Presentazione degli articoli del mese di maggio 2017

ASCENSIONE-DEL-SIGNORE-e1337349213964Andrea Drigani nella memoria di Sant’Ivo Hélori, patrono degli avvocati, sviluppa alcune considerazioni sul ruolo dell’avvocatura nel diritto della Chiesa. Giovanni Campanella recensisce un recente volume di Bartolomeo Sorge sui principi della dottrina sociale cristiana da Papa Leone XIII a Papa Francesco. Carlo Parenti annota, sulla scorta delle indicazioni del cardinale Parolin, circa le migrazioni da gestirsi in modo sicuro, ordinato e regolare affinchè divengano un fattore di sviluppo. Elia Carrai riflette sul rapporto tra cristianesimo e platonismo da comprendersi come l’incontro tra l’umana ragione protesa oltre se stessa e la fede in un Dio che entra nella storia dell’uomo. Stefano Tarocchi presenta, tra esegesi ed iconografia, le questioni riguardo all’iscrizione sulla Croce, ordinata da Pilato, secondo la narrazione dei Vangeli. Francesco Romano nel centenario della promulgazione del primo Codice di Diritto Canonico, avvenuta nel 1917, ne ripercorre le ragioni e le discussioni storiche, giuridiche e teologiche. Dario Chiapetti prende occasione dall’ultimo volume dell’«opera omnia» di Bernard Lonergan per proporre il suo metodo che tiene conto dell’incedere intellettuale di Tommaso d’Aquino e delle acquisizioni sull’intenzionalità della coscienza. Gianni Cioli introduce al tema della preghiera, in particolare di quella orale che permette alle persone di favorire, con la fusione delle voci, la fusione e la comunione dei cuori. Giovanni Pallanti, nella circostanza della visita del Papa a Bozzolo, ricorda la testimonianza cristiana e sacerdotale di Don Primo Mazzolari. Francesco Vermigli dagli interventi di Francesco a Milano trae degli spunti sul suo pontificato che si innesta nella tradizione spirituale di Sant’Ignazio di Loyola. Alessandro Clemenzia fa emergere, da uno studio di Massimo Donà, come la Trinità possa costituire anche un’indicazione filosofica per una soluzione al dilemma unità-molteplicità. Leonardo Salutati a trent’anni dalla misteriosa scomparsa di Federico Caffè, un maestro di politica economica, ne ripropone le sue idee ancora oggi di grande attualità. Carlo Nardi da un antico assioma svolge alcune osservazioni per favorire il discernimento del vero dal falso, per far gustare ciò che lo Spirito Santo ci elargisce. Antonio Lovascio esamina la difficile e pericolosa situazione internazionale, con forti venti di guerra, nei confronti della quale non esistono alternative se non la promozione della pace e di un autentico ordine internazionale. Stefano Liccioli richiamandosi agli interventi di Papa Francesco sulla costante e continua persecuzione dei cristiani, sottolinea come il «martirio» dei discepoli di Gesù sia il modo per mostrare al mondo la forza dell’amore divino.




Alla scuola dei martiri, per testimoniare con coerenza la propria fede

 

downloaddi Stefano Liccioli • La recente liturgia della Parola che Papa Francesco ha presieduto nella Basilica di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina, a Roma, ci ha ricordato che il martirio dei cristiani non è qualcosa che appartiene al passato, ma è una realtà attuale per tante persone che, oggi come allora, sono uccise, a causa di folli ideologie, solo perché discepoli di Gesù. Nell’omelia il Santo Padre ha precisato:«Il ricordo di questi eroici testimoni antichi e recenti ci conferma nella consapevolezza che la Chiesa è Chiesa se è Chiesa di martiri. […] Essi hanno avuto la grazia di confessare Gesù fino alla fine, fino alla morte. Loro soffrono, loro danno la vita, e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza».

All’origine della persecuzione nei confronti dei cristiani c’è l’odio che il principe del mondo riserva a tutti coloro sono stati salvati da Gesù con la sua morte e con la sua risurrezione. E’ Gesù stesso che l’ha anticipato:«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me» (Gv 15,18).

Dunque le comunità cristiane sono ancora oggi perseguitate perché «noi siamo salvati da Gesù, e il principe del mondo questo non lo vuole, egli ci odia e suscita la persecuzione, che dai tempi di Gesù e della Chiesa nascente continua fino ai nostri giorni».

Papa Francesco ha anche tracciato una sorta di ritratto del martire che «può essere pensato come un eroe, ma la cosa fondamentale del martire è che è stato un “graziato”: è la grazia di Dio, non il coraggio, quello che ci fa martiri».

Su questo tema è interessante un passaggio dell’intervista che il regista Martin Scorsese ha rilasciato a padre Antonio Spadaro e pubblicata su “La Civiltà Cattolica”. In questi mesi è stato infatti proiettato, anche nelle sale cinematografiche italiane, “Silence” l’ultimo film del regista newyorkese, tratto dal romanzo di Shusaku Endo. La storia che viene raccontata è quella dei missionari gesuiti e dei cristiani «nascosti» nel Giappone del ‘600, vittime delle persecuzioni ordinate dalle autorità giapponesi. Anche per Scorsese, per sua stessa ammissione nella suddetta intervista, «tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti». Nel film viene messo bene in luce il travaglio interiore di coloro che, siano essi semplici fedeli cristiani oppure gesuiti, devono scegliere se abiurare la fede in Gesù oppure essere imprigionati e uccisi. Un travaglio che probabilmente sperimentano anche i martiri dei nostri giorni, quelli che non fanno notizia o che nessuno rammenta, ma che hanno avuto invece il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni fino alla fine, fino alla morte. Tra costoro c’è anche quella donna che il Santo Padre ha ricordato durante l’incontro nella Basilica di San Bartolomeo:«Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne, con tre bambini. Mi ha guardato e mi ha detto: “Padre, io sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Nel nostro Paese sono venuti i terroristi, ci hanno guardato e ci hanno chiesto la religione e hanno visto lei con il crocifisso e le hanno chiesto di buttarlo per terra. Lei non lo ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto!”». Non sappiamo il nome di questa donna, sappiamo però che ella, come ci racconta il libo dell’Apocalisse (7,17) è venuta dalla grande tribolazione e ha lavato le sue vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello.

Oltre a coloro che danno testimonianza a Cristo fino al dono della propria vita, la Chiesa ha bisogno anche dei martiri di tutti i giorni, quelli della vita ordinaria, portata avanti con coerenza, «uomini e donne fedeli alla forza mite dell’amore, alla voce dello Spirito Santo, che nella vita di ogni giorno cercano di aiutare i fratelli e di amare Dio senza riserve», così come li descrive il Pontefice.

Dobbiamo impegnarci anche noi a far parte di questa schiera, vivendo il Vangelo dove siamo, così come siamo: la Chiesa ha bisogno anche della nostra testimonianza coerente per andare avanti, per continuare ad annunciare anche agli uomini di oggi, con la forza dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto in dono, che Gesù è risorto, è vivo.

In un mondo lacerato dalle guerre e dall’odio, mettiamoci allora alla scuola dei martiri che, ha osservato Papa Francesco, «ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace».




Federico Caffè: ricordo di un maestro di politica economica

 

Copia di Cattura-20463-kzH-U11002361505916IlH-1024x576@LaStampa.itdi Leonardo Salutati • Trent’anni fa il 15 aprile 1987, spariva per non farsi più rivedere, Federico Caffè, economista autorevole ed erudito, dalla cultura enciclopedica mai fine a sé stessa, un maestro prima che un grande scienziato, votato completamente all’insegnamento. Uno degli economisti italiani più importanti degli anni che vanno dal 1950 al 1986, invidiato all’Italia. Aderiva a una idea di economia che proveniva dal pensiero di John Maynard Keynes, di cui era profondo conoscitore e convinto sostenitore, seppur libero di far interagire il pensiero keynesiano con le correnti del pensiero liberale classico e con quelle del pensiero socialista e marxista. Caffè amava ripetere che è l’economia che deve essere al servizio dell’uomo, non viceversa; per questo il suo lavoro era teso all’elaborazione di idee finalizzate all’agire politico per creare condizioni di piena occupazione e di pienezza di diritti senza le quali può aversi crescita economica ma non progresso sociale. A questa impostazione culturale fa capo la sua critica a quelle concezioni che appiattiscono l’economia sulla finanza e che dall’andamento dei mercati finanziari fanno discendere le condizioni a cui deve sottostare il lavoro, la persona, la società.

La sua attività dedicata alla diffusione dell’opera del grande economista britannico, nei cui confronti esisteva in Italia diffidenza, appare come una testimonianza di resistenza contro il neo-liberismo economico, in una congiuntura storica, gli anni Ottanta, caratterizzata da una riscoperta del mercato nteso come puro laissez faire e dalla diffusione di tesi che negavano ogni ruolo per l’intervento pubblico. Al contrario Caffè, pur rifiutando la teoria del potere assoluto dello Stato, rivendicava il suo ruolo indispensabile nell’economia per evitare lo strapotere degli interessi privati e per guidare lo sviluppo della nazione verso prospettive di progresso, di libertà e di uguaglianza, in quanto la concorrenza perfetta è un modello semplificato, lontano dalla realtà concreta. In natura, infatti, un mercato concorrenziale non esiste, è una costruzione dell’uomo, come già è evidente fin dal sorgere della scienza economica con Adam Smith, che a sua volta richiede l’intervento dello Stato per tutelare la concorrenza e controllare i monopoli.

Per esempio, negli anni Ottanta la Borsa sembrava la panacea di tutti i mali con l’investire in titoli per far fruttare di più il denaro, per arricchirsi, per accumulare. Però già all’inizio degli anni Settanta Caffè aveva denunciato la presenza di «un capitalismo fatto d’inganni, di rocamboleschi intrecci societari, di paradisi fiscali, di ricatti, di tangenti, di minacce, di trame». Nel 1971 sul Giornale degli economisti scriveva: «Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei Paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi». E ancora nel 1976: «Un rilievo del genere non trae origine da fatti episodici o da insufficienze istituzionali attribuibili a carenze legislative. Si tratta di una costatazione originata dalla persistenza evidente, nell’ambito delle strutture finanziario-borsistiche, di un capitalismo aggressivo e violento, che non sembra avere nulla in comune con lo “spirito di responsabilità pubblica” rilevabile come componente di una moderna strategia oligopolistica nell’ambito dell’attività produttiva industriale».

È l’analisi di uno scienziato che riteneva fallace la convinzione liberista dell’autoregolazione del mercato di cui la Borsa era la punta di un iceberg e la cui deriva minacciava lo stesso mercato e lo Stato. Caffè riteneva che quelle speculazioni e l’evolversi della Borsa fossero frutto della mancata sorveglianza dello Stato e si lamentava che durante l’assalto ai titoli in Borsa degli anni Settanta e Ottanta, nessuna voce dello Stato si fosse sentita in dovere di invitare alla prudenza. Il bubbone, secondo Caffè, sarebbe scoppiato trascinando soprattutto i poveri alla rovina. Previsione puntualmente confermata dalle successive crisi del 1987, 1997-1998, 2000-2001, 2007-2008.

Quello di Caffè è un pensiero ed un impianto etico volti ad impedire le storture e le derive che un certo capitalismo imprime sulla condizione delle persone, determinando le disuguaglianze inaccettabili che segnano l’epoca in cui viviamo, ed anche se sottovalutò i pericoli di una spesa pubblica fuori controllo, con i rischi conseguenti di un aumento del rapporto tra debito pubblico e PIL (anche se alla metà degli anni Ottanta il rapporto era ancora intorno all’85 per cento), l’idea del ruolo dello Stato di garante della libertà di tutti e di promotore della piena occupazione, perché senza il lavoro la persona non può avere la dignità che le compete, mantiene ancora oggi tutto il suo valore.




Bernard J.F. Lonergan e La costituzione ontologica e psicologica di Cristo

video-reeldi Dario Chiapetti La pubblicazione del testo La costituzione ontologica e psicologica di Cristo. Un supplemento a Il Verbo incarnato (Città Nuova, Roma 2017, 196 pp.), l’ultimo volume dell’Opera Omnia di Bernard J.F. Lonergan (1904-1984) in lingua italiana, mi offre l’occasione di presentare, contestualmente ad esso e ai suoi contenuti, qualche lineamento a mio avviso significativo della figura del filosofo e teologo canadese.

«Vetera novis augere et perficere». Il motto di Lonergan, ripreso da Leone XIII, rivela bene la la forza motrice e il criterio guida dell’attività intellettuale del gesuita: trarre le istanze più significative del pensiero, da un lato, del “nuovo” e “vecchio” mondo, dall’altro, del passato e del presente, delineando una proposta filosofica, teologica e non solo, che risulta carica di interesse nell’oggi caratterizzato – come ad esempio ritiene papa Francesco – dall’urgenza di dialogo e costruzione di ponti.

La riflessione lonerganiana si caratterizza per la stretta connessione con cui filosofia e teologia operano, grazie, da un lato (e in un primo momento) alla comprensione e all’acquisizione profonda dell’incedere intellettuale di Tommaso d’Aquino, dall’altro (e in seguito), dall’assunzione della prospettiva aperta dalla messa al centro della realtà della soggettività umana che trova nell’analisi dell’intenzionalità della coscienza il fondamento e lo sviluppo del metodo d’impostazione e d’investigazione di ogni campo di indagine.

Formatosi in campo scientifico e filosofico, il gesuita canadese si è avviato agli studi di teologia e alle prime esperienze nell’attività di docenza proprio in ambito cristologico. Dopo due corsi tenuti a Toronto, dal ’53 al ’65 ha svolto il corso di cristologia all’Università Gregoriana per i cui studenti scrisse due supplementi al manuale di riferimento: uno di questi è proprio il De constitutione Christi ontologica et psychologica (’56).

L’impostazione del discorso del nostro testo è nettamente tommasiana, essa non rivela ancora quel “nuovo mondo di pensiero” de Il Metodo in teologia (’72) alla cui formazione tanto contribuì l’incontro che Lonergan fece nel ’64 con la Scuola storica tedesca, ma il tipo di intelligere – osserva Frederick E. Crowe in Bernard J.J. Lonergan. Progresso e tappe del suo pensiero – è già «quello di Insight, dove esperienza, comprensione, giudizio, coscienza e conoscenza, intellezione e introspezione sono elaborati in un modello coerente di relazioni».

Il testo si sviluppa secondo l’impostazione della sola pars systematica – la riflessione che cerca l’intelligenza della fede -, in quanto la pars dogmatica – la riflessione a partire dei dati della Scrittura e della Tradizione che arriva a fissare cosa dice la fede della Chiesa – è esposta nel De Verbo incarnato (’64). Nella fattispecie, la trattazione s’incentra sul concetto teologico di unione ipostatica e la costituzione psicologica di Cristo, ma, soprattutto, essa rileva come (proprio) la comprensione dell’impianto tommasiano apra la strada alla focalizzazione e all’approfondimento della prospettiva della soggettività rinvenuta mediante il dinamismo coscienziale, a partire dal quale Lonergan fonda una metafisica e l’epistemologia per ogni altro ambito di riflessione.

In tale quadro, la coscienza è colta non come «percezione» né come «conoscenza», ma come «esperienza interiore di un soggetto», come «nozione previa e informe di sé e dei propri atti» (il De Verbo incarnato approfondirà ulteriormente il discorso sulla coscienza come «essere presenti a se stessi»). Ora, Lonergan, nel cercare di spiegare il dato dogmatico per cui l’unico Verbo di Dio è conscio di sé nei modi divino e umano, e servendosi dell’analisi del dinamismo coscienziale, coglie la distinzione tra «ciò che è conscio» e «la coscienza tramite cui esso è conscio». La coscienza, pertanto, che è nozione relativa alla persona e non alle nature, è individuata nel suo formarsi dalla parte dell’oggetto, ovvero, dall’esperienza sensibile, intellettuale, razionale, morale, da un lato, e dalla visione beatifica, dall’altro. Ecco così i due asserti lonerganiani: «Cristo come uomo [«la persona divina sussistente in una natura umana»] coglie se stesso sotto forma di esperienza mediante le sue operazioni umane e secondo la perfezione delle operazioni stesse» e «Cristo come uomo mediante la sua coscienza umana e la sua scienza beatifica comprende chiaramente e giudica con certezza che lui è il Figlio naturale di Dio e vero Dio». L’introduzione dell’analisi del dinamismo coscienziale – secondo i livelli empirico, razionale, riflessivo, morale – permette quindi a Lonergan di cogliere il nesso tra lo psicologico e l’ontologico – «”psicologico” è lo stesso ontologico nel tale grado di perfezione ontologica» – e, in campo cristologico, dove lo psicologico raggiunge tale grado di perfezione, rendere ragione del dato dogmatico secondo cui uno è il soggetto ontologico e psicologico ma due le coscienze.

Della proposta lonerganiana, e in particolare di questo testo, rilevo, in conclusione, i seguenti elementi di interesse in ordine all’individuazione di un pensiero che sappia cogliere negli esempi luminosi del passato, come il contributo dell’Aquinate, quegli insights per individuare quell’«invariante» – il metodo – che permette a tale pensiero di stabilirsi in una sempre feconda tensione dialettica con le istanze filosofiche dell’oggi: 1- la sistematica di Lonergan, che tenta di individuare la ratio del dogma, non procede mediante un vago intuizionismo conoscitivo, ma un’approfondita analisi del dinamismo della coscienza; 2- alla definizione di tale analisi tanto ha contribuito proprio un’autoappropriazione profonda da parte del gesuita del pensiero di Tommaso (trasposto da un piano metafisico a uno psicologico-coscienziale); 3- la comprensione della coscienza, colta come struttura che si costruisce a diversi livelli, permette di individuare la collocazione della costituzione psicologica nel quadro di quella ontologica; 4- la costituzione psicologica, così intesa, esibisce tutto il suo valore e il suo significato in ordine alla comprensione dei dati dogmatici, sia in ambito cristologico che antropologico.




Lo spettro nucleare ed il vuoto della politica mondiale

 

1486109521286.jpg--donald_trump_minaccia_kim_jong_un___in_caso_di_attacco_nucleare_risposta_schiacciante_di Antonio Lovascio • Lasciando il Cairo da coraggioso “pellegrino di pace”, dopo aver condannato le violenze del fondamentalismo e del terrorismo islamico, Papa Francesco ha invitato tutti i belligeranti a fermarsi: «Oggi una guerra allargata distruggerebbe buona parte dell’umanità, è terribile. Serve una soluzione diplomatica e un intervento dell’Onu, che ha il dovere di riprendere la sua leadership perché si è un po’ annacquata».  E’ stato l’ennesimo, forte richiamo alla “terza guerra mondiale a pezzi”, della quale parla da due anni. Troppi avvenimenti si sono succeduti nelle ultime settimane: quello che sta accadendo in Corea del Nord (il presidente Trump, aprendo indirettamente un braccio di ferro con la Cina, ha mandato nel Pacifico navi militari, il dittatore Kim Jong ha risposto minacciando di bombardare la Corea del Sud ) è solo l’ultimo atto di una terrificante escalation, che ha visto i missili lanciati dagli americani sull’aeroporto siriano di Al Shayrat; tensioni crescenti fra Mosca e Washington, non certo cancellate da una telefonata tra i Capi della Casa Bianca e del Cremlino, che si sono dati appuntamento al prossimo G20 di luglio ad Amburgo; la madre di tutte le bombe sganciata dal Pentagono in Afghanistan. Per non parlare dei Paesi che stanno soffrendo conflitti interni in Medio Oriente, Yemen, Africa; dei sanguinosi eccidi dei cristiani in Egitto fino ai naufraghi del Mediterraneo, riguardo ai quali le decine o le centinaia di morti non solo non fanno più storia, ma purtroppo nemmeno notizia, se non per le polemiche sui salvataggi in mare, dopo le accuse del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che ha ipotizzato anche possibili finanziamenti da parte dei trafficanti di uomini alle Organizzazioni umanitarie.

Siamo entrati in una fase di politica muscolare globale, nella quale gli Stati Uniti (a differenza di quanto il presidente neoeletto faceva intendere in campagna elettorale, strizzando l’occhio a Putin) danno l’impressione di voler rapidamente ripristinare i rapporti di forza esistenti quando nel 1991 è crollata l’Unione Sovietica. Una strategia militare fatta di armi chimiche e convenzionali, ma pure di tanta propaganda, che, prevedibilmente, proseguirà anche in futuro. Secondo gli esperti è un gioco estremamente pericoloso: nessuno infatti sa quando e come gli altri replicheranno ; anche se non è difficile intuire che Trump conta di ripetere quanto riuscì a Reagan allorchè fece cadere l’URSS. Il quadro è tuttavia molto diverso da allora: la Russia è profondamente radicata in Medio Oriente e in Ucraina; se Putin sente il fiato addosso degli americani, solitamente controbatte da par suo: nel breve termine potrebbe raddoppiare il sostegno ad Assad. La Siria ruota nell’orbita di Mosca dal 1971, quando il padre di Bashar diventò presidente e sperava, con l’aiuto militare sovietico, di recuperare il Golan da Israele, peso nel 1967 quando lui comandava l’Aviazione.

Se l’America ha la sua linea rossa – esibire il duro piglio della superpotenza per compiacere gli alleati israeliani e sauditi – la Russia ne ha tracciata un’altra: non si fanno cambi di regime senza il consenso di Mosca, che aveva già dovuto inghiottire la caduta di Gheddafi nel 2011 (Molti altri se ne stanno pentendo!). Le democrazie occidentali sono tra Scilla e Cariddi. Possono fare del loro meglio per cacciare Assad privandolo di qualsiasi riconoscimento internazionale o assestando – come nel caso della rappresaglia americana – qualche duro colpo militare. Ma rischiano in questo modo di favorire l’ISIS, che l’esercito sciita iracheno sta cercando di sconfiggere a Mosul con l’aiuto della Casa Bianca. L’unico modo per uscire da questa trappola sarebbe quello di decidere quale sia il nemico peggiore: Assad o l’islamismo fanatico e radicale ? La Russia ha già scelto da che parte stare. L’Europa che si sta distraendo (o sciogliendo ?) nelle competizioni elettorali, dovrebbe interrogarsi su cosa succederebbe dopo l’eliminazione del tiranno di Damasco, ricordarsi che il Mediterraneo è la sua casa, non quella degli Stati Uniti.

Nello scacchiere internazionale assistiamo poi alla progressiva ascesa (non solo economica) della Cina: sta cambiando gli equilibri non solo in Asia, ma in tutto il pianeta. E ancora più li cambierà in avvenire. Trump sa benissimo che Pechino non abbandonerà mai lo spericolato e stravagante Kim Jong, se non riceverà in cambio cospicue concessioni da parte degli Usa, che, a loro volta, non sono in grado di imporre nulla alla Cina senza pagarne il congruo prezzo. Per questo, come prevede Romano Prodi, non ci sarà un conflitto nucleare, ma assisteremo forse (e lo speriamo vivamente!) a un lungo negoziato, magari anche sotto traccia, nel quale gli eredi di Mao si impegneranno a rendere un po’ più difficile la vita al dittatore nordcoreano e gli Stati Uniti saranno meno rigidi nei confronti delle importazioni dalla Repubblica Popolare, che tanto pesano sulla bilancia commerciale e sui posti di lavoro americani. Senza tener conto che il Paese più popolato del pianeta (oltre 1 miliardo e 375 milioni di abitanti) a sua volta potrebbe aprire gradualmente il più appetibile e meno sfruttato mercato mondiale. Sarà un’illusione: il business può fermare o almeno frenare la sfida nucleare!




Voce, mente e cuore. Riflessioni sulla preghiera

meditazione-cristianadi Gianni Cioli • La preghiera vocale e quella mentale sono due espressioni complementari della nostra risposta a Dio che ci chiama al dialogo. La preghiera orale diventa pienamente autentica quando coinvolge la mente e il cuore e quindi comporta sempre e comunque una imprescindibile dimensione mentale. Tuttavia il valore della preghiera fatta non solo con la mente ma anche con la voce è sicuramente quello di premetterci di dialogare con Dio anche attraverso il coinvolgimento della nostra corporeità, ovvero la nostra sensibilità, coinvolgimento che dovrebbe in linea di principio – salvo difficoltà soggettive – favorire e non certo ostacolare la concentrazione e la partecipazione della mente. Insomma la preghiera orale dovrebbe essere un atto della mente e del corpo insieme, una occasione per lodare Dio con tutto il nostro essere. Il coinvolgimento del corpo diventa ancora più pieno quando alla preghiera vocale vengono associati gesti tipici della preghiera (che tuttavia in taluni casi possono essere associati anche alla preghiera mentale) come lo stare in piedi o in ginocchio, congiungere la mani o allargare le braccia, inchinarsi durante la dossologia. Collegato a tutto questo si può riconoscere un altro vantaggio non piccolo della preghiera orale: quello di permettere a più persone di pregare insieme favorendo, attraverso la fusione delle voci, la fusione e la comunione dei cuori. Questo avviene in primo luogo nella preghiera liturgica ma può compiersi anche attraverso gli esercizi di pietà che la tradizione ci ha consegnato, come il rosario, la via crucis ecc., tutte preghiere che si possono fare da soli soltanto con la mente, ma che, se recitati comunitariamente, ad alta voce, possono divenire momenti di aggregazione e di comunione per progredire insieme nel cammino della fede. Un valore aggiunto, in questo orizzonte, va poi riconosciuto nella preghiera espressa attraverso il canto.

Vi sono senza dubbio forme di preghiera che sono necessariamente solo mentali come la meditazione, in particolare di fronte alla parola (nel silenzio dopo l’ascolto), la contemplazione, l’adorazione silenziosa davanti all’eucaristia (che si può fare come atto comunitario ma che necessita comunque del silenzio).

In conclusione, non si devono opporre le due forme di preghiera, si deve riconoscere un valore imprescindibile al coinvolgimento della mente e del cuore in ogni preghiera, ma non si deve comunque sottovalutare l’importanza dell’espressione vocale soprattutto per le formule che la tradizione ci ha consegnato.

Una parola autorevole sul significato e sul valore preghiera vocale la offre il Catechismo della Chiesa Cattolica a nn. 2700-2704 che vale la pena di riportare per esteso:

«Con la sua Parola Dio parla all’uomo. E la nostra preghiera prende corpo mediante parole, mentali o vocali. Ma la cosa più importante è la presenza del cuore a colui al quale parliamo nella preghiera. “Che la nostra preghiera sia ascoltata dipende non dalla quantità delle parole, ma dal fervore delle nostre anime” (San Giovanni Crisostomo, Eclogae ex diversis homiliis 2: PG 63,583A).

La preghiera vocale è una componente indispensabile della vita cristiana. Ai discepoli, attratti dalla preghiera silenziosa del loro Maestro, questi insegna una preghiera vocale: il “Padre nostro”. Gesù non ha pregato soltanto con le preghiere liturgiche della sinagoga; i Vangeli ce lo presentano mentre esprime ad alta voce la sua preghiera personale, dalla esultante benedizione del Padre (Mt 11,25-26 ), fino all’angoscia del Getsemani ( Mc 14,36 ).

Il bisogno di associare i sensi alla preghiera interiore risponde ad un’esigenza della natura umana. Siamo corpo e spirito, e quindi avvertiamo il bisogno di tradurre esteriormente i nostri sentimenti. Dobbiamo pregare con tutto il nostro essere per dare alla nostra supplica la maggiore forza possibile.

Questo bisogno risponde anche ad una esigenza divina. Dio cerca adoratori in Spirito e verità, e, conseguentemente, la preghiera che sale viva dalle profondità dell’anima. Vuole anche l’espressione esteriore che associa il corpo alla preghiera interiore, affinché la preghiera gli renda l’omaggio perfetto di tutto ciò a cui egli ha diritto.

Essendo esteriore e così pienamente umana, la preghiera vocale è per eccellenza la preghiera delle folle. Ma anche la più interiore delle preghiere non potrebbe fare a meno della preghiera vocale. La preghiera diventa interiore nella misura in cui prendiamo coscienza di colui “al quale parliamo” (Santa Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, 26). Allora la preghiera vocale diventa una prima forma della preghiera contemplativa».




In memoria di Sant’Ivo Hélori. Un avvocato ecclesiastico

S.IVOdi Andrea Drigani Il calendario liturgico della Chiesa Cattolica al giorno 19 maggio ricorda, tra gli altri, Sant’Ivo Hélori (1253-1303), patrono degli avvocati. Nel Martirologio Romano si legge che Ivo, sacerdote, osservò la giustizia senza distinzione di persone, favorì la concordia, difese le cause degli orfani, delle vedove e dei poveri per amore di Cristo. Era nato in Bretagna, nella diocesi di Trèguir, dopo gli studi a Parigi ed ad Orleans, specialmente per il diritto, operò presso i tribunali ecclesiastici divenendo il rifugio e l’avvocato dei miseri e degli abbandonati, istituendo per primo il patrocinio gratuito. Lasciò, successivamente, l’attività giudiziaria per dedicarsi alle opere di misericordia corporale, trasformando il suo castello in un ospizio per mendicanti, e spirituale, impegnandosi con la predicazione nelle parrocchie. Fu talmente radicata e diffusa la sua fama di santità che, con una rapida procedura, venne dichiarato santo il 19 maggio 1347 da Papa Clemente VI. Su di lui si tramanda una celebre terzina latina: «Sanctus Yvo erat Brito – Advocatus et non latro – Res miranda populo» («Sant’Ivo era bretone, avvocato ma non ladro, cosa meravigliosa per il popolo»). Nella storia giuridica sovente sono apparse delle critiche nei confronti di avvocati non degni della loro professione. Si può rammentare, a tal proposito, come già San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) nel «De consideratione», uno dei suoi ultimi scritti, indirizzato al papa Eugenio III (1145-1153), rivolse agli avvocati dei suoi tempi una grave censura. La memoria di Sant’Ivo Hélori costituisce l’occasione per ripresentare e precisare il ruolo e le funzioni dell’avvocato nell’ordinamento giuridico della Chiesa, che di recente, dopo la riforma del processo matrimoniale canonico, sono state oggetto di talune osservazioni, invero, più da sindacalisti che da canonisti. Occorre, prima di tutto, tenere ben presente che il Codice di Diritto Canonico per la Chiesa latina (CIC) e il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (CCEO) stabiliscono (can.1481 § 1 CIC e can.1139 § 1 CCEO) che le parti processuali hanno due possibilità: quella di costituirsi liberamente un avvocato o quella di agire e rispondere personalmente. Solo nelle cause penali si prevede che l’accusato deve sempre avere un avvocato che si sia egli stesso costituito o assegnato dal giudice (can.1841 § 2 CIC e can.1139 § 2 CCEO). Da questi canoni si evince che l’avvalersi del ministero di un avvocato è, ad esclusione dei giudizi penali, una facoltà e non un obbligo. Nell’ordinamento canonico, l’espressione «diritto alla difesa» («ius defensionis») sembra sia più appropriata per le cause penali, che non per altre cause, come quelle matrimoniali, per le quali forse più chiaramente si dovrebbe parlare di un diritto all’assistenza legale. Nei processi matrimoniali, giova ribadirlo, viene accusato di nullità un vincolo matrimoniale, pertanto è previsto espressamente l’ufficio del «difensore del vincolo» (can.1432 CIC e can.1096 CCEO). Per questi tipi di processi, dunque, uno dei principi fondamentali dovrebbe essere costituito dalla facoltà di avvalersi o non avvalersi del servizio di un avvocato. Vi è un certa insistenza, invece, a trasformare questa facoltà in un obbligo, anche a tenore di alcune norme di diritto particolare. La presenza di un avvocato, in una causa matrimoniale, può essere talvolta conveniente e opportuna, ma ciò non può divenire un’imposizione. Tutto questo ha delle conseguenze anche in ordine all’annosa ed enfatica questione delle parcelle e delle tariffe degli avvocati ecclesiastici. Se la scelta dell’avvocato è volontaria, allora per chi si avvarrà della sua opera, liberamente e consensualmente si determineranno i compensi, ma in un atto reso obbligatorio sembra arduo pretendere sempre e in qualunque modo una retribuzione. La figura dell’avvocato secondo il diritto canonico è dunque diversa, ad eccezione dell’ambito penale, dai diritti degli Stati. D’altronde il diritto canonico è un diritto sui generis che ha come regola suprema quella salvezza delle anime. L’avvocato («advocatus») deve essere colui che è chiamato ad aiutare qualcuno in giudizio con i consigli e con la propria autorevole presenza. Questa chiamata, a meno che la legge della Chiesa in casi speciali non stabilisca altrimenti, non è necessaria, ma colui che è invitato a quest’opera è bene che tenga conto dell’esempio e della testimonianza di Sant’Ivo Hélori.




Vero perché vero. Audacia ed umiltà

 

apdi Carlo Nardi • “Vero perché vero” può essere un modo di dire, un po’ pretenzioso di primo acchito, ma utile ed anche umile, per condensare in tre parole un detto in buon latino da Chiesa: quicquid verum a quocumque dicitur a Sancto dicitur Spiritu «tutto ciò che è vero, da chiunque sia detto, è detto dallo Spirito Santo». L’assioma si credeva fosse di sant’Ambrogio e facilmente poté entrare nella grande raccolta di disposizioni ecclesiastiche, il Decreto di Graziano. Piacque poi a san Tommaso d’Aquino, al Petrarca e al nostro sant’Antonino. Accompagna tutto il medioevo (Gilson). Poi, con Erasmo da Rotterdam, ci si accorse che non poteva essere di sant’Ambrogio. Lo si appioppò a un fantomatico Ambrosiaster, e forse perse punti nella stima generale.

Invece. Perché non si tien conto di quello che dice, perché non è poco? E che cosa dice? Vale la pena leggerlo e rileggerlo, pensandoci su, e in quelle poche parole si scoprono tante cose. Intanto, che non si può dire che una cosa è vera perché l’ha detta quello per fargli piacere e andare a letto contenti, come non posso dire che quella cosa è falsa perché l’ha detta quell’altro, e fargli dispetto e godere … con l’amaro in bocca. C’è bisogno invece di virtù, in particolare di prudentia latina, che è saggezza, anzi sapienza, e soprattutto di carità. Di tanta carità.

Se quella cosa lì è vera, anche se fosse in mezzo a tante bugie o esagerazioni o confusioni, va riconosciuta come tale e va rispettata, e se quella cosa si è scoperta e in essa c’è un barlume con un po’ più di luce per gl’occhi della ragione o della fede, ne va ringraziato Iddio e chi ce l’ha fatta conoscere. Senza esagerare, però: senza dar ragione quando ragione non c’è.

A questo proposito mi sovviene una battuta nel Carmide di Platone. In relazione ad una appropriata risposta dell’omonomo ragazzo, lo zio Crizia notava che non era farina del suo sacco. Al che Carmide notava: «Ma che differenza fa, o Socrate, da chi l’ho sentito dire?» «Nessuna – rispose Socrate – perché non si deve guardare a chi una cosa l’ha detta, ma se è vera o no» (Carmide 161bc). Ne deriva l’assiomatico amicus Plato, magis amica veritas «Platone è amico, ma più amico è il vero», una rielaborazione proverbiale di un passo di Aristotele (A Nicomaco I,4 a 16). E, per l’appunto, il senso del discorso era già in Platone: che «non si deve onorare un uomo più della verità» (Repubblica X 595c).

Dall’antica Grecia, e da patristica e scolastica, senso e parole dell’adagio pseudo ambrosiano sono proposti da Paolo VI nella commemorazione dell’Aquinate nel 1974 e da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio del 1998. Nell’inaugurazione dell’anno accademico 1986-1987 dell’allora Studio teologico fiorentino il card. Silvano Piovanelli offriva una sua considerazione: «Mi sembra che oggi la teologia debba configurarsi come la fatica del pensare razionalmente la fede nella complessità della situazione presente: razionalmente, ossia con gli strumenti elaborati dalla cultura, anzi dalle culture attuali, nella fiducia che «tutto ciò che è vero, da chiunque sia detto, proviene dallo Spirito Santo» (sant’Ambrogio, san Tommaso), e ad un tempo nella consapevolezza dell’ampio margine di provvisorietà e ipoteticità dei risultati ottenuti, ma senza sottrarsi al dovere (dovere di immanenza) dell’intelligenza della fede».

Pagani e cristiani rammentati comunicano passione per la verità che ci deve essere cara. Anche san Paolo esortava: «Esaminate ogni cosa, prendete quel che è buono» (1 Ts 5,21), e Clemente di Alessandria, rifacendosi a testi più antichi, raccomandava d’imparare, come esperti cambiavalute, a distinguere le monete false da quelle vere. Così, come si augurava Mosè, «tutti possono essere profeti in mezzo al popolo di Dio» (Num 11,29) nell’opera oculata e paziente di discernimento del vero dal falso, del bene dal male, e nel gioire del vero e del bene che lo Spirito Santo ci dà a gustare e a far gustare.




«Pilato compose anche l’iscrizione…era scritta in ebraico, in latino e in greco»

di Stefano Tarocchi È consuetudine delle celebrazioni della Settimana santa la lettura dei racconti della passione, nelle Liturgie della domenica delle Palme e del Venerdì Santo. È proprio da questi racconti evangelici della tradizione sinottica, ma soprattutto del quarto Vangelo che l’attenzione dei credenti viene condotta a riflettere su un particolare mantegnache l’iconografia della crocifissione ha sempre messo in rilievo, anche se in maniere assai differenti. Una delle più schematiche è raffigurata nel dipinto di Andrea Mantegna (1431-1506), risalente agli anni 1457-1450: se guardiamo la tavola (67×93), conservata al Museo del Louvre, sopra la croce di Cristo è apposta una tavoletta con quattro lettere puntate: I.N.R.I., le iniziali latine di una espressione che suona come Iesus Nazarenus rex Iudaeorum, ovvero «Gesù Nazareno re dei Giudei» (si veda M.L. RIGATO, I.N.R.I.: il titolo della Croce, EDB, Bologna 2010). Qui la tradizione seguita anche da Mantegna (e molti altri) semplifica – alludendo alla sola lingua della città, che aveva il governo sull’intera regione – quello che troviamo nel Vangelo secondo Giovanni: «Pilato compose anche l’iscrizione [titlos] e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco» (Gv 19,19-20). Il quarto Vangelo presenta due caratteristiche di rilievo: la prima è il termine greco titlos, mutuato dal latino titulus. Secondo lo storico Svetonio (70-126), una scritta su una tavoletta, spalmata di gesso bianco con lettere tracciate in nero, era portata da uno schiavo davanti al condannato o gli era appesa al collo (Vita di Caligola, 32), e poi poteva essere fissata sopra la croce.

La seconda caratteristica è il fatto che il Vangelo attribuisce a Pilato l’iniziativa dell’iscrizione (e il suo contenuto), con il risultato che si apre un contenzioso con le autorità giudaiche, presto risolto dal prefetto: «I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,21-22). Di fatto, Pilato si riprende il suo ruolo davanti a chi l’ha costretto a condurre a termine la condanna: l’iscrizione diventa paradossalmente un titolo che onora colui che lo porta sulla croce (così Rudolph Schnackenburg).

Già il Vangelo secondo Marco però anticipava Giovanni dicendo ai suoi lettori che crocifisso«la scritta [epigraphé] con il motivo della sua condanna diceva: “Il re dei Giudei”» (Mc 15,26), divenuta in Luca «“Costui è il re dei Giudei”» (Lc 23,38), o più letteralmente «Il re dei Giudei è questo». Anche Luca utilizza lo stesso termine greco di Marco, quando dice: «Sopra di lui c’era anche una scritta» (Lc 23,38). Il termine epigraphé è impiegato anche per la scritta posta sul denario romano in argento: «“È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo”. Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”» (Mc 12,14-17; cf. 12,16; Mt 22,20 e Lc 20,24). Anche alcuni manoscritti, influenzati dal testo del Vangelo di Giovanni, aggiungono le altre lingue dell’iscrizione, come si può vedere nelle altre due immagini: rispettivamente, di Giovanni di Fiesole, detto il Beato Angelico (1395-1455) e di Cenni di Pepo, conosciuto come Cimabue (1240-1302).deposizione

Anche nel Vangelo secondo Matteo troviamo un riferimento allo stesso tema, ma con un diverso intendimento: «Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto [aitìa] della sua condanna: “Costui è Gesù, il re dei Giudei”» (Mt 27,37). Il termine greco usato assume un valore giuridico, compatibilmente a quanto dice il Vangelo di Luca: «Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: “Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna [àition]”» (Lc 23,4; cf. 23,14.22). sembra si tratti della versione greca del termine latino crimen, che porta in sé la gravità di un delitto pubblico contro l’ordine della società e veniva perseguiti pubblicamente. Nel medesimo Vangelo, peraltro, è a quel punto che si apprende che Gesù viene crocifisso in mezzo a due «briganti», che altrove sono chiamati «malfattori» (Lc 23,32.33.39). Questo ci fa rilevare che in quel mattino ci sono starti altri due processi e che Gesù, per la collocazione ricevuta, è il più importante di tutti: non sembra che gli altri abbiano una condanna visibile dalla croce a cui sono confissi.

crocifisso diversoIn ultimo vorrei rammentare un’opera collocata nell’antica pieve di S. Vincenzo a Torri, ai piedi delle colline di Scandicci, nei pressi della via Volterrana, in cui significativamente la scritta collocata sul Cristo crocifisso testimonia – si tratta di un capolavoro anonimo del XIII secolo – il passaggio alla lingua volgare. Infatti possiamo leggere: IHS NAZARENUM REX IUDEORUM, anziché un maggiormente corretto IHS NAZARENUS REX IUDAEORUM. Particolarmente interessanti i primi tre caratteri [IHS], recanti un tratto superiore, che l’artista adatta al suo orizzonte come una versione intermedia tra il nome di Gesù trasportato dalla lingua originale greca [ΙΗΣ], evidentemente non più compresa, che lascia comunque trasparire la lettura giovannea («in ebraico, in latino e in greco»: Gv 19,20) verso la mutazione nel simbolo che a breve utilizzeranno S. Bernardino da Siena (1380-1444) e S. Ignazio di Loyola (1491-1556): appunto Iesus Hominum Salvator, il celeberrimo monogramma IHS.




Don Primo Mazzolari: una vita da prete.

 

imagesdi Giovanni Pallanti • Il 20 Giugno Papa Francesco si recherà sulla tomba di Don Primo Mazzolari a Bozzolo (provincia di Mantova, Diocesi di Cremona). Rientrando a Roma il Santo Padre renderà omaggio alla tomba di Don Lorenzo Milani nel piccolo cimitero di Barbiana, sulle pendici del monte Giovi. Su Don Milani questa rivista ha già pubblicato nel mese di febbraio un articolo di Stefano Liccioli. Per questa ragione è giusto ricordare agli immemori il significato della visita del Vescovo di Roma a Don Primo Mazzolari e soprattutto ricordare l’opera di questo Sacerdote buono e coraggioso che, per tutta la vita, si è schierato dalla parte dei poveri scegliendo una strada alternativa ad ogni totalitarismo, sia di destra che di sinistra. Don Primo Mazzolari nacque il 13 gennaio 1890 a Santa Maria del Boschetto, frazione rurale di Cremona. Nel 1902 entrò nel Seminario della città lombarda e per tutta la sua vita sacerdotale (venne ordinato Prete il 24 Agosto 1912 dal Vescovo Giacinto Gaggia) fu incardinato come Prete nella Diocesi di Cremona. Favorevole all’intervento dell’Italia in guerra nel 1915 si arruolò come volontario nella Prima Guerra Mondiale e divenne Cappellano militare nel 1918. Dopo la Grande Guerra, nel 1919, venne nominato Cavaliere della Corona d’Italia e fu congedato dal servizio militare nel 1920. Il 31 Dicembre 1921 venne nominato Parroco di Cicognara. Il 10 Luglio 1932 divenne Proposto di Bozzolo, dove rimase fino alla morte avvenuta il 12 aprile 1959. Nel 1925 fu denunciato dai fascisti per aver rifiutato di cantare il Te Deum dopo il fallito attentato a Mussolini ad opera dell’antifascista Tito Zaniboni. La notte del primo agosto 1931 con uno strattagemma fu chiamato alla finestra della Canonica, Don Mazzolari si affacciò e i fascisti gli spararono tre colpi di rivoltella, che per fortuna non colpirono il bersaglio. Dopo l’8 settembre del 1943 Don Mazzolari partecipò attivamente alla lotta di resistenza. Arrestato e rilasciato visse in clandestinità fino 25 Aprile del 1945. Nel 1948 durante la campagna elettorale che decise le sorti democratiche dell’Italia fece alcuni comizi per la Democrazia Cristiana a Bozzolo. Nel 1949 fondò il Quindicinale “Adesso”, dove sviluppò il suo pensiero sociale vicino ai poveri e agli emarginati. Scrittore di grande valore linguistico Don Primo Mazzolari diventò un punto di riferimento per un parte importante della Chiesa italiana. Tra i collaboratori di “Adesso”, anche con degli pseudonimi, c’era il futuro Cardinale Loris Capovilla, che fu anche Segretario Particolare del Patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli, che eletto Papa prese il nome di Giovanni XXIII°. Essendo stato soldato combattente e poi Cappellano militare dal 1918 al 1920 Don Mazzolari maturò una forte propensione alla pace tra i popoli e al rifiuto della guerra come frutto dell’aggressione nazionalista ed imperialista. La eco di questa riflessione di Mazzolari trovò un fertile terreno nel mondo cattolico fiorentino di Padre Ernesto Balducci, Don Lorenzo Milani, Giorgio La Pira e di Nicola Pistelli, quando il primo era Sindaco di Firenze ed il secondo Assessore ai Lavori Pubblici.

Quindi il viaggio del Papa rende omaggio a due Preti (Mazzolari e Milani) che hanno condotto una Pastorale per la pace e per l’obiezione di coscienza. Papa Francesco rende quindi giustamente omaggio a Don Primo Mazzolari (come fece quando era in vita Don Primo l’Arcivescovo di Milano, Cardinale Montini, futuro Paolo VI°, che nel novembre del 1957 lo chiamò a predicare nella Diocesi di Milano per una nuova evangelizzazione della Chiesa di S. Ambrogio). Nel febbraio del 1959 Papa Giovanni XXIII°, che ben conosceva le traversie di Don Mazzolari, a cui il Vescovo di Cremona aveva un tempo proibito di predicare senza autorizzazione e il divieto di pubblicare articoli senza una preventiva revisione dell’autorità ecclesiastica, lo ricevé in Vaticano salutandolo pubblicamente con questa frase “ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”.

Alla luce di questi episodi il viaggio del Papa sulla tomba di Don Mazzolari il 20 Giugno prossimo è un’ulteriore riproposizione della figura del Proposto di Bozzolo alla Chiesa universale.




Philosophia sive theologia

 

massimo-dona-e-claudio-nostri-lugo-di-ravennadi Alessandro Clemenzia • Alcuni libri possono essere apprezzati non tanto per il contenuto che sono arrivati a proporre, quanto piuttosto per il tentativo di essere entrati in argomentazioni che fuoriescono dal proprio ambito di ricerca. Ci sono altri libri ancora che, proprio in forza della loro tentatività, si sono imbattuti in questioni così ardue, da essere arrivati a dare un proprio contributo contenutistico, sia nel proprio ambito di ricerca, sia in quello in cui, da ospiti, si sono imbarcati. È di quest’ultimo tipo il nuovo testo di Massimo Donà, In principio. Philosophia sive theologia: meditazioni teologiche e trinitarie (Mimesis Edizioni, 2017).

L’autore, filosofo e docente di Filosofia Teoretica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, non addentro alla vita ecclesiale e ai suoi dinamismi infrastrutturali, ma assai attento ai risvolti teoretici della teologia, è entrato così addentro all’intelligenza che scaturisce dalla fede nel Dio trinitario, con il metodo e il linguaggio che gli appartengono, da non far percepire al lettore, in prima istanza, se l’effettivo contributo del testo sia stato più rivolto alla riflessione teologica o a quella filosofica. Probabilmente – e da qui si evince la riuscita del suo intento – questo contributo getta nuove luci in entrambi i campi, proprio per essere riuscito ad abitare il luogo della relazione, il “tra” la teologia e la filosofia. Il “metodo” utilizzato da Donà, dunque, è stato all’altezza del contenuto, e in qualche modo ne ha seguito la logica.

Tanti sono gli argomenti trattati. In questa sede mi limiterò a due aspetti: prima di tutto all’orizzonte formale in cui si è collocato l’autore; in secondo luogo a un esempio di come la trinitaria offra una possibile chiave interpretativa per sciogliere alcuni nodi teoretici della riflessione filosofica.

L’orizzonte formale è l’ontologia trinitaria, menzionata dall’autore, più o meno espressamente, in ogni capitolo. Senza avere la pretesa di liquidare in poche parole la fondatezza e la portata culturale dell’ontologia trinitaria, basti qui evidenziare il modo in cui Donà la colga: come possibilità ontologica e interpretativa di penetrare la realtà e il darsi, in essa, dell’essere, alla luce di quella “teo-logica” rivelata definitivamente in Cristo. Le dinamiche trinitarie non solo hanno a che fare con gli snodi teoretici più importanti e spinosi dell’odierna riflessione filosofica, ma possono esserne addirittura una risposta, senza per questo obliare la complessità sottostante. Che si parli di “identità” o di “principio”, di “armonia” o di “invisibile”, di “logos” o di “libertà”, di “trascendenza” o di “relazione”, di “nulla” o di “destino” (temi contenuti nel volume), il ritmo trinitario può realmente offrire dei criteri metodologici tali da fungere da valida proposta argomentativa.

Un esempio di questo si può rintracciare lì dove Donà tratta la questione del principio, tra l’uno e il molteplice. Egli, partendo dalla citazione di Eraclito, secondo cui “tutto è uno”, si domanda cosa significhi tale affermazione: si sta forse affermando che i molti siano solo un’apparenza rispetto a ciò che veramente è, oppure «che, proprio nei distinti, concepiti ognuno nella propria distinzione (e in virtù di tale distinzione), a dirsi è comunque il medesimo? Come se quest’ultimo potesse dirsi come tale, ed essere ciò che è, solo in virtù dei molti che pur esistono, rendendosi capaci di dire il medesimo … “proprio” a partire dalla loro distinzione» (p. 112).

La teologia, di fronte a questo dilemma, nel principio, tra l’uno e il molteplice, ha chiaro – afferma Donà – che è l’Uno a far sussistere i molti, eppure questi, pur dicendo l’Uno, rimangono determinazioni distinte tra loro e da quell’Uno a cui esse rimandano. Non solo: l’unità è la condizione di possibilità della molteplicità, proprio in quanto quest’ultima è tale «solo in quanto tenuta insieme da un’unità che non è né un questo né un quello; da un’unità, cioè, che non si vede così come si vedono, invece, i “molti” dalla medesima per l’appunto uni-ficati» (pp. 114-115). Si domanda Donà: «Esiste, cioè – ecco il punto –, la possibilità di concepire un principio che non ci costringa a relegare nell’ambito dell’impossibile (cui si può accedere solo per fede) il dirsi dallo stesso punto di vista e nello stesso tempo da parte dell’identico e del diverso?» (p. 124).

Qui entra in gioco, per l’autore, l’ontologia trinitaria. Illustrando il percorso tematico che va da Agostino (secondo il quale la relazione in Dio non è più di ordine accidentale, come per la riflessione aristotelica) a Riccardo di San Vittore (per il quale in Dio vi è un’unica natura, mentre le tre Persone divine si distinguono tra loro per l’origine: ciò significa tuttavia, spiega Donà, che vi è una natura divina già in se stessa distinta, in quanto l’origine rinvia alla natura), a Tommaso d’Aquino (dove, nelle Persone divine, l’identità sussistente coincide con la relazione), l’autore sottolinea: «Eccolo, il punto centrale che ci consente di riconoscere, nella Trinità, l’unica possibile risposta ad una questione che da sempre sta a cuore alla filosofia […]. Insomma, quale il principio, o meglio la condizione di possibilità delle cose tutte? […] Ecco, unico possibile principio di questo modo d’essere […] è il Dio trinitario» (p. 131).




L’«et… et» di un pontificato. A margine della visita del papa a Milano

 

lefebvriani-582di Francesco Vermigli • Nel giorno dell’Annunciazione del Signore, Milano ha accolto papa Francesco, giunto per una visita intensissima alla diocesi ambrosiana. L’incontro con alcune famiglie nel quartiere periferico delle Case Bianche, il colloquio con i preti, i religiosi e le religiose nel Duomo, la visita al carcere di San Vittore, la messa nel parco di Monza e infine l’incontro con i cresimandi stipati sulle gradinate di quella che gli appassionati del gioco del pallone, chiamano la “Scala del calcio”: nello spazio di poche ore Francesco ha potuto conoscere una realtà ecclesiale particolare nel panorama della Chiesa italiana; ha toccato con mano il tratto singolare di un cattolicesimo tanto radicato nella tradizione dei santi Ambrogio e Carlo, quanto connotato da un profilo fattivo e solidale.

Ma qui vogliamo soffermarci su alcune parole che il papa ha detto nel colloquio con i preti, i religiosi e le religiose nella Cattedrale di Milano. In modo particolare, ci piace rilevare come in un paio di risposte che ha offerto ai presenti, si nasconda un modo di pensare la Chiesa, i cui segnali sono dispersi nel suo stesso pontificato. Ad un diacono permanente che chiede quale sia il posto nella Chiesa per coloro che accedono al diaconato, il papa risponde, mettendo in guardia i diaconi dal polarizzare la loro vocazione: né solo servizio per i poveri, né solo liturgia, ma e servizio e liturgia; né solo famiglia, né solo partecipazione ecclesiale, ma e famiglia e Chiesa. È soprattutto in una delle risposte che offre ad un prete ambrosiano, che il papa dà profondità a quello che va dicendo.

Francesco prende spunto da una domanda che si chiede come sia possibile rinnovare la fede in una società multiculturale e multietnica. Invita a guardare con fiducia alla realtà odierna – come comunità credente che si fa avanti nelle sfide di oggi, senza rassegnazione e lamentele – e rileva come la storia della Chiesa insegni che il tratto essenziale della stessa Chiesa è proprio la pluralità nell’unità. Perché avvenga questo equilibrio, perché nella Chiesa vi sia e unità e pluralità, si richiede che vi sia l’intervento dello Spirito: del Maestro, cioè, di questo equilibrio; l’intervento di Colui che è ad un tempo Maestro e dell’unità e della pluralità. La Chiesa non dovrà essere né lacerata da un pluralismo frammentato, né omologata in una falsa idea di uniformità: si richiede che la Chiesa sia e una e plurale; per opera di Colui che nella vita intima di Dio stringe in unità la pluralità delle persone divine.

Ci piace notare come queste affermazioni abbiano in più occasioni trovato concreta realizzazione nel pontificato di Francesco. Sono segnali dispersi, ma coerenti, che intrecciano quasi un tessuto, nascosto nelle pieghe del suo pontificato. Vi è un caso emblematico, che in primo luogo ha il vantaggio di condurre a smentita immagini vulgate e superficiali della sua azione di governo della Chiesa; ma che, soprattutto – al di sotto dell’ars operandi che il pontefice mette in pratica in quest’ambito – fa intravedere anche l’idea di Chiesa che muove la sua azione.

Mi riferisco al caso davvero paradigmatico degli sviluppi attorno allo scisma lefebvriano. Come noto in due occasioni, negli ultimi tempi il pontefice ha compiuto passi significativi nei confronti della Fraternità San Pio X: il primo, nell’atto di indire il Giubileo della Misericordia – passo confermato, donec aliter provideatur, nella Lettera apostolica Misericordia et misera, a conclusione dello stesso Giubileo – dichiarando valida e lecita l’assoluzione nelle confessioni amministrate dai sacerdoti appartenenti alla Fraternità; il secondo passo, approvando la Lettera che la Commissione Ecclesia Dei ha inviato il 27 marzo 2017 a tutti i vescovi del mondo, a proposito della possibilità di concedere la licenza di matrimonio per i fedeli legati alla Fraternità. Leggere le ragioni che le due lettere introducono per giustificare questi passi, significa scorgere qualcosa di quel modo di pensare la Chiesa che sta alla base dell’azione di questo pontefice. Togliere ogni impedimento alla riconciliazione del peccatore con Dio, liberare i cuori delle persone dall’inquietudine circa la validità dei sacramenti, rasserenare la coscienza dei fedeli: queste sono le parole più ricorrenti.

Ma ci domandiamo se non sia ancora più in radice un altro ancora il motivo che muove papa Francesco in questo, come in altri ambiti della sua azione pastorale. Ci chiediamo se alla base di tutto non stia quello che vien detto il “presupposto favorevole”; quell’atteggiamento del cuore, cioè, di ispirazione ignaziana che è siglata nella frase: “presupporre che ogni buon cristiano dev’essere più pronto a salvare un’affermazione del prossimo che a condannarla” (Esercizi spirituali, 22). In fin dei conti, non è proprio questo principio, questo presupposto favorevole, questo atteggiamento del cuore che cerca il bene nell’altro, piuttosto che attaccarsi all’errore; non è, diciamo, tutto questo alla base di una Chiesa che è pensata secondo la formula dell’«etet»?