il secondo il commentario) per i tipi della Cittadella: traduzioni, si noti, differenti e complementari, e che – soprattutto nel primo volume – cercano di rendere la preziosità ruvida ed evocativa del testo originale, con tutti i richiami che rivolge al lettore/interprete. E Vanni ci riesce ottimamente.

Dopo aver descritto la nuova creazione, nei primi nove versetti del capitolo 21 dell’Apocalisse, con il richiamo al «cielo nuovo e della nuova terra» – non c’è più il mare, con la sua simbologia negativa –, ecco lo sguardo del lettore del libro si sposta verso Giovanni, il veggente del libro dell’Apocalisse, che contempla la città Santa, ad un tempo sposa e città, che discende dal cielo, dalla stessa altezza di Dio «pronta come una sposa che è diventata bella per il suo sposo».

È in quel momento che il libro rammenta la luce potente che deriva dal trono («la città non ha bisogno del sole, né della luna che facciano luce: infatti la gloria di Dio la illuminò e la sua lucerna è l’Agnello»: Ap 21,23), e annuncia la grande speranza divina: l’abitazione di Dio con gli uomini, che compirà realmente l’alleanza. Così egli sarà il Dio con loro e il loro Dio, e tutti gli uomini della terra saranno il suo popolo.

È allora che il libro dell’Apocalisse precisa l’intervento divino nella storia redenta: Dio asciugherà ogni lacrima dagli occhi degli uomini: non ci sarà più la morte, né il dolore e il lamento, né la fatica dell’esistenza: infatti, nella nuova creazione «le cose di prima passarono».

Proprio in quell’attimo la voce che proviene dal trono proclama: «Guarda: sto facendo nuove tutte le cose».

Quel Dio, Alfa e Omega della storia, e suo inizio e compimento, e che darà in dono i suoi beni a chi avrà condiviso la vittoria col Cristo – come troviamo sette volte nelle sette lettere alle sette chiese – : «Colui che vince avrà in eredità tutto questo; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio». Questo significa un’alleanza con ogni singola creatura della storia umana.

Al contempo si annuncia la sorte per quanti, invece, dovranno uscire dalla città di Dio, cui è riservata la seconda morte, come dice Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature: «guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no‘l farà male». Così il libro della rivelazione di Giovanni: «i vili, quelli senza fede, gli abominevoli, gli uccisori, gli impudichi, i fattucchieri, gli idolatri e i menzogneri».

Il grande affresco del capitolo 21 di Apocalisse si chiude con uno sguardo alla città santa, nella sua duplice immagine di donna e di città, appunto l’abitazione di Dio: «la città santa, la Gerusalemme nuova, la vidi anche discendente dal cielo, da Dio, già preparata come una fidanzata che si è adornata per il suo sposo.   E udii anche una voce grande dal trono che diceva: «Ecco la tenda di Dio insieme agli uomini! E metterà la tenda con loro ed essi saranno i suoi popoli ed egli Iddio con loro, sarà il loro Dio».

L’abitare di Dio con gli uomini utilizza la stessa terminologia del prologo del Vangelo di Giovanni: «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). I termini del testo originale greco, verbo e sostantivo, infatti, sono ricalcati sul termine ebraico shekhinah, ovvero la dimora divina. Il totalmente Altro divino diventa l’assolutamente Vicino.arton148886

C’è un ultimo sguardo che il veggente di Pàtmos dedica alla città santa: uno dei «sette angeli – quelli che avevano le sette coppe, che erano pieni delle sette piaghe ultime… mi trasportò nello Spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa Gerusalemme: discendeva dal cielo, da Dio avente la gloria di Dio (Ap 21,9-10).

Quella città che abitano Dio e l’Agnello che, ha in Dio e nell’Agnello la sua sola ed unica misura.




Cristo nei film di Pasolini: un saggio di Gabriella Pozzetto

2514484di Gianni Cioli • Desidero segnalare un libro non recentissimo ma sempre interessante, ovvero “Lo cerco dappertutto”. Cristo nei film di Pasolini (Ancora, Milano 2007) di Gabriella Pozzetto.

Il titolo riprende le parole di una lettera del regista: «Ho un’idea di Cristo pressoché inesprimibile. Potrebbe essere tutti, e infatti lo cerco dappertutto. L’ho cercato in Israele, in Sicilia, a Roma, a Milano… Ho pensato a poeti russi, a poeti americani. È forse tra i poeti che lo cerco» (p. 38). In realtà Pasolini si riferisce alla ricerca dell’attore protagonista per Il Vangelo secondo Matteo, ma per Gabriella Pozzetto questa può divenire, evidentemente, la metafora di una ricerca intellettuale ed esistenziale ben più profonda e decisiva.

La tesi dell’autrice è sintetizzata da quanto affermato nell’introduzione: «Pasolini ha riversato il suo punto di vista sul sacro dalla poesia al cinema e quando nel 1961 gira il suo primo film, Accattone, inizia la rappresentazione delle figurae Christi che culmineranno nella scelta di mettere in scena, nel 1964, Il Vangelo secondo Matteo. Nel Cristo di Matteo Pasolini fa confluire irrazionalità, mistero e tensione, azione: in filigrana l’autore rappresenta se stesso, intellettuale scomodo, ossimoro imbarazzante per l’intera geografia della cultura del suo tempo, uomo lucidissimo nel comprendere la mutazione socio-antropologica in atto, con i suoi devastanti effetti collaterali futuri. Pasolini comunque, attraverso ogni medium espressivo, non ha mai smesso di educare al vedere. E, infatti, a proposito del Cristo di Matteo e del suo Vangelo, Pasolini afferma: “Non sono venuto a portare la pace ma la spada [cf. Mt 10,34]. La chiave con cui ho fatto il film è questa, è questo che mi ha spinto a farlo”. Il Vangelo secondo Matteo diventa il film attraverso il quale vedere Pasolini e la sua produzione cinematografica. Il Vangelo inteso come cinema di poesia e cinema di realtà è simbolo della chiave di lettura del mondo che Pasolini ci presenta. Il sentimento del sacro e l’attenzione agli ultimi, in contrapposizione all’assenza del sacro nel nuovo scenario dello “sviluppo” con l’arroganza esibita dai nuovi protagonisti, sono le tematiche evangeliche, e sono presenti nei film prima e dopo Il Vangelo» (pp. 5-6).

Gabriella Pozzetto sviluppa la tesi della centralità paradigmatica del film del ’64 nel cinema pasoliniano articolando il saggio in tre capitoli, preceduti dall’Introduzione e da una Cronologia, laconica ma precisa, della vita e delle opere del regista; seguiti dalle Conclusioni, dall’apparato critico, dalla Filmografia completa, organizzata in schede, e da un cenno essenziale di Bibliografia che rimanda a repertori specialistici.pasolini

Nel primo capitolo, Pasolini e Il Vangelo secondo Matteo: cinema di realtà, cinema di poesia, si ripercorre la vicenda dell’intellettuale – poeta, scrittore e cineasta – dagli anni di Casarsa e del Friuli (1942-1945) alla realizzazione del film sul Vangelo (1964), evidenziando la continuità fra i mezzi espressivi della poesia, della narrativa e del cinema nella sua maturazione artistica. Al contempo si mette in luce la coerenza “scandalosa” fra l’interesse del regista per il sacro, il messaggio evangelico, la figura di Cristo e le sue convinzioni politico filosofiche di marxista gramsciano, sempre rivendicate anche quando il suo partito lo sconfessava. Si sottolinea l’importanza della collaborazione con l’associazione Pro civitate christiana nel vivo del clima conciliare e la grande fascinazione esercitata su Pasolini dalla figura di Giovanni XXIII, alla cui memoria, «cara, lieta e familiare», Il Vangelo secondo Matteo è dedicato. Alla fine del capitolo è offerto ampio spazio all’interpretazione delle sequenze più importanti del film, con la descrizione, fra l’altro, delle innovative tecniche di ripresa utilizzate e la sottolineatura della qualità colta delle frequenti citazioni cinematografiche e pittoriche, nonché della scelta dei brani musicali per la colonna sonora. Si mette in luce la singolare capacità del film di esprimere il percorso umano e intellettuale del regista e se ne evoca la portata autobiografica: «Il sacro, il mistero, l’azione e la parola sferzante di Cristo vengono espressi da Pasolini con una miscellanea unica di stili e di musiche che offrono la possibilità a chiunque di vedere, di trovarsi e di riconoscersi, e spesso la figura di Cristo appare essere uno specchio anche per la figura del poeta. Dal momento in cui Cristo entra in Gerusalemme sembra esserci una sorta di riconoscimento più ravvicinato tra Pasolini e Cristo, culminante nella scelta “profetica”, alla luce dei tragici fatti di Ostia, di sua madre anziana, per la parte di Maria» (p. 50). Il capitolo si conclude con una significativa testimonianza del travaglio interiore di Pasolini attraverso la citazione di una sua lettera a don Giovanni Rossi, presidente della Pro civitate christiana, scritta nel Natale del ’64 all’indomani della realizzazione del film, in cui il regista descrive la propria irresolutezza nei confronti della fede evocando la caduta di Paolo sulla via di Damasco: «Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio» (p. 54).

I due capitoli successivi s’intitolano rispettivamente I film prima del Vangelo e I film dopo il Vangelo e presentano, contestualizzandoli attraverso un’accurata documentazione, i titoli più significativi della filmografia pasoliniana soprattutto in relazione al tema del sacro. Il secondo capitolo prende in esame Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e La ricotta (1963). Il terzo presenta Uccellacci e uccellini (1966), Edipo re (1967), Teorema (1968), La sequenza del fiore di carta (1968-1969), Porcile (1968-1969), Medea (1969-1970), «La trilogia della vita» (Il Decameron [1971], I racconti di Canterbury [1972], Il fiore delle Mille e una notte [1974]) dalla quale nel 1975 il regista prese le distanze scrivendo un’Abiura e, infine, Salò o le 120 giornate di Sodoma che uscì dopo la tragica morte di Pasolini, ferocemente ucciso il 2 novembre 1975 sul lido di Ostia.

Il senso della successione dei capitoli è ben illustrato dall’autrice: «L’elemento sacro non si disgiunge mai da Pasolini, egli inizia nella poesia con la rappresentazione di una vita intrisa di religiosità e quando sceglie il cinema compie un percorso che ha come meta l’unico grande testo sacro ispiratore della sua vita: il Vangelo. Ecco perché qui si è scelto di parlare del Vangelo secondo Matteo non in ordine cronologico, perché questo film è il punto focale, inconscio e conscio, di tutta la sua produzione, o meglio della sua esistenza. I film prima del Vangelo sembrano infatti arrivare a questo specifico obiettivo, e i film successivi hanno la connotazione della perdita di quel riferimento, che poi è la semplice lettura della realtà senza Cristo». Nel cinema realizzato dopo Il Vangelo, infatti, «la vitalità iniziale del poeta» si trasforma, negli anni, «in un “tetro entusiasmo” davanti alla realtà dello scenario sociale, che è anche il nostro presente» (p. 28).

Gabriella Pozzetto, pur senza negare indubbi elementi di discontinuità, offre una lettura che mette in evidenza la continuità nei differenti periodi del cinema pasoliniano, basandosi anche su esplicite affermazioni del regista che spingono in questa direzione: «Io non vedo differenza tra l’Edipo e Medea; non vedo differenza nemmeno tra Accattone e Medea, e non vedo differenza tra Il Vangelo e Medea. Praticamente un autore fa sempre lo stesso film, per almeno un lungo periodo della sua vita, come uno scrittore scrive sempre la stessa poesia» (p. 7). La tesi della continuità può certamente essere discussa. Altri studi (cf. T. Subini, La necessità di morire. Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro, Roma 2007) sottolineano piuttosto la cesura intercorsa fra il periodo legato al film sul Vangelo – connotato dal rapporto con la Pro civitate christiana – e il periodo successivo. Il saggio della Pozzetto risulta comunque un’opera di grande interesse, condotta con intelligenza, rigore e passione, scritta con uno stile accessibile e con un tono carico d’empatia. . Il merito maggiore dell’autrice è l’essere riuscita a privilegiare la testimonianza diretta del cineasta, quale interprete di se stesso, dandogli voce attraverso la citazione di lettere, articoli e interviste, ottenendo alla fine una sorta di antologia autobiografica, puntuale e coinvolgente.

Per la capacità di entrare con empatia nella complessità ossimorica (cf. pp. 27-28) del regista e grazie anche agli apparati di complemento, il libro appare una lettura assai utile non solo a chi è interessato al tema di Cristo nel cinema ma anche a chi volesse avvicinarsi per la prima volta alla figura e all’opera di Pasolini.




Circa il ruolo dei Metropoliti nella Chiesa latina.

bonifacio-696x475di Andrea Drigani Il recente Motu Proprio «Vox estis lux mundi», che è stato illustrato da Francesco Romano nel numero di giugno di questa Rivista, attribuisce alcune funzioni agli Arcivescovi Metropoliti in ordine alla repressione di crimini sessuali da parte di sacerdoti e vescovi. Ciò potrebbe essere l’occasione per iniziare una riflessione de iure condendo sul ruolo degli Arcivescovi Metropoliti. Il noto canonista Giorgio Feliciani, nel 1984, osservava: «Attualmente i poteri del metropolita sono pressoché inesistenti». Il riferimento è ai canoni 435-437 del «Codex iuris canonici» del 1983, che però hanno quasi completamente reiterato i canoni 272-279 del «Codex iuris canonici» del 1917. Le affermazioni di Feliciani sono pienamente condivisibili, anche se, come vedremo, la normativa del 1983 potrebbe contenere un’indicazione interessante per ulteriori e proficui sviluppi circa i compiti degli Arcivescovi Metropoliti. Per quanto attiene allo storia di questo ufficio, che è assai antico (Cfr. Willibald M. Plöchl, «Storia del diritto canonico», Milano, 1963, I, 159-162, 356-359; II, 121-124), si può osservare che le diocesi, solitamente di dimensioni piccole, venivano raggruppate in province ecclesiastiche (metropolie) presiedute, appunto, da un arcivescovo metropolita che teneva anche il governo della propria diocesi. Questo è avvenuto sia nella Chiesa latina che nelle Chiesa orientali. Tra i diritti del metropolita si possono rammentare quello di prendere parte all’elezione dei vescovi della provincia (detti suffraganei) e di confermarne l’elezione. Segno di questo ruolo fu l’uso, a cominciare dal VI secolo, del pallio (una benda di lana bianca, contraddistinta da 6 croci di seta nera, girata intorno alle spalle, con due lembi pendenti, l’uno sul petto, l’altro sul dorso) che significava, oltre alla accresciuta potestà, anche il legame col Romano Pontefice. Dopo una parziale decadenza dell’istituzione metropolitana, per le resistenze dei singoli vescovi diocesani nonché per le perplessità circa l’esercizio del primato petrino, sarà il santo vescovo e martire Bonifacio (675-755), l’apostolo della Germania, a rilanciare tale istituto, poiché intendeva unire i benefici di una posizione superiore del metropolita nei riguardi dei vescovi suffraganei, con una maggiore comunione con la Sede Romana, onde evitare il rischio di una pericolosa autonomia. Lo scopo di san Bonifacio era di costituire i metropoliti come una realtà intermedia tra il Vescovo di Roma e i vescovi diocesani; proprio per questo impose il dovere che il pallio doveva essere ricevuto dal Romano Pontefice e di emettere la professione di fede prima di assumere il governo della provincia ecclesiastica. Si può notare che nelle Chiese orientali, che già conoscevano un istituto sovraepiscopale quale il patriarcato, i metropoliti conservavano il loro specifico ruolo. Nella Chiesa latina, invece, nonostante la riforma di Bonifacio, le funzioni degli arcivescovi metropoliti vengono ridimensionate sia per certe pretese «autonomistiche» di alcuni metropoliti, sia per l’intervento delle autorità civili, sia per una certa insofferenza dei vescovi suffraganei nei confronti del metropolita, sia, infine, per le preoccupazioni della Curia Romana affinché l’autorità degli arcivescovi metropoliti non si contrapponesse all’autorità pontificia. Nel Concilio di Trento si canonizza tale ridimensionamento, che viene confermato nel «Codex iuris canonici» del 1917. Come si è già scritto, il vigente «Codex» del 1983, che riporta in gran parte le disposizioni del 1917, attribuisce all’Arcivescovo Metropolita, previo consenso della maggioranza dei vescovi suffraganei, la convocazione del concilio provinciale, compete inoltre all’Arcivescovo metropolita di vigilare, nelle diocesi suffraganee, affinchè la fede e la disciplina ecclesiastica siano accuratamente osservate, e di informare il Romano Pontefice su eventuali abusi. Ha poi l’onere di fare la visita canonica, per una causa precedentemente approvata dalla Santa Sede, se il vescovo suffraganeo l’avesse trascurata. Al Metropolita spetta poi, di procedere alla nomina dell’amministratore diocesano, qualora il collegio dei consultori, durante la sede vacante, non vi provveda. Ma come si è già precedentemente notatoVI-IT-ART-38832-pallio potrebbero aprirsi delle prospettive nuove per i compiti degli arcivescovi metropoliti. Al § 2 del can. 436 si legge: «Ubi adiuncta id postulent, Metropolita ab Apostolica Sede instrui potest peculiaribis muneribus et potestate in iure particulari determinandis» («Dove le circostanze lo richiedono, la Sede Apostolica può conferire al Metropolita funzioni e potestà peculiari da determinare nel diritto particolare»). E’ evidente che proprio da questo paragrafo si sono originate le norme che di cui si è accennato all’inizio di questo articolo. Il governo della Chiesa cattolica, a tenore del can. 204 § 2, è affidato al successore di Pietro e ai vescovi in comunione con lui. Tenendo conto dell’attuale numero di diocesi e di vescovi (oltre 5000), dovuto all’allargata universalità della Chiesa, l’idea di san Bonifacio di creare una realtà intermedia tra il Romano Pontefice e il vescovi diocesani, quale potrebbe essere quella dell’Arcivescovo Metropolita, appare quanto mai interessante. Anche per quanto riguarda la complessa questione dell’accorpamento delle diocesi, una rinnovata potestà dei metropoliti potrebbe essere una soluzione affidando, tra l’altro, alla provincia ecclesiastica alcuni servizi quali i seminari, gli istituti di scienze religiose o i tribunali ecclesiastici. La Sede Apostolica, inoltre, potrebbe, eventualmente, affidare ai metropoliti anche alcune competenze sulla vita del clero e le associazioni laicali. In questa prospettiva può essere di grande l’aiuto l’esperienza giuridica delle Chiese orientali cattoliche.




Sturzo e i pifferai magici dalle promesse facili

614b7b05-e28c-4883-a445-2b62140ccf9d_mediumdi Antonio Lovascio • In politica, un po’ come i sogni, le opinioni son desideri. E con quelli degli elettori bisogna andarci cauti. Anche nell’esaminare i flussi registrati alle ultime Europee ed in particolare il “voto cattolico”, come ha fatto il più accreditato dei sondaggisti – Nando Pagnoncelli – per il quale fra i praticanti assidui è cresciuta decisamente l’astensione (52%), ha vinto la Lega (33%), seguita dal Pd (27%), mentre crolla il M5s (14%). L’affermazione dei sovranisti di Salvini preoccupa il Vaticano e la CEI: “Significa che è profonda la crisi di altre proposte”, ha commentato il card. Gualtiero Bassetti pungolando comunque il leader del Carroccio. “Non basta dirsi cattolici per diventare De Gasperi “. Papa Francesco e lo stesso presidente dei vescovi italiani hanno colto, dalle celebrazioni del centenario dell’appello di don Luigi Sturzo “A tutti gli uomini liberi e forti”, l’opportunità per invitare ancora una volta a riflettere sulla concezione cristiana della vita sociale, seguendo gli insegnamenti della Chiesa nonchè le parole e l’esempio del sacerdote siciliano. La testimonianza del Fondatore del Partito Popolare “non deve essere dimenticata, soprattutto in un tempo in cui è richiesto alla politica di essere lungimirante per affrontare la grave crisi antropologica”. “Il primato della persona sulla società, della società sullo Stato e della morale sulla politica”, ma anche centralità della famiglia, la difesa della proprietà con la sua funzione sociale e di libertà, l’importanza del lavoro e della pace, sono valori che “si basano sul presupposto che il Cristianesimo è un messaggio di salvezza incarnato nella storia, che si rivolge a tutto l’uomo e deve influire positivamente sulla vita morale sia privata che pubblica”.

Ringraziando gli organizzatori del convegno internazionale di Caltagirone, Papa Bergoglio ha rimarcato “la felice intuizione di onorare ‘uniti e insieme’ un anniversario così importante per la storia d’Italia e d’Europa, rileggendo con un largo e qualificato contributo di idee, di esperienze e di buone prassi i dodici punti che costituivano il programma dell’Appello di Sturzo, per risentirne il valore e l’attualità e riaffermare la sua praticabilità tra la gente, attraverso un nuovo dialogo culturale e sociale che sia ispirato, oggi come ieri, ‘ai saldi principi del Cristianesimo’”. Un dialogo che Papa Francesco aveva indicato già in occasione del V Convegno nazionale della Chiesa italiana (Firenze 2015) tracciando le linee di un Nuovo Umanesimo. Ora ribadito con la sollecitazione a un chiaro e più concreto impegno: < Superando il dualismo fra etica e politica, secondo cui Vangelo e amore sarebbero legati alla sfera privata, don Sturzo riteneva doverosa la partecipazione del cittadino alla vita del proprio Paese. “Il fare una buona o cattiva politica dipende dalla rettitudine dell’intenzione, dalla bontà dei fini da raggiungere e dai mezzi onesti che si impiegano” per questo obiettivo>.bassettiBELLA

Anche il card. Bassetti ha offerto utili suggerimenti ai Cattolici (e non solo a loro) “per ricucire il tessuto sociale del Paese che appare sfibrato”. “Un’opera di rammendo da svolgere con spirito di servizio e carità, senza piegarsi a visioni ideologiche, utilitaristiche o di parte”. “Senza seguire lo spirito del mondo e i pifferai magici dalle promesse facili” . Quella da ritessere è “una civiltà basata sulla centralità della persona umana e che rinuncia, in nome del Vangelo, a ogni volontà di oppressione del povero, ad ogni mercificazione del corpo umano e ad ogni rigurgito xenofobo”. Infine, attualizzando l’appello sturziano, il card. Bassetti ha evidenziato che “oggi come ieri essere ‘liberi e forti’ significa andare controcorrente, rimanendo fedeli al Vangelo in ogni campo dell’agire umano, anche in quello politico, e farsi annunciatori gioiosi dell’amore di Cristo con mitezza, sobrietà e carità. Significa farsi difensori coraggiosi della dignità umana in ogni momento dell’esistenza: dalla maternità al lavoro, dalla scuola alla cura dei migranti. Perché, in definitiva, la vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia”.

Forse proprio da Caltagirone è iniziato un processo di cui non conosciamo ancora l’esito e di cui non esiste un progetto preconfezionato. C’è però la consapevolezza – evidenziata dal Presidente Cei – di trovarci di fronte ad un “cambio d’epoca” eccezionale, che necessita un ripensamento dello stare al mondo. Per trovare le giuste e convincenti risposte da dare a chi a chi, preoccupato, si interroga sul crescente peso dei Cattolici che votano Lega. “Proprio le indagini sociologiche ci insegnano come sia necessario distinguere tra tradizione culturale, religione e fede”: è la prima considerazione fatta, in un’intervista a “Repubblica” (6 giugno) dallo stesso card. Bassetti, secondo cui “le trasformazioni sociali di questi anni non hanno cancellato un vocabolario comune, che rimane richiamo e ricchezza a cui tendere anche per tanti che hanno un’appartenenza debole alla comunità ecclesiale”. “Per noi – ha continuato il numero uno della Cei – questo costituisce l’orizzonte di un nuovo impegno di testimonianza e di proposta cristiana. Cercare di staccare i fedeli dai vescovi e soprattutto dal Papa , è una manovra sbagliata e controproducente”. Bassetti ha spiegato, quindi, che l’unità ecclesiale è “qualcosa di profondo e radicato”. Da qui il rifiuto dell’idea che “la Chiesa possa essere portata sul piano della battaglia partitica, quasi come pastori fossimo preoccupati di schierarci o con uni piuttosto o con gli altri”. “La storia ci insegna che non è mai stata una buona scelta quella di rincorrere i potenti, magari confidando di ottenerne consensi e privilegi. La Chiesa italiana è una presenza a servizio di tutti”. Deve infondere speranza, come dall’alto della sua saggezza, fa anche il Papa Emerito Benedetto XVI: <L’Italia è sempre stata un bellissimo Paese ma un po’ caotico. Però alla fine riesce sempre a trovare la sua strada…”




Nella direzione di una Pentecoste teologica

Senza-titolo-e1552585669510-200x300di Alessandro Clemenzia • Con queste parole profetiche di Papa Francesco si potrebbe sintetizzare quanto ha affermato nella sua visita a Napoli, il 21 giugno scorso, in occasione di un Convegno, organizzato dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, intitolato: “La teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo”. Per la densità del suo discorso, si possono mettere in luce soltanto alcuni aspetti decisivi, che realmente possono introdurci «nella direzione di una Pentecoste teologica».

Le sue parole puntavano soprattutto non sul contenuto di studio, ma sul metodo di lavoro. Il punto di partenza è chiaro: «Dobbiamo convincerci: si tratta di avviare processi, non di fare definizioni di spazi, occupare spazi… Avviare processi». Quanto affermato è un richiamo rivolto alla teologia di rivolgere l’attenzione sul “come” essa stessa si pensa in relazione al contesto contemporaneo. I termini-chiave che hanno innervato l’intera riflessione sono: “accoglienza e dialogo”. Si può capire come al centro della riflessione non ci sia una disciplina, ma la persona, la comunità: «Il dialogo è anzitutto un metodo di discernimento e di annuncio della Parola d’amore che è rivolta ad ogni persona e che nel cuore di ognuno vuole prendere dimora. Solo nell’ascolto di questa Parola e nell’esperienza dell’amore che essa comunica si può discernere l’attualità del kerygma. Il dialogo, così inteso, è una forma di accoglienza». Da queste considerazioni centrate in particolar modo sull’uomo scaturisce un altrettanto peculiare modo di pensare, anche in relazione alla teologia: «Le scuole di teologia si rinnovano con la pratica del discernimento e con un modo di procedere dialogico capace di creare un corrispondente clima spirituale e di pratica intellettuale. Si tratta di un dialogo tanto nella posizione dei problemi, quanto nella ricerca insieme delle vie di soluzione».

Il centro su cui si fonda questa riflessione e da cui scaturisce una particolare logica interpretativa viene rintracciato dal Papa nell’evento pasquale: «Assumere questa logica gesuana e pasquale è indispensabile per comprendere come la realtà storica e creata viene interrogata dalla rivelazione del mistero dell’amore di Dio. Di quel Dio che nella storia di Gesù si manifesta – ogni volta e dentro ogni contraddizione – più grande nell’amore e nella capacità di recuperare il male». Da questo evento, dunque, viene offerto un metodo capace «di confrontarsi con ogni istanza umana e di cogliere quale luce cristiana illumini le pieghe della realtà e quali energie lo Spirito del Crocifisso Risorto sta suscitando, di volta in volta, qui ed ora». Questo metodo “dialogico” – come lo chiama Francesco – porta, tanto il singolo quanto la comunità, ad assumere uno sguardo “pasquale”, capace di cogliere la positività della realtà, e spinge il soggetto ecclesiale a inserirsi, dal di dentro e dal di sotto, nel mondo, per «giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli». Si tratta, recuperando l’immagine di Francesco, di essere come “etnografi spirituali” dell’anima dei popoli: attraverso il dialogo è possibile annunciare il Vangelo del Regno di Dio. Tale annuncio, dunque, deve avere l’esperienza del dialogo come suo indispensabile e imprescindibile presupposto: «L’approfondimento del kerygma si fa con l’esperienza del dialogo che nasce dall’ascolto e che genera comunione».

Dopo aver riflettuto sul soggetto teologico, la dimensione del dialogo porta la teologia a riflettere su se stessa anche come oggetto, e qui il Papa introduce l’urgenza di una forma inter- e trans-disciplinare della conoscenza: «Una teologia dell’accoglienza che, come metodo interpretativo della realtà, adotta il discernimento e il dialogo sincero necessita di teologi che sappiano lavorare insieme e in forma interdisciplinare, superando l’individualismo nel lavoro intellettuale» e sfuggendo alcune logiche autoreferenziali che talvolta esistono nelle istituzioni accademiche.cq5dam.thumbnail.cropped.1500.844

La inter- e la trans-disciplinarità, spiega ancora il Papa, devono costantemente fare riferimento alla tradizione: «L’interdisciplinarità come criterio per il rinnovamento della teologia e degli studi ecclesiastici comporta l’impegno di rivisitare e reinterrogare continuamente la tradizione. Rivisitare la tradizione! E reinterrogare».

La teologia, alla luce di quanto affermato in Veritatis gaudium, è chiamata a incamminarsi nella direzione di tutto il Popolo di Dio, raggiungendo senza paura tutte le periferie, anche quelle del pensiero, e favorendo l’incontro tra le diverse culture. E ciò è possibile attraverso alcuni presupposti: in primo luogo, occorre «partire dal Vangelo della misericordia, cioè dall’annuncio fatto da Gesù stesso e dai contesti originari dell’evangelizzazione»; in secondo luogo, «è necessaria una seria assunzione della storia in seno alla teologia, come spazio aperto all’incontro con il Signore»; terzo, «è necessaria la libertà teologica», che, lasciando spazio alla novità dello Spirito, permette di aprire nuove strade. «Infine, è indispensabile dotarsi di strutture leggere e flessibili, che manifestino la priorità data all’accoglienza e al dialogo, al lavoro inter- e trans-disciplinare e in rete».

Questo discorso di Papa Francesco è un chiaro invito rivolto a tutto il mondo della teologia a riflettere se è veramente incamminato nella direzione di una Pentecoste teologica.




Maschio e femmina. L’educazione dei ragazzi e la questione del gender

download (2)di Francesco Vermigli • Nelle scorse settimane è uscito un agile documento della Congregazione per l’Educazione Cattolica che tenta di leggere in modo non conflittuale la questione del cosiddetto gender, vista da un punto di vista educativo: «Maschio e femmina li creò». Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione. In queste nostre righe vorremmo presentare tale documento e – per quanto ne saremo capaci – provare a pensare brevemente il tema del gender a partire da esso.

Il documento si articola in tre parti: «Ascoltare», «Ragionare», «Proporre». Esso pare mettere in atto le modalità tipiche della dottrina cristiana quando accede ad una realtà: lettura critica della specifica realtà, promozione di una visione cristiana di quella stessa realtà, presentazione di criteri pratici (qui, criteri educativi) atti a governarla e, appunto, a “educarla”. Che poi è forse, almeno vagamente, l’eco lontana di quel celeberrimo metodo, siglato dalle parole: “vedere”, “giudicare”, “agire”. Tuttavia – a rigor di analisi – non pare che questa tripartizione metodologica corrisponda esattamente all’articolazione in tre parti: piuttosto i tre momenti dell’approccio alla realtà del gender sono trasversali alle tre sezioni; fatta eccezione per l’ultima parte che pare più direttamente corrispondere alla rilevazione di criteri operativi.

Come si può capire, parlare di gender o di “ideologia gender” significa inserirsi in una delle discussioni che agitano di più l’opinione pubblica di oggi; un campo in cui non sono mancati pronunciamenti dello stesso pontefice, che inanellano il documento della Congregazione: basti pensare all’Amoris laetitia (che il documento cita in particolare ai nn. 56 e dal 281 al 283), ma anche al Discorso alla Delegazione dell’Istituto “Dignitatis humanae” (7 dicembre 2013), al Discorso alla Delegazione dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia (11 aprile 2014), al Discorso ai partecipanti al Colloquio internazionale sulla complementarietà tra uomo e donna (17 novembre 2014) e al Discorso ai partecipanti all’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita (5 ottobre 2017). Primo obbiettivo della Congregazione è distinguere, proprio sulla scorta del papa, ciò che emerge dagli studi seri sul tema, dalla deriva ideologica del medesimo: «nell’intraprendere la via del dialogo sulla questione del gender nell’educazione è necessario tener presente la differenza tra l’ideologia del gender e le diverse ricerche sul gender portate avanti dalle scienze umane» (n. 6).

Nella prima sezione dedicata all’«Ascoltare» si ricostruisce innanzitutto la storia dello sviluppo delle linee interpretative della sessualità umana che vanno sotto la categoria del gender. Quindi si notano i punti di incontro tra la visione cristiana della sessualità e il gender; in modo particolare si nota come tali studi trovino nella valorizzazione della femminilità un punto convergente con il modo in cui la Chiesa di oggi guarda al compito della donna nella società e nella medesima comunità ecclesiale. Infine, ci si sofferma sugli elementi critici insiti nella lettura ideologica del gender: ciò che si pone come maggiormente problematica è la tendenza alla separazione – non già alla semplice distinzione – tra la dimensione corporea, e quindi sessuata della persona, e l’identità sessuale, considerata come frutto dell’opzione fluida del singolo.coppia-1024x576

Il riconoscimento che la «separazione tra corpo ridotto a materia inerte e volontà che diviene assoluta» (n. 20) porta alla manipolazione del corpo e all’indifferentismo riguardo alla realtà che ricevo prima di ogni mio atto di volontà determinato, non basta. È necessario mostrare uno sguardo positivo sulla sessualità dell’uomo: a ciascun uomo è chiesto di mobilitare ogni potenzialità psichica, relazionale e affettiva e il modo di stare nel mondo, che risultano connesse alla dimensione sessuata della persona. È la sezione («Proporre») dedicata innanzitutto alla lettura del dimorfismo sessuale maschile/femminile dal punto di vista dell’antropologia cristiana. Si tratta di una lettura antropologica che vorrebbe nelle intenzioni della Congregazione aprire alle questioni più direttamente educative. In realtà i criteri pratici proposti sono piuttosto esili: di fatto sembrano ridursi all’ascolto rispettoso della situazione concreta e all’informazione aggiornata che si richiede all’educatore e all’insegnante, circa gli sviluppi delle scienze umane e delle scienze biologiche e mediche implicate nel gender.

Il documento appare semplice e sintetico, preoccupato di leggere la questione alla luce dell’antropologia cristiana e proponendo qualche criterio orientativo per il mondo dell’educazione. Il tema necessiterebbe di ulteriori sforzi teoretici: in modo particolare, ci pare, mostrando la dimensione sessuata dell’uomo non come un limite che si frappone all’autodeterminazione della persona, ma come un dato di partenza per la crescita psichica, affettiva, relazionale e persino spirituale dell’uomo; a quell’uomo a cui è chiesto di avanzare fino a raggiungere la pienezza di Cristo (cfr. Ef 4,13).




Isaia fra i pagani. Il perché di Virgilio «profeta»

bucoliche-di-virgilio111di Carlo Nardi • Mondo mediterraneo greco-romano, primo secolo a.C.: pienezza storica dei tempi, come dice san Paolo, riferendosi all’incarnazione del Figlio di Dio. Doveva essere un’epoca di una diffusa attesa di un evento imminente, critico ed anche salvifico. Il pensiero filosofico e morale del tempo si era orientato alla ricerca della beatitudine con vie ispirate a varie concezioni di salvezza. In mezzo a guerre civili si anelava a un ritorno ad una specie di paradiso perduto, la leggendaria età dell’oro.

Virgilio, poeta latino (70-19 a.C.), nel quarto carme della sua prima opera certa, Le bucoliche o Ecloghe, del 40 a.C., offre la più alta espressione poetica di quell’attesa in cui convergevano molteplici filoni spirituali.

Annunciava il prossimo avvento di un’era di pace cosmica, avviata e attivata dalla nuova nascita di un bimbo divino. Il piccolo è con ogni probabilità il figlio di un caro amico di Virgilio, Asinio Pollione, il quale però non compicciò granché nella vita. Eppure alcuni particolari del carme richiamano motivi biblici, che ricordano tratti del profeta Isaia: l’espiazione d’un antico peccato, l’apparizione di una vergine e la gestazione di un fanciullo destinato a grandi cose, come l’omaggio di una natura mansueta e spontaneamente feconda: leone e serpente non incutono paura al fanciullo divino in serena compagnia col mondo sia celeste sia terrestre in via di progressiva riconciliazione.1309961503

I cristiani vi trovarono consonanze con le profezie, e si può ben capire Chi intravedessero nel bambino e quale nuovo popolo di origine celeste. Eppure con diverse sensibilità fra gli stessi cristiani. Lattanzio pareva attendere ancora la piena realizzazione di quella pace cosmica, mentre Eusebio di Cesarea sembra suggerire all’imperatore Costantino che era già realizzata nel suo impero. Girolamo, da storico rigoroso, raccomandava di non cadere nel ridicolo facendo di Virgilio un cristiano (Lettera 53,7). Tuttavia una lettura di quella poesia dai toni messianici impressionava. Si comprende che Dante abbia immaginato che un altro poeta latino pagano, Stazio, alla fine del primo secolo d.C., si sia avvicinato al nascente cristianesimo a séguito di quella lettura del maestro Virgilio, a cui Stazio dice con gratitudine: «Per te poeta fui, per te cristiano» (Purgatorio XXII,73).

Remoti effetti di Isaia nella Roma pagana di allora? Chi sa? Comunque, una preparazione al vangelo.




Rosario Livatino esempio di indipendenza e responsabilità del giudice

Giudice_Rosario_Livatinodi Carlo Parenti • L’organo di autogoverno della magistratura (Consiglio Superiore della Magistratura) è al centro di una vicenda che, come è detto (Lucia Annunziata), ha tutti i contorni di un lurido gioco di potere. Un intreccio di arrogante uso della propria influenza e soprattutto abuso della fiducia dei cittadini. Un gioco segreto piantato nel cuore del Csm che dovrebbe garantire al paese uno standard etico superiore per gli uomini che gestiscono la giustizia. Per fortuna Sergio Mattarella, che di questo organo di rilevanza costituzionale è Presidente, sta intervenendo con risolutezza.

Credo che sull’indipendenza e responsabilità, anche morale, dei giudici sia utile citare brani di un discorso de 1984, del giudice Rosario Livatino al Rotary di Canicattì, in uno dei pochissimi interventi pubblici della sua vita. Parole di estrema attualità e un monito al CSM e a tutti i giudici (vedi) Rosario sarà poi assassinato dalla mafia il 21 settembre 1990. Aveva 38 anni. Era una giorno particolare: deve decidere le misure di prevenzione per boss mafiosi di Palma di Montechiaro. Il “giudice ragazzino”, come fu definito, insieme ad altri giovani magistrati, dal Presidente Cossiga, scatenando molte polemiche, era stato per 8 anni Sostituto procuratore della Repubblica alla Procura di Agrigento ed era giudice al Tribunale della città. È un martire della Chiesa cattolica, «martire della giustizia ed indirettamente della fede» ha detto san Giovanni Paolo II.

«Il giudice, oltre che essere, deve anche apparire indipendente […]. L’indipendenza del giudice, infatti”, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità a iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia a ogni desiderio di incarichi e prebende».

Per Livatino i magistrati non devono iscriversi o parteggiare per un partito politico (né per associazioni che vincolano i membri o segrete) pur dovendo ispirarsi a una autonoma “coscienza politica”: “ciò non significa certo sopprimere nell’uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica […]: e di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione di norme , a determinati modelli ideologici, che possono anche coincidere con quelli di gruppi politici”.

Altro delicato aspetto è quello di cariche elettive: “è gravissimo il problema che si pone quando un mandato elettivo cessa: infatti, un parlamentare, anche se nei limiti della legalità, assume inevitabilmente un complesso di vincoli e obblighi verso gli organi del partito, contrae legami ed amicizie che raramente prescindono dallo scambio di reciproche e sia pur consentite cortesie, dall’assunzione di impegni e obblighi che, appunto perché galantuomini, si è tenuti ad onorare, si assoggetta infine ad un’abitudine di disciplina (nei confronti delle varie gerarchie del partito e del gruppo parlamentare) in contrasto con la libertà di giudizio e l’indipendenza di decisione proprie del giudice, abitudine difficile da lasciare anche perché, tranne casi eccezionali, l’abbandono del seggio non rompe i vincoli di gratitudine e non distrugge il legame fiduciario fra il singolo e la struttura”.montenegro94

Per Livatino è del tutto chiara la conseguenza: “..anche ammesso che il Magistrato – parlamentare sappia riacquisire per intera la propria indipendenza dal partito….è inevitabile che l’opinione pubblica[…]incline al sospetto e tutt’altro che propensa a credere alla rescissione di simili vincoli, continua a considerarlo adepto di quel partito“ e sarebbe dunque “sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio di Giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, lasciandosi tutti i vascelli alle spalle con le dimissioni definitive dall’Ordine Giudiziario”.

Con la stessa schiettezza Livatino condanna la allora paventata riforma della responsabilità civile dei magistrati.: “la sua introduzione pare assolutamente inaccettabile per molte ragioni[…] ogni atto giurisdizionale, incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea a produrre danno […]Non esiste che possa dirsi indolore. […]Ogni Giudice nel decidere un provvedimento, non potrebbe non domandarsi non gliene possa derivare una causa per danni. E sarebbe quindi inevitabile ch’egli studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo. Come possa dirsi ancora indipendente un Giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività non è facile intendere”. Concludendo: “Questo è l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il Giudice: essa punisce l’azione e premia l’inazione, l’inerzia, l’indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato […]recupererebbero attraverso questa forma di intimidazione del Giudice, la garanzia della propria impunità. […]”.

Concludo con le parole dall’arcivescovo di Agrigento, cardinale Francesco Montenegro, che il 19 luglio 2011 aprì il processo di beatificazione ricordando altri laici, Piergiorgio Frassati e Giorgio la Pira, che hanno vissuto la “santità” nella perfezione del lavoro quotidiano.

In Livatino, non ci sono “gesti eclatanti o parole esplicite” ma l’impegno «a portare il Vangelo dentro ciò che era chiamato a vivere ogni giorno, nella ricerca della giustizia e nel rispetto della dignità di ogni persona». E ancora: «Livatino ci può insegnare che per diventare santi non dobbiamo estraniarci dai nostri impegni ma, piuttosto, dobbiamo sporcarci le mani nelle fatiche quotidiane (…) Livatino per noi è espressione di un cristianesimo a tutto tondo fatto di unione con Dio e di servizio all’uomo, di preghiera e di azione, di silenzio contemplativo e di coraggio eroico. Anche questa forma di esempio ci può aiutare a comprendere meglio cosa voglia dire essere cristiani in questo nostro tempo».

Merita proprio leggere spesso l’esortazione apostolica di papa Francesco Gaudete et Exsultate (Rallegratevi ed esultate) sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo.




Il nuovo piano per la pace in Medio Oriente: Un’altra illusione e tempo perso

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di Mario Alexis Portella Gli Stati Uniti d’America hanno lanciato in Bahrein il mese scorso un nuovo piano di pace per il Medio Oriente, in modo specifico tra Israele e i palestinesi, proposto da Jared Kushner, consigliere della Casa Bianca e genero del presidente americano Donald Trump. Chiamato l’“accordo del secolo”, esso mette sul piatto 50 miliardi di dollari di investimenti nei territori palestinesi lungo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza per sostenere l’economia delle aree limitrofe negli stati confinanti di Giordania, Libano ed Egitto. Nonostante l’entusiasmo, il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Mahmud Abbas non si è presentato all’incontro, così rifiutando un altro tentativo per la pace. La sua giustificazione è stata attenuata dal rifiuto dell’amministrazione Trump di approvare la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est — la “soluzione dei due Stati” che è stata vista a lungo a livello internazionale come l’unica via percorribile per una pace duratura. Ma questo piano era destinato a fallire prima che il negoziatore ebreo-americano lo presentasse.

 

Da anni la diplomazia internazionale ha lavorato—senza successo—con l’obiettivo di raggiungere un accordo di pace che metta fine al conflitto israelo-palestinese con la creazione di due Stati che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza, corrispondenti in linea di massima all’attuale stato d’Israele da una parte e a Cisgiordania e Striscia di Gaza dall’altra. L’ultimo tentativo di negoziato, su iniziativa americana, fu nel luglio 2013 e si è concluso senza risultati nell’aprile dell’anno successivo. A complicare un possibile accordo c’è la questione di Gerusalemme, città sacra per ebrei, cristiani e musulmani, che Israele considera propria capitale, malgrado ciò non sia riconosciuto a livello internazionale. Sulla collinetta dove oggi sorge la Moschea di al-Aqsa, terzo luogo sacro per i musulmani, si ergeva il tempio biblico degli ebrei di cui rimane soltanto, alla base dell’altura, il muro del pianto sacro agli ebrei. Altra questione chiave da annoverare tra le cause del conflitto israelo-palestinese è la presenza di ampi insediamenti ebraici in Cisgiordania.

Gran Mufti of Jerusalem Amin al-Husseini e Adolf Hitler a Berlino,  28 novembre 1941. (Photo: Getty Images)

Gran Mufti of Jerusalem Amin al-Husseini e Adolf Hitler a Berlino, 28 novembre 1941. (Photo: Getty Images)

 

Ci serve a capire che la terra contesa fra israeliani e palestinesi è stata teatro di tensioni e violenze fra arabi ed ebrei fin dai tempi del mandato britannico, che nel 1917 mise fine a 400 anni di dominio ottomano. Con la dichiarazione di Balfour il governo di Londra dichiarò allora di appoggiare una “patria nazionale ebraica in Palestina”, sostenendo gli ideali sionisti di Theodor Herzl. La dichiarazione diede un’ulteriore spinta ad un movimento di immigrazione in Palestina già in atto fra gli ebrei della diaspora, frutto della dispersione del popolo ebraico avvenuta durante i regni di Babilonia (586 a.C.) e sotto l’impero romano dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.). Contestualmente tra il 1934 e il 1945, intercorsero gli intimi e complessi rapporti tra il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, capo spirituale dei musulmani palestinesi e Adolf Hitler. Fu un’alleanza incondizionata alla Germania di Hitler con la promessa che il Terzo Reich fosse disposto a sostenere il movimento arabo contro gli ebrei — nel 1931, il Gran Muftì aveva sostenuto la nascita del Partito Arabo per l’Indipendenza, uno schieramento che aveva reclamato a gran voce l’unione politico-religiosa tra Palestina e Siria, regione posta sotto mandato francese.

 

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, e lo stermino di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti, l’Assemblea generale dell’Onu approvò un piano di partizione della Palestina, con la costituzione di uno stato ebraico nel 1949 e un altro arabo. Circa 688.000 immigrati vennero in Israele durante i primi tre anni; circa 650.000 ebrei già vivevano in Israele al momento dell’istituzione dello Stato. Da qui prese vita quello che oggi conosciamo come conflitto israelo-palestinese.

 

Il problema odierno, comunque, riguarda l’occupazione della Città Santa, problema sorto a seguito della Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967) vinta da Israele. All’origine di questo conflitto vi fu l’attacco ad Israele da parte della Giordania che occupò illegalmente il Muro occidentale e il quartiere ebraico di Gerusalemme, impedendo in tal modo ogni possibilità di accesso degli ebrei a queste aree sante. Nel 1950, la Giordania annesse i territori che aveva conquistato nella guerra del 1948, cioè Gerusalemme orientale e Cisgiordania, dichiarandosi “Protettore” della Terra Santa. Gli unici paesi che riconobbero l’annessione di questi territori alla Giordania furono la Gran Bretagna e il Pakistan, mentre tutte le altre nazioni, inclusi gli stati arabi, la condannarono: la Gran Bretagna, invero, riconobbe solo l’annessione della Cisgiordania e non ha mai riconosciuto la sovranità giordana o israeliana su alcun settore di Gerusalemme, visto che l’annessione della Giordania del 1950 e l’annessione israeliana di Gerusalemme Ovest erano considerate illegali.

 

Israele, dopo la sua vittoria, siccome era incorso nell’ira del mondo islamico, temeva un altro Olocausto; divenne quindi un “impero” sionista. Essi presero i luoghi sacri di Gerusalemme e i luoghi delle loro storie bibliche. Ma la terra arrivò con molti palestinesi che Israele non poteva né espellere né assorbire.

 

Negli ultimi 50 anni, Israele ha cercato di mantenere entrambe le situazioni: prendere la terra piantando insediamenti ebraici su di essa; e mantenere i palestinesi senza diritto di voto sotto l’occupazione militare, negandoli il loro proprio stato o l’uguaglianza politica all’interno di Israele. I palestinesi, allo stesso tempo, hanno danneggiato la loro causa attraverso decenni di violenza indiscriminata.

 

Uno degli obiettivi dell’“accordo del secolo” chiede all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti di fornire assistenza economica ai palestinesi e contestualmente costruire un oleodotto dall’Arabia Saudita a Gaza, dove potevano essere costruite raffinerie e un terminal di spedizione. I profitti creerebbero impianti di desalinizzazione, dove i palestinesi potrebbero trovare lavoro, affrontando l’alto tasso di disoccupazione. Il piano include anche lo scambio di terre, dove la Giordania avrebbe dato terra ai territori palestinesi, e in cambio, la Giordania avrebbe avuto terra dall’Arabia Saudita, e quel paese avrebbe recuperato due isole del Mar Rosso che avrebbe dato all’Egitto per amministrare nel 1950. Il piano mira inoltre a iniettare 950 milioni di dollari nell’industria del turismo palestinese. L’“accordo del secolo”, come già menzionato, non propone uno Stato indipendente e sovrano per i palestinesi; loro avranno solo uno Stato autonomo in vista che Israele ancora si rifiuta di riconoscere la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu in data 23 dicembre 2016 gli chiede di porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi, inclusa Gerusalemme.

 

Indubbiamente è lecito pensare che prima o poi si realizzerà la pace tra gli israeliani ed i palestinesi, benché i due popoli credano che le loro rivendicazioni siano giustificate; i palestinesi musulmani, addirittura, vanno purtroppo ben oltre armando i terroristi che si suicidano facendo strage di ebrei. Ritenere che questo odio sia facilmente indebellabile oppure che tutte e due facciano la pace fra di loro in questi condizioni è impossibile. E questo è perché—qualcosa che la comunità internazionale e la Sede Apostolica non vogliono ammettere—essi credono nel principio del taglione: “occhio per occhio, dente per dente”.

 

Gli ebrei hanno superato qualche discipline del Testamento Antico, come la lapidazione delle donne adultere e la vendetta giustificata—attribuita alla legge mosaica—mettendole nei contesti storici ed esegetiche. Però, se qualcuno inizia a crearli problemi, gli israeliani hanno storicamente mostrati di non essere tolleranti; loro buttano fuori la vendetta giustificata. I palestinesi, invece, non hanno superato il principio del taglione perché il Corano non glielo permette, neanche la convivenza con una gente che eleggono il loro governo democraticamente, specialmente il capo di Stato è ebreo.

 

L’unico modo in cui gli israeliti e i palestinese possono arrivare alla pace è l’incorporazione dell’insegnamento del perdono come insegnatoci da Gesù Cristo, come il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il Primo Ministro israeliano Menachem Begin hanno fatto il 17 settembre 1978 con gli accordi di Camp David — essi condussero al trattato di pace israelo-egiziano del 1979 e al ritiro delle truppe israeliane dal Sinai. Se tutti e due israeliani e palestinesi vogliono fare la pace, lo possono fare.




La dimensione giuridica della Chiesa risiede nei suoi elementi strutturali fondativi

costituzione-dogmatica-lumen-gentium-sulla-chiesa-3112297f-26d5-4ee8-800d-8f63a9605d34di Francesco Romano • Non di rado persone anche qualificate e interessate a conoscere la vita della Chiesa si domandano con perplessità se essa debba necessariamente assumere la configurazione di una società giuridicamente organizzata sul modello di quelle mondane, vedendo nell’azione dello Spirito Santo l’unica guida che possa corrispondente alla sua essenza spirituale.

La costituzione dogmatica Lumen Gentium n. 8 ci presenta la Chiesa su questa terra nella sua duplice struttura, quella spirituale, per cui è “una comunità di fede, di speranza e di carità”, e quella esterna, visibile, come un organismo sociale e giuridico ordinato gerarchicamente.

Questa visione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, nella duplice ma unitaria dimensione, integra la sua connotazione come società giuridica con quella di comunione, sacramento di salvezza “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG, nn. 1, 9).

La Chiesa è il Popolo di Dio, formata da coloro che sono incorporati a Cristo mediante il battesimo (LG, n. 31, 1, can. 204 §1), ed è costituita e ordinata nel mondo come società (can. 204 §2). La comunità di fede, di speranza e di carità è la Chiesa che si rende visibile nella comunità dei fedeli che il battesimo costituisce “persona” (can. 96).

Tra gli studiosi è controversa la questione se la socialità sia un istinto primario dell’uomo oppure sia frutto di altre necessità. Al di là di queste considerazioni, ogni uomo è un essere in grado di stabilire relazioni con gli altri secondo la sua natura. Questo elemento è strutturale, perché gli è proprio e quindi è per lui una necessità. Per Aristotele l’uomo è un “animale sociale” che tende per natura ad aggregarsi con altri uomini e a costituirsi con essi come società. È nota la massima “ubi homo ibi societas”, ma le relazioni sono sempre regolate da norme, convenzioni, consuetudini. Da qui il principio giuridico che ne deriva “ergo ubi homo ibi ius” che individua l’ordinamento giuridico quale punto basilare e imprescindibile per ogni organizzazione sociale anche la più elementare.

Lo snodo di questa premessa antropologica, per noi che riflettiamo sulla Chiesa, è dato dalla visione dell’uomo consegnataci dalla Rivelazione, cioè l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, costituito persona in cui è insita la capacità di relazionarsi sul modello delle tre Persone divine alle quali alterità e comunione appartengono alla loro essenza.sacra-rota

L’identità relazionale dell’uomo che gli deriva dall’essere così creato non può prescindere dalla comunione che ognuno deve stabilire con il prossimo. La relazione che l’uomo vive con Dio si dispiega verso il prossimo secondo le regole della convivenza trascritte nella sua stessa natura. Essa è autentica e pienamente realizzata se conduce alla comunione. La caduta dovuta al primo peccato di ribellione a Dio determina il rifiuto del progetto divino sull’uomo, la frattura della comunione e lo scompiglio delle regole fondamentali della convivenza umana.

La storia della salvezza è la storia della restaurazione della natura dell’uomo. La relazione di comunione tra Dio e il popolo, e tra gli uomini all’interno del popolo, si realizza attraverso la Legge dell’Antica Alleanza. In Cristo, con la sua morte e risurrezione, giunge a compimento la relazione di comunione con Dio, l’uomo viene reintegrato nei suoi diritti fondamentali e recupera la dignità di figlio di Dio che va al di là di ogni distinzione di stirpe e condizione. In Cristo la giustizia evangelica è il pieno adempimento della volontà del Padre inscritta nell’Alleanza, il superamento della giustizia esteriore degli scribi e dei farisei, la carità come coronamento che instaura relazioni fraterne e fa riconoscere gli uomini quali figli dell’unico Padre. Questa rinnovata relazione tra fratelli animata dalla carità edifica la comunità stabilendo rapporti di comunione.

La capacità relazionale del fedele incorporato a Cristo con il battesimo trae origine dalla sua nuova struttura ontologica che lo costituisce persona nella Chiesa “con gli obblighi e i diritti che tenuta presente la loro condizione, sono propri dei cristiani, in quanto sono nella comunione ecclesiastica” (can. 96). L’unica e medesima appartenenza a Cristo diventa la mediazione che determina necessariamente tutte le relazioni che il fedele stabilisce con il proprio prossimo e trova concretezza nella comunione che promana dall’essere parte costitutiva del Signore, dove non c’è “nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale a al sesso” (LG, n. 32).

I rapporti che il fedele vive all’interno della comunità ecclesiale devono essere espressione, quale sua specifica connotazione antropologica, della comunione della Chiesa “in Cristo come sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG, n. 1). In essa ognuno riceve tutti i mezzi per realizzare la comunione con Dio e con gli uomini ed essere unico corpo, principalmente il battesimo con cui viene incorporato in Cristo e la partecipazione all’unico pane eucaristico quali elementi strutturali su cui Dio ha fondato la sua Chiesa.

La dimensione giuridica della Chiesa risiede nei suoi elementi strutturali fondativi, la Parola, i Sacramenti e il Carisma che sono fonte del suo ordinamento giuridico. La Parola intesa come Rivelazione o annuncio che il Signore pronuncia, oltre all’assenso, richiede obbedienza. L’annuncio della Parola si prolunga nel tempo per mandato concesso dal Signore alla Chiesa. La dimensione giuridica della Parola è insita nel carattere vincolante dell’annuncio.

Il Sacramento nella sua definizione classica è segno sensibile capace di rappresentare una realtà invisibile la cui efficacia è legata all’azione di Cristo e della Chiesa. La funzione di santificare della Chiesa viene dettagliatamente codificata nel quarto Libro del Codice di Diritto Canonico. Attraverso la dimensione giuridica e i conseguenti effetti che attua nella sua compagine sociale quale fonte di diritti e doveri, la Chiesa continuamente si ricrea come comunità e istituzioni.

Lo Spirito Santo guida e santifica il suo popolo di Dio non solo attraverso i sacramenti e i ministeri, ma distribuendo a ciascuno i propri doni rendendolo idoneo ad assumere uffici utili al rinnovamento e all’espansione della Chiesa (LG, n. 317). La dimensione carismatica della Chiesa che edifica la comunione ecclesiale, regola l’uguaglianza fondamentale dei fedeli fondata sul Battesimo nella partecipazione alla funzione profetica, sacerdotale e regale di Cristo (can. 208), ma al contempo anche la loro ineguaglianza per la diversità di vocazioni e le diverse condizioni giuridiche che ne conseguono. La dimensione carismatica è in relazione con quella sacramentale, i diversi doni danno origine ai diversi ministeri, cioè all’istituzione che comporta diritti e doveri.

La Chiesa nella sua compagine visibile è una società strutturata gerarchicamente in cui le relazioni tra i fedeli devono rispondere a regole di giustizia e carità, ma ancor di più l’esercizio della funzione santificatrice della Chiesa deve collocarsi all’interno di strutture giuridiche e pastorali.

La natura relazionale dell’uomo, che gli deriva dall’essere creatura che reca in sé l’impronta dell’immagine e somiglianza di Dio, rende ragione della necessità di vivere nella Chiesa in strutture gerarchicamente organizzate. Il diritto appartiene anche alla natura carismatica e sacramentale della Chiesa in cui i fedeli vivono i loro rapporti intersoggettivi. Gli elementi strutturali fondativi della Chiesa – Parola, Sacramenti e Carisma – preposti all’edificazione della comunione ecclesiale, vengono regolati dalla loro insita dimensione giuridica per l’esercizio delle funzioni di insegnare, santificare e di governare che le sono state affidate dal Signore e per l’esercizio delle relazioni intersoggettive dei fedeli improntate alla giustizia e alla carità.

Detto questo, possiamo rispondere affermativamente alla domanda se il diritto appartiene per sua natura alla Chiesa oppure entra a far parte di essa. Il diritto inteso non solo come codice di norme canoniche, ma più in generale come ordinamento giuridico, si completa con il diritto naturale e il diritto divino rivelato che la Chiesa recepisce dal suo Fondatore. Il fondamento ecclesiologico del diritto ecclesiale rende ragione della sua esistenza in quanto i suoi elementi strutturali essenziali individuati nella parola, nei sacramenti, nei carismi e nei ministeri instaurano relazioni tra i fedeli e generano obblighi e diritti. Per questo il diritto ha il suo fondamento antropologico “ubi homo ibi ius”, cioè appartiene alla natura dell’uomo come tale, ma appartiene anche alla natura dell’uomo creato a immagine di Dio e redento in Cristo, alla natura comunionale della Chiesa che si edifica nel rispetto di norme che regolano le relazioni tra i fedeli.