Presentazione degli articoli del mese di marzo 2019

maxresdefaultAndrea Drigani a margine dell’Incontro svoltosi in Vaticano su «La tutela dei minori nella Chiesa» riflette sullo significato del diritto penale canonico nella connessione con la legge suprema della «salus animarum». Dario Chiapetti illustra il pensiero politico del teologo ortodosso Christos Yannaras che muovendosi dalla radici del pensiero ellenico, nel confronto la filosofia occidentale contemporanea, propone alcune interessanti annotazioni teologiche. Giovanni Campanella introduce alla lettura del volume di Ezio Aceti, una serie di meditazioni sullo Spirito Santo, che con i suoi doni permette al cristiano di giungere a maturazione per essere a sua volta un dono. Alessandro Clemenzia relaziona su un convegno di vescovi svoltosi presso l’Istituto Universitario «Sophia» di Loppiano, con al centro il tema della sinodalità, per formare alla «cultura dell’incontro» e al «coraggio dell’alterità». Antonio Lovascio presenta il rapporto sulla criminalità mafiosa nel settore agroalimentare, che aggrava il problema della fame, umiliando la dignità delle persone. Francesco Romano si sofferma sulla specificità dell’ordinamento giuridico della Chiesa, fondato sulla Rivelazione Divina, con un’identità diversa da quella degli ordinamenti secolari. Stefano Tarocchi all’insegna del rapporto tra archeologia e teologia, tra monumenti e documenti, compendia una lezione del francescano Frédéric Manns sugli scavi della città di Magdala. Giovanni Pallanti ricorda il cardinale Joszef Mindszenty (1892-1975), primate d’Ungheria, dichiarato «venerabile» da Papa Francesco, eroico testimone della fedeltà e della libertà della Chiesa. Mario Alexis Portella nel dibattito sulla possibilità dell’esistenza di uno stato democratico e laico in ambito islamico, richiama l’esperienza della rivoluzione turca di Kemal Atatürk. Gianni Cioli dal saggio di Rosa Morelli propone una serie di considerazioni sulla metodologia per una lettura «teologica» delle opere d’arte. Carlo Parenti commenta il discorso di Papa Francesco alla Pontificia Accademia per la Vita sugli aspetti positivi, ma anche sui gravi rischi sull’uso dei «robot» in special modo quando si sostituiscono alla ragione umana. Francesco Vermigli prende spunto da un famoso «spiritual» reso celebre dall’interpretazione di Louis Armstrong, per indicare nel Tempo di Quaresima l’eterno cammino dell’Esodo per liberarsi, con l’aiuto di Dio, dalla schiavitù del peccato e dall’idolatria. Leonardo Salutati affronta la questione ecologica nell’ambito della Dottrina Sociale della Chiesa che da antiche premesse teologiche (San Francesco d’Assisi) ha trovato nel recente insegnamento dei Papi (da Pio XII a Francesco) un grande interesse. Carlo Nardi col commento di San Girolamo sulla Lettera a Filemone sospinge ad una lettura integrale e completa della Bibbia, anche nell’ordinaria esistenza umana. Stefano Liccioli osserva sulla missione della parrocchia, che pur non costituendo l’unica struttura ecclesiale presente nel territorio, rimane comunque essenziale, dovendosi, tuttavia, impegnare per un’azione più capillare di evangelizzazione.




Francesco: si corre il rischio di consegnare la vita alla logica delle macchine

rob1di Carlo Parenti • Papa Francesco, all’udienza concessa il 25 febbraio 2019 ai partecipanti all’assemblea plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, riuniti a Roma per riflettere sul tema “Roboetica. Persone, macchine e salute”, ha affrontato il tema dei rischi che l’umanità corre ove i robot si sostituiscano alla ragione umana.

Il Papa ha dapprima ricordato le difficoltà in cui il nostro mondo si dibatte. “Il tessuto delle relazioni familiari e sociali sembra logorarsi sempre più e si diffonde una tendenza a chiudersi su di sé e sui propri interessi individuali, con gravi conseguenze sulla «grande e decisiva questione dell’unità della famiglia umana e del suo futuro» (Lett. Humana communitas, 2). Si delinea così un drammatico paradosso: proprio quando l’umanità possiede le capacità scientifiche e tecniche per ottenere un benessere equamente diffuso, secondo la consegna di Dio, osserviamo invece un inasprimento dei conflitti e una crescita delle disuguaglianze. Il mito illuminista del progresso declina e l’accumularsi delle potenzialità che la scienza e la tecnica ci hanno fornito non sempre ottiene i risultati sperati”.

Francesco ha poi ammonito: “l’odierna evoluzione della capacità tecnica produce un incantamento pericoloso: invece di consegnare alla vita umana gli strumenti che ne migliorano la cura, si corre il rischio di consegnare la vita alla logica dei dispositivi che ne decidono il valore. Questo rovesciamento è destinato a produrre esiti nefasti: la macchina non si limita a guidarsi da sola, ma finisce per guidare l’uomo. La ragione umana viene così ridotta a una razionalità alienata degli effetti, che non può essere considerata degna dell’uomo”.

Nel ricordare l’Enciclica Laudato si’ il Santo Padre ha affermato: “Vediamo, purtroppo, i gravi danni causati al pianeta, nostra casa comune, dall’impiego indiscriminato dei mezzi tecnici. Per questo la bioetica globale è un fronte importante su cui impegnarsi. Essa esprime la consapevolezza della profonda incidenza dei fattori ambientali e sociali sulla salute e sulla vita”.

Ha inoltre ribadito quanto detto nel Suo Messaggio al World Economic Forum di Davos il 12 gennaio 2018: “«L’intelligenza artificiale, la robotica e altre innovazioni tecnologiche devono essere impiegate in modo da contribuire al servizio dell’umanità e alla protezione della nostra casa comune invece che per l’esatto opposto, come purtroppo prevedono alcune stime». L’inerente dignità di ogni essere umano va posta tenacemente al centro della nostra riflessione e della nostra azione. A tale riguardo, conviene osservare che la denominazione di “intelligenza artificiale”, pur certamente di effetto, può rischiare di essere fuorviante. I termini occultano il fatto che – a dispetto dell’utile assolvimento di compiti servili (è il significato originario del termine “robot”) –, gli automatismi funzionali rimangono qualitativamente distanti dalle prerogative umane del sapere e dell’agire. E pertanto possono diventare socialmente pericolosi. È del resto già reale il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata: a cosiddette “macchine intelligenti” vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane”.

Bisogna allora “comprendere meglio che cosa significano, in questo contesto, l’intelligenza, la coscienza, l’emotività, l’intenzionalità affettiva e l’autonomia dell’agire morale”, ha detto il Pontefice aggiungendo: “I dispositivi artificiali che simulano capacità umane, in realtà, sono privi di qualità umana […]Occorre tenerne conto per orientare la regolamentazione del loro impiego, e la ricerca stessa, verso una interazione costruttiva ed equa tra gli esseri umani e le più recenti versioni di macchine. Esse infatti si diffondono nel nostro mondo e trasformano radicalmente lo scenario della nostra esistenza. Se sapremo far valere anche nei fatti questi riferimenti, le straordinarie potenzialità dei nuovi ritrovati potranno irradiare i loro benefici su ogni persona e sull’umanità intera” ha assicurato il Papa.

Francesco ha poi affrontato il tema dei “gravi problemi di governabilità degli algoritmi che elaborano enormi quantità di dati. Come anche pongono seri interrogativi etici le tecnologie di manipolazione del corredo genetico e delle funzioni cerebrali. In ogni caso, il tentativo di spiegare il tutto del pensiero, della sensibilità, dello psichismo umano sulla base della somma funzionale delle sue parti fisiche e organiche, non rende conto dell’emergenza dei fenomeni dell’esperienza e della coscienza. Il fenomeno umano eccede il risultato dell’assemblaggio calcolabile dei singoli elementi. Pure in questo ambito, assume nuova profondità e pregnanza l’assioma secondo cui il tutto è superiore alle parti (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 234-237)”.

Infine il Papa ha assicurato che: “Il nostro impegno – anche intellettuale e specialistico – sarà un punto d’onore della nostra partecipazione all’alleanza etica in favore della vita umana. Un progetto che ora, in un contesto in cui dispositivi tecnologici sempre più sofisticati coinvolgono direttamente le qualità umane del corpo e della psiche, diventa urgente condividere con tutti gli uomini e le donne impegnati nella ricerca scientifica e nel lavoro di cura”




«Non buttiamo la parrocchia dalla finestra», ma…

9788831526999di Stefano Liccioli  stato da poco annunciato che Papa Francesco riprenderà le visite alle parrocchie romane.
Se da una parte questa pratica pastorale gli deriva dal suo essere Vescovo di Roma, dall’altra credo che questa sua attenzione sia la conferma della fiducia che il Santo Padre continua a riservare nell’istituzione parrocchiale. Fiducia che, per esempio, nel 2016 durante un incontro con i vescovi a margine della Gmg di Cracovia lo portò ad affermare:
«La parrocchia non si tocca, non è una struttura che dobbiamo buttare dalla finestra».

In tale ottica, questo numero de’ “Il Mantello della Giustizia”, mi dà l’occasione per condividere alcune semplici riflessioni personali su quello che considero essere il futuro della parrocchia come istituzione. Innanzitutto credo che sia opportuna una precisazione, forse scontata, ma doverosa: se prima si cresceva “all’ombra del campanile”, ora i tempi sono cambiati e la parrocchia non è più l’unico punto di riferimento delle persone. Anzi, «siamo in mezzo a pervasivi processi di scristianizzazione, che generano indifferenza e agnosticismo» (Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, Nota pastorale della CEI, 2004) e la parrocchia rischia di non essere neanche più un punto di riferimento per molte persone, aggiungo io. In questo contesto mutato come devono, i parrocchiani, pensarsi ed eventualmente ripensarsi? Alcune indicazioni significative sono riportate nell’esortazione apostolica di Papa Francesco, Evangelii Gaudium:«La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”. Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione».(EG 28). Il Santo Padre non considera superata l’istituzione parrocchiale perché il suo essere in mezzo alla gente le conferisce un ruolo particolare in ordine all’evangelizzazione delle persone. Occorre però, a mio avviso, che le comunità evitino il rischio dell’autoreferenzialità, accontentandosi di trovarsi bene al proprio interno, coltivando relazioni “calde”, rassicuranti. In quest’ottica è necessario che le comunità non si limitino a pensarsi di coincidere, in maniera riduttiva, con coloro che sono più impegnati nella vita pastorale o che vengono alla Messa tutte le domeniche, devono mantenere invece un cuore inquieto che cerca i lontani. Allo stesso tempo le parrocchie non possono percepirsi o essere percepite come delle “stazioni di servizio” in cui ci si rifornisce di quelle che serve (sacramenti, sacramentali, catechismo…) per poi riprendere il proprio cammino.

Papa Francesco, nel passo dell’Evangelii Gaudium citato, parla di revisione e rinnovamento delle parrocchie. Ritengo che prima ancora delle iniziative da proporre e dei progetti da fare, ci siano degli atteggiamenti basilari da assumere o da rafforzare che possono portare le comunità ad una conversione, ad una consapevolezza del proprio fondamentale ruolo evangelizzatore.

Uno degli atteggiamenti da favorire è sicuramente quello dell’accoglienza. Significa far spazio a chi si sente estraneo alla comunità parrocchiale e quindi alla Chiesa stessa, ma cerca un aggancio per poter condividere il proprio disagio, le proprie domande. A tutti costoro occorre offrire uno spazio ospitale che non è in un luogo, ma in una rete di relazioni. È un’ospitalità dal sapore evangelico che testimonia come sia la Chiesa che l’accesso alla fede siano a disposizione di tutti. Si tratta dell’atteggiamento opposto di coloro che erigono muri e muriccioli per escludere, dividere i buoni dai cattivi, quelli che la pensano come loro da quelli con cui invece non sono d’accordo.

Accogliere però non basta. Serve anche offrire. Offrire una domanda di senso dove essa tace o dove viene cercata, proporre slanci verticali a chi è ripiegato su una vita piatta, presentare l’incontro con la Verità che è il bene dell’uomo. Chi incontra la parrocchia dovrebbe poter dire di aver incontrato Gesù: nella Parola che viene proclamata, nell’Eucarestia che viene celebrata, nell’amore per il prossimo che viene testimoniato. E’ importante essere comunità credenti e credibili, capaci cioé di tenere insieme coerentemente la fede annunciata, quella pregata e quella testimoniata e di farlo tra le mura della chiesa così come tra quelle dei nostri condomini. Al fine di non offrire al mondo controtestimonianze penose, occorre impegnarsi ad essere parrocchiani che non confondono il servizio con il potere, che non escludono o considerano scarti coloro che sembrano non rispettare più certi parametri dell’efficienza, propri più di un’azienda che di una comunità di fede. E’ necessario sforzarsi di ragionare sempre nella logica evangelica dell’autenticità e del perdono piuttosto che in quella del giudizio e del rancore.

Chiediamoci se anche delle nostre comunità parrocchiali possono dire quello che i pagani, secondo Tertulliano, dicevano stupiti dei cristiani dei primi secoli:«Vedete come si amano!» (Apolog. 39). Come ci dice il Papa, non buttiamo la parrocchia dalla finestra, ma abbiamo il coraggio di un rinnovamento che è in primo luogo un rinnovamento dei cuori più che dei progetti pastorali, una conversione che scaturisce da un radicarsi sempre più nel Vangelo.




Con Girolamo, leggendo la Lettera a Filemone

images (1)di Carlo Nardi • 1. Quotidianità cristiana. Uno spunto di riflessione sulla vita ordinaria dei giorni mi viene dalla premessa con cui san Girolamo apre il suo Commento alla breve Lettera di san Paolo a Filemone (Corpus Christianorum Latinorum 77c, pp. 77-80).

Cristiani schizzinosi persino di parole espresse dalle sacre Scritture annoveravano anche la Lettera a Filemone come insulsa. Nel breve scritto s’immaginavano una specie di black out di Spirito Santo. Secondo loro, la Lettera non era di Paolo o, ammessa che la sia, non avrebbe in sé nulla di edificante (Commento, p. 78). Sarebbe stata una lettera di raccomandazioni per una specie di lacchezzo. Così, per esempio, si riteneva insignificante che Paolo avesse chiesto a Timoteo di portargli un mantello da lui dimenticato sbadatamente (2 Tim 4,13). Non solo. In un’altra circostanza, di per sé importantissima, quella di Paolo in polemica con cristiani giudaizzanti intenti a far proseliti in favore della circoncisione secondo loro obbligatoria, anche se già battezzati …, e invece il medesimo apostolo, di molto stizzito, gli scappa da dire: Che si facciano tagliare ogni cosa! (Gal 5,12). E si capisce il che.

Giustamente a Girolamo non va l’idea che nella Bibbia siano testi meno ispirati di altri. Non è punto d’accordo. Anzi, proprio a partire dalla sacra Pagina e in sua compagnia, il furente Padre della Chiesa entra a parlare della nostra vita, tutta ordinaria, da mane a sera: le nostre faccende e commissioni, il mangiare e il bere, e vestir panni (cf. Dante, Inferno xxxiii,141) e così via: anche, e meno male, l’espletare i bisogni corporali. O che lo Spirito Santo in certi frangenti dovrebbe svolazzar via? Perché lo dovrebbe, quando non c’è nulla di male? Tutto è per nostra vita, tutto per grazia di Dio, sembra dire il dotto padre Girolamo.

Il quale va oltre questi pensieri. Da teologo mette in guardia da ragionamenti strampalati. Per esempio, di chi introduce separazioni nella Bibbia, nonché nei nostri convincimenti, come se ci fosse un Dio che ha creato i cieli e un altro, di basso ceto (effetti della la sora Alvara del Grillo canterino?), tutto dedito a crear bachi e formiche. C’era chi pensavano così, i cosiddetti marcioniti nei primi secoli. Per dirla in breve: come se non ci fosse un unico Dio; come se non ci fosse un’unica rivelazione, e non fosse unica questa nostra vita vissuta da vivere in grazia di Dio.

Girolamo nella gustosa introduzione al Commento alla letterina di san Paolo è all’insegna della concretezza cristiana. Perché non dovrebbe averla scritta san Paolo? E soprattutto: perché non dovrebbe essere ispirata da Dio? Anzi, contro il dualismo e separatismo dell’eresia marcionita e in genere gnostica – grosso modo con un Dio e un altro, ciascuno per conto suo -, insegna ed offre un unico Creatore dei cieli come dei vermi, e rivendica la dignità delle nostre cose di tutti i giorni, come la nobiltà del linguaggio quotidiano (sermo cotidianus): le parole giorno per giorno, come avrebbe detto Girolamo.

Egli, nel commentare il biglietto che parla di problemi “servili”, afferma il valore di una ordinaria amministrazione della vita; dà una lezione di umiltà e, più a monte, illustra la creazione della materia e, di conseguenza, dell’incarnazione: implicitamente, ma senza alcun dubbio ciò che interessa a Dio. Insomma, tutto, anche l’andar di corpo, in qualche modo riguarda una vita cristianamente vissuta. E di nuovo, non senza un perché queste cose, che si direbbero cosucce, sono nella sacra Scrittura.

2. In merito alla questione. E così Girolamo entra in argomento, che è in un discreto ginepraio. Secondo lui, la Lettera fu scritta da Paolo in prigione a Roma. Ancora, per lui, Onesimo non era tutt’altro che uno stinco di santo. Era uno schiavo che si è svignato dal padrone, un servus fugitivus ben noto, legalmente inquietante. Ci sarebbero stati anche soldi rubati da lui per la casa per rimediare il suo stendere e spandere. Scialacquatore per luxuriam, aveva voluto godersi la vita tra donne, donne eterni dei (cf. Fr. Lehár, La vedova allegra, traduzione di F. Fontana, Atto 2) ?! Morale della favola. Un gruzzolo perspicuo “sputtanato” (capp. 8-9.18: pp. 94.99), come i quattrini del figliol prodigo per tradurre san Luca sinteticamente con un solo participio toscano e pertanto italiano (Lc 15,30. cf. 13). E quando il soggetto è alla disperazione, va da Paolo apostolo.

Come si vede, per Girolamo, in Onesimo c’è del birbo matricolato. Dall’Asia Minore, dov’era il padrone, era andato addirittura in Italia. Girolamo estende in merito allo schiavo non solo il danno subito da Filemone dal sottrarsi di Onesimo ai suoi doverosi servizi, ma anchor più il furto. Ma Paolo lo catechizza e lo battezza: aveva fatto penitenza e Paolo intercede per lui.

Girolamo mette in evidenza peccati e reati (delicta) di un Onesimo per far risaltare gli effetti della grazia in Paolo e in Onesimo, penitente e convertito. Il tutto non sarebbe stata una cosa seria, se il birbone avesse potuto rientrare mediante di nascondimenti, ritrovamenti e raccomandazioni, abbastanza diffusi e in qualche modo tollerabili. Un po’ come la fuga l’amore architettata per costringere a nozze. Per Girolamo, comunque, c’era stata materia penale.

E Filemone? Dovette far penitenza anche lui? Con finezza Girolamo presenta Paolo nel convertire il padrone. A quanto pare, ne aveva ha bisogno. Il Padre della Chiesa nello stesso Commento fa riferimento ad altre lettere paoline, quella Agli Efesini e Ai Colossesi. Specialmente in quest’ultima Paolo parla del dovere dei padroni con obbligo di dare agli schiavi «quello che è giusto ed equo» (Col 4,1). Dunque: per l’apostolo c’è una giustizia morale, relazionale e sociale. Lo schiavo ha diritto ad avere quel che gli spetta, e pertanto risulta soggetto e titolare di diritti. E se è tale, è ancora schiavo? La giustizia come virtù (iustitia) pare tradursi in diritto (ius). L’etica tende al giure, anche se nella schiavitù c’è voluto molto tempo e di fatto ce ne vorrà. Intanto, non solo la Lettera dell’apostolo, ma anche il relativo Commento di Girolamo edifica, e lentamente “costruisce” anche il lettore (capp. 8-19: pp. 94-99).




L’ermeneutica teologica della Trinità di Masaccio. A proposito di un saggio di Rosa Morelli

658E9489-10FF-483B-9C5D-97190A266E75di Gianni Cioli • L’ermeneutica dell’opera d’arte costituisce per la teologia una sfida affascinante ed un’importante opportunità di dialogo con la cultura non teologica. Rosa Morelli, docente di teologia dogmatica presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale ha affrontato questa sfida in varie occasioni. Può essere interessante rileggere il suo piccolo ma denso saggio, pubblicato alcuni anni fa, Teologia delle icone e la Trinità di Masaccio. Ipotesi di lettura per una teologia della visione, (Edizioni Segno, Tavagnacco Udine 2008). Il saggio, introdotto da una prefazione di Claudia Picazio e completato da una postfazione di Bruno Forte, si articola in due parti ben distinte.

La prima, Teologia e arte dell’icona, offre un’efficace sintesi teologica e storica del senso delle icone orientali. Parte dall’estetica trinitaria dei Padri; sviluppa il discorso considerando la peculiarità dell’iconografia cristiana orientale, prima nell’arte di Bisanzio e poi nell’arte russa delle icone; approda alla conclusione che al centro dell’icona è l’uomo il cui volto giunge a manifestare l’immagine di Dio: «La teologia dell’icona», conclude l’autrice, «è profezia escatologica. Nello Spirito che “covava” l’abisso per farne nascere il mondo, luogo dell’Incarnazione, per Cristo che, Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, restituisce all’uomo la sua struttura iconica, al Padre, icona delle icone, fonte dell’amore trinitario, rimanda alla visione finale. Quella visione già inaugurata dal Figlio la cui storia di croce e resurrezione rivela il mistero imprendibile dell’amore di Dio, dell’amore che è Dio, e con lo Spirito, per un anelito che non si spenge fa dire alla Sposa: Vieni Signore Gesù» (p. 31).

La seconda parte, La Trinità di Masaccio: una lettura teologica, è quella più interessante e al contempo più problematica perché costituisce un concreto modello di ermeneutica teologica suscettibile di un confronto con altri modelli. E poiché l’opera in esame è universalmente nota e ampiamente studiata, il confronto può risultare particolarmente trasparente. Le pagine attraverso cui Rosa Morelli rilegge l’affresco masaccesco appaiono per molti versi affascinanti, dense di sapere biblico e teologico e al contempo accessibili ai non addetti ai lavori. Il punto di partenza per la lettura è una riflessione sulla croce come storia trinitaria evocata dalla scena del Padre che sostiene il Figlio crocifisso con al centro la colomba, immagine dello Spirito. Il discorso si sviluppa attraverso la considerazione della posizione dell’uomo di fronte al mistero suscitata dalle figure dei donatori, un uomo e una donna, collocati ai margini della scena, i quali richiamo a loro volta il dramma di Adamo nel quadro della storia della salvezza. Le figure di Maria e di Giovanni, al centro della composizione, riconducono l’interpretazione teologica alla centralità della croce. Proprio le figure dei due dolenti sotto la croce inducono l’autrice a concludere la lettura del dipinto in chiave ecclesiologia facendo ancora ricorso al tema apocalittico dello Spirito e della Sposa (cf. Ap 22,17).

Il modello ermeneutico che Rosa Morelli utilizza pare voler prescindere sistematicamente dalla questione del significato teologico che l’autore ha inteso consapevolmente esprimere attraverso la sua opera, lasciandosi piuttosto guidare dalle immagini e dalla loro intrinseca dinamica emotiva ed evocativa dei mysteria fidei. L’osservazione delle immagini, diventa occasione per mettere in gioco una vasta cultura biblica e teologica e offrire al lettore riflessioni spirituali significative ma volutamente disancorate dal progetto iconografico che l’artista poteva avere in mente e da ogni ricerca filologica interessata a comprenderlo. In concreto per l’autrice, che pare particolarmente ispirata dalle riflessioni di Hans Urs von Balthasar e di Bruno Forte, ciò significa interpretare un’opera del passato mediante categorie della teologia contemporanea atte a dialogare con la potenza estetica che scaturisce dall’opera. Rosa Morelli intende così contribuire a delineare quella teologia della visione a cui si fa riferimento nel sottotitolo del saggio. «Teologia della visione» va intesa «come contemplazione e silenzio adorante; come primato dell’Amore-Bellezza che solo può rendere vero il Vero e amabile il Buono, senza ridurre il primo a sterili sillogismi e il secondo a tristi moralismi» (p. 69). La teologia della visione può quindi assumere e valorizzare il linguaggio dell’arte che «è simbolico e metaforico, sintesi, nel senso di più e oltre, di tutti linguaggi, e va quindi – accogliendoli – oltre gli altri linguaggi non artistici, tutti meno sintetici, più analitici, meno amalgamanti, meno felicemente espressivi». Si tratta di un modello ermeneutico del tutto legittimo, e di un modo certamente affascinante di fare teologia, che appare applicabile anche a opere di arte (visiva, letteraria e cinematografica) non necessariamente ispirate a tematiche direttamente religiose o teologiche. È un paradigma interpretativo che, oltre tutto, può trovare una qualche analogia con altre ermeneutiche dell’opera d’arte, come quelle psicanalitiche.

Nel caso della Trinità di Masaccio, tuttavia, rimango perplesso sulle motivazioni di partenza con cui l’autrice pare voler motivare la sua scelta di metodo in rapporto all’opera in questione: «La Trinità di Santa Maria Novella non è certo un’opera teologica. L’intenzione dell’autore non è quella di consegnarci una teologia trinitaria in immagini. Se di teologia si può parlare questa è “inconsapevole” e perciò più complessa, più impegnativa per chi a quest’affresco si rivolge per tentarne una lettura teologica» (p. 33). Al contrario, ritengo che Masaccio, i suoi committenti e gli eventuali esperti che hanno partecipato al progetto iconografico dell’affresco abbiano inteso offrire un’opera profondamente teologica assemblando, per così dire, e risignificando in un nuovo insieme diversi soggetti iconografici consueti nell’arte medievale, quali il trono della grazia, i dolenti sotto la croce, i donatori e lo scheletro nella fascia inferiore. Proprio lo scheletro, che si presenta come un elemento di particolare impatto emotivo ma che Rosa Morelli pare non considerare affatto, sarebbe a mio avviso un particolare determinante per l’interpretazione teologica dell’insieme. Studi autorevoli vedono nello scheletro una possibile allusione alla figura di Adamo (cf. K. Park, «Masaccio’s Skeleton: Art and Anatomy in Early Reinassance Florence», in R. Goffen (ed.), Masaccio’s Trinity, Cambridge 1998, 119-140), un ipotesi che fra l’altro non contraddirebbe ma confermerebbe il quadro di lettura complessivo proposto dalla Morelli che, come si è accennato, concede un spazio significativo al dramma di Adamo nel quadro della storia della salvezza. Lettura filologica ed ermeneutica di un’opera del passato con le categorie della teologia contemporanea per una teologia della visione non devono necessariamente escludersi a vicenda.




Ecomafie, crimini contro il Creato e l’uomo

download (1)di Antonio Lovascio • “Vorrei guardare il volto dei poveri senza arrossire”. Sono le parole pronunciate da Papa Francesco alla FAO, con l’ennesimo invito alla Comunità internazionale ad “offrire soluzioni concrete e reali” per vincere “la battaglia contro la fame e la povertà” che riguarda ormai più di 820 milioni di persone al mondo. Che vivono situazioni precarie di vario genere: l’aria è inquinata, le risorse naturali impoverite, i fiumi contaminati, i suoli acidificati; non hanno acqua sufficiente per loro stessi e per le loro coltivazioni; le loro strutture sanitarie sono molto carenti, i loro alloggi sono scarsi e difettosi. «Queste realtà – ha sottolineato Bergoglio – si prolungano nel tempo; quando, dall’altra parte, la nostra società ha compiuto grandi progressi in tutti i campi del sapere». Il progresso tecnologico ormai non ha confini. Come, purtroppo, le mafie che si annidano dietro allo sfruttamento della terra e delle risorse naturali.

Proprio mentre il Pontefice era nella sede dell’agenzia Onu, a Roma veniva reso noto il Rapporto elaborato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’Agroalimentare. Il business è salito a 24,5 miliardi di euro, con un balzo del 12,4% nel 2018, una crescita che sembra non risentire della stagnazione dell’economia italiana e internazionale, immune alle tensioni sul commercio mondiale e alle barriere della circolazione delle merci e dei capitali. Siamo di fronte ad una rete di malfattori che si incrocia perfettamente con la filiera del cibo: dalla sua produzione al trasporto, dalla distribuzione alla vendita. Con tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni che via via abbandonano l’abito “militare” per vestire il “doppiopetto” e il “colletto bianco”, riuscendo così a scoprire e meglio gestire i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza tanto che ormai si può parlare ragionevolmente di mafia 3.0. Le nuove leve in parte provengono dalle tradizionali “famiglie” che hanno indirizzato figli, nipoti e parenti vari agli studi in prestigiose università italiane e internazionali e in parte sono il prodotto di una operazione di “arruolamento”, riccamente remunerato, di operatori sulle diverse piazze finanziarie del mondo.
Profili diversi dai Riina o dai Provenzano. Si tratta di persone colte, preparate, plurilingue, con importanti e quotidiane relazioni internazionali al servizio del giro d’affari mafioso che, proprio grazie a loro, assume e consolida un carattere transnazionale. I poteri criminali si nascondono nel percorso che frutta e verdura, carne e pesce devono compiere per raggiungere le tavole degli italiani passando per alcuni grandi centri di scambio fino alla grande distribuzione distruggendo la concorrenza e il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta. Il risultato sono la moltiplicazione dei prezzi, che per l’ortofrutta arrivano a triplicare dal campo alla tavola, i pesanti danni di immagine per il Made in Italy e i rischi per la salute con 399 allarmi alimentari, più di uno al giorno nel 2018 in Italia, secondo le elaborazioni Coldiretti sui dati del Sistema di allerta rapido dell’Unione europea RASFF. Senza trascurare le conseguenze sull’ambiente con le discariche abusive e le illegalità nella gestione dei rifiuti che fanno registrare oltre 30mila ecoreati all’anno nel nostro Paese.

La Chiesa vive nel mondo. Papa Francesco lo testimonia ogni giorno. E nell’enciclica Laudato si’ sottolinea che “fra i poveri più abbandonati e maltrattati c’è la nostra oppressa e devastata terra” (2). Il grido della terra è lo stesso grido dei poveri: “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” (49). Per questo la cura dell’ambiente in cui viviamo fa parte integrante di quella preoccupazione costante che ogni Chiesa locale dovrebbe avere per la sua gente allo stesso modo di quanto fa attraverso la Caritas per le persone povere e bisognose del suo territorio. La cura dell’ambiente è cioè parte dell’impegno caritativo dei cristiani e della nostra espressione di fede. Mi sembra che la Laudato si’ lo mostri in maniera chiara quando parla di una “ecologia integrale” e della necessità di una “conversione ecologica” (217). Perciò ritengo che anche questo faccia parte dell’evangelizzazione, cioè di quella forma alta di annuncio del Vangelo nel mondo di oggi. Infatti, o il Vangelo cambia le coscienze e i cuori, cioè converte, oppure perde la sua efficacia.

Il messaggio di Papa Francesco, come quello della Popolorum Progressio di San Paolo VI, è semplice e universale: la violenza e la superificialità umana si ripercuotono sul cosmo, che ne subisce le conseguenze fino all’autodistruzione. Ancora non ci si rende conto di questa unità profonda dell’universo. Si guarda il proprio particolare, ci si interessa del proprio benessere e chi se ne importa se le ecomafie imperversano, se la raccolta differenziata non viene fatta come si dovrebbe, se certi stupidi cittadini buttano l’immondizia ovunque o altri continuano a pensare che tanto non saranno loro a subire le conseguenze delle loro azioni irresponsabili. Ad alcuni fa comodo non rendersene conto, a partire appunto da coloro che perseguono i loro interessi, ad esempio quelli sempre meno nascosti della criminalità organizzata, che, grazie al lavoro paziente e determinato delle Forze dell’ordine, per fortuna sempre più viene a galla nella sua ampiezza.




Magdala

1di Stefano Tarocchi • All’inizio del mese di febbraio, il p. Frédéric Manns, professore emerito di esegesi neotestamentaria presso la Facoltà di Scienze Bibliche e Archeologia di Gerusalemme dello Studium Biblicum Franciscanum, ed uno dei massimi specialisti del rapporto tra giudaismo e cristianesimo nei primi secoli, durante la sua breve permanenza a Firenze presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale –  dove ha tenuto un corso alla Licenza in Teologia Biblica («Sinfonia del simbolo nuziale nel quarto Vangelo») – , ha dato una interessante conferenza sugli scavi della città di Magdala in Galilea: «Magdala. Monumenti e documenti».Qui ho inteso darne un breve compendio.

Cominciamo dalla stessa cittadina di Magdala. Fino a quando, nel 18 d.C., Erode Antipa, figlio di Erode il Grande costruisce la città di Tiberiade – il nome Tiberiade venne scelto per onorare l’imperatore romano Tiberio –, con lo scopo di farne la capitale del regno di Galilea, era l’unica città sulla sponda occidentale del Mar di Galilea e il terzo insediamento più importante della bassa Galilea dopo Sefforis e Tiberiade, a pochi chilometri a sud di Cafarnao. Magdala, era situata lungo la Via Maris, l’antica via commerciale che collegava l’Egitto alla Siria. La stessa strada da Nazareth o da Cana a Cafarnao correva proprio accanto all’ingresso settentrionale dell’attuale sito archeologico. Lo storico Giuseppe Flavio (37-100) riferisce che essa aveva quarantamila abitanti.

Gli archeologi francescani Virgilio Corbo e Stanislao Loffreda, che hanno dato un contributo insostituibile agli scavi di Cafarnao (ben diciannove campagne di scavo dal 1968 al 1986), nel 1973 iniziarono a Magdala degli scavi nella proprietà della Custodia di Terra Santa. Fu allora che ne scoprirono il porto sul lago di Tiberiade, le terme romane e parte della stessa Via Maris, la piazza centrale della città, le strade e alcuni edifici del primo secolo. In una casa fu rinvenuto anche un mosaico, raffigurante una barca a vela.

È stato, tuttavia, alla fine dello scorso decennio degli anni Duemila, quando la congregazione messicana dei Legionari di Cristo decise di creare un centro di spiritualità nella zona di Magdala, fu scoperta una delle più antiche sinagoghe di Galilea. Si pensa che la sinagoga fosse esistita a partire dal “periodo del secondo tempio” – che inizia nel 597 a.C., prosegue con l’esilio babilonese e dura fino alla distruzione del Tempio da parte dei romani, nel 70 d.C.Molti ritengono che sia stata originariamente costruita agli inizi del I secolo: si trattava di una struttura molto semplice, che venne totalmente rinnovata nell’anno 40. Essa è attualmente la più antica scavata in Galilea e una delle sette del primo secolo in tutta Israele.

All’interno della sinagoga fu trovata anche una moneta, coniata a Tiberiade nel 29 d.C. Si dimostrava così la datazione esatta, che corrisponde al tempo del ministero pubblico di Gesù: peraltro, i vangeli non vi menzionano mai la sua presenza.

Altro recente ritrovamento significativo in questo settore dell’antica città di Magdala, è una grande pietra, contenente probabilmente fra le altre la più antica raffigurazione artistica del tempio. La parte anteriore della pietra raffigura, fra altri il più antico simbolo scolpito della menorah a sette bracci del tempio, peraltro mai trovata, ed altri particolari del culto del tempio.

Dopo aver accennato ai “monumenti” veniamo adesso ai “documenti”.2

Sappiamo che il Nuovo Testamento fa una menzione di un luogo chiamato Magdala. Il vangelo di Matteo così scrive: «congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magdala» (Mt 15,39). Alcuni manoscritti, però, trasmettono il nome del luogo come “Magadàn”: tali testimonianze vengono preferite nella traduzione CEI, già dall’edizione del 1974. Anche se alcuni commentatori affermano che i due nomi si riferiscono allo stesso luogo, altri respingono la sostituzione di Magdala per Magadàn.

Il racconto parallelo di Marco 8, 10 nella maggior parte dei manoscritti dà un nome di luogo ancora diverso: «Gesù salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà (Mc 8,10)».  Esistono comunque codici del vangelo di Marco, leggono sia Magdala che Magadàn: ciò è dovuto al fenomeno dell’assimilazione, da parte di copisti con il testo di Matteo.  Esistono interpretazioni che sostengono che Dalmanutà sia una traslitterazione della parola siriaca che indicava il “porto”.

Peraltro, Magdala, nota anche con il nome greco di Tarichea, è stata segnalata come un luogo per la salatura del pesce. Anche Giuseppe Flavio si riferisce ad una ricca città galileiana, conquistata dai Romani nella guerra ebraica (66-73 d.C.) per via della sua fiorente attività di pesca. Lo storico non riferisce il suo nome ebraico.

Il Talmud, che rappresenta, accanto alla Bibbia, il testo fondamentale dell’ebraismo sul quale si basa tutta la tradizione morale e giuridica, distingue tra due Magdala:  Migdal Gadara a est, sul fiume Yarmuk vicino a Gadara (nel Medioevo “Jadar”, ora Umm Qais), acquisendo così il nome di Magdala Gadar;  e Migdal Nunayya(“Magdala dei pesci”) vicino a Tiberiade, localizzata  sulla riva del Mar di Galilea (così il trattato Pesahim 46a). 

Anche Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaica riporta il fatto che c’erano molte navi a Magdala durante la battaglia della prima rivolta ebraica: duecentotrenta. Infatti, anche i cantieri navali erano una industria della zona.

Luca, riferendo l’attività di Gesù, menziona, all’interno del gruppo delle seguaci  di Gesù,  una donna di Magdala, Maria: «egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni» (Lc 8,1-3).Maria di Magdala è elencata come la prima tra le donne che hanno accompagnato Gesù e sostenuto il suo ministero dalle proprie risorse.

Il Vangelo di Giovanni 20, 1 narra che «il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino». E continua il testo, dopo aver descritto la corsa di Pietro e del discepolo amato: «Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto» (Gv 20,11-18).

Per questo motivo, già nel III secolo, Maria Maddalena fu descritta da Ippolito di Roma come “apostola degli Apostoli”. Eppure, la sua identità reale si è persa, a partire da quando papa Gregorio Magno pronunciò un discorso nel 591, che espresse la sua convinzione che la Maria che era stata curata da sette demoni fosse la stessa persona della penitente – erroneamente identificata come una prostituta perfino dal Caravaggio –, che unse i piedi di Gesù. Nell’antichità, fra l’altro, la malattia era ritenuta come causata dalla presenza di uno spirito cattivo: Gesù la guarisce e lei lo seguì come discepola. Il tema meriterebbe un approfondimento che rimandiamo ad altre occasioni.

Così il vangelo di Luca: «una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Luca 7,36-50). Questa figura di donna, che non ha nome nel Vangelo, viene poi confusa con Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro, che «prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» (Giovanni 12,3-8). Ma tutto questo esula dai documenti in nostro possesso, che ci restituiscono il vero volto di Maria di Magdala.




L’ordinamento canonico e il fine soprannaturale che lo contraddistingue

santa-sofiadi Francesco Romano • La specifica originalità dell’ordinamento canonico lo contraddistingue dagli ordinamenti civili. La norma canonica ha la sua fonte nella Rivelazione divina che le conferisce un carattere e un fine soprannaturali del tutto estranei a quella secolare.

Il principio che ha sempre ispirato l’ordinamento della Chiesa è infatti la salus animarum che il vigente Codice di Diritto Canonico ripropone al can. 1752 come suprema lex della Chiesa che perpetua nel tempo la missione che Cristo le ha affidato. L’esigenza suprema dell’essere e operare della Chiesa viene indicata dal Legislatore come la strada maestra che conduce alla salvezza.

Emerge con evidenza la dimensione pastorale del diritto canonico che per sua natura non tollera commistioni con principi e orientamenti degli ordinamenti statuali ispirati da altre finalità. Il Papa S. Paolo VI emblematicamente affermava a questo proposito: “iuridica instituta societatis civilis nequeunt sine discrimine in Ecclesiam transferri” (Disc. 4 dicembre 1972).

Dalla storia delle fonti canoniche possiamo apprezzare, al contrario, quale sia stata l’influenza nell’ordinamento civile dell’etica cristiana e della dogmatica canonista con norme che regolavano i rapporti tra clero e laicato, tra potestà sacra e potere temporale.

Mentre la decadenza della legislazione imperiale e delle strutture civili si avviavano verso un irreversibile declino, la Chiesa si imponeva con un ruolo di supplenza. Per oltre un secolo, dal 425 al 550, le costituzioni di Teodosio, Valentiniano e Giustiniano si erano sforzate di tutelare l’unità della tradizione giuridica romana, mentre il diritto romano classico si stava allontanando inesorabilmente dalla sua purezza identitaria, soprattutto per l’affermarsi da parte della Chiesa dell’etica cristiana e della testimonianza di vita dei cristiani. Questo lo si ricava dall’analisi di alcuni istituti giuridici del diritto canonico e civile, in particolare i privilegia ecclesiarum.

Uno dei privilegi che più si impose nel diritto civile fu il privilegium fori che l’Autorità imperiale riconobbe alla Chiesa non per cedevolezza o favoritismo, ma come esigenza legata alla missione pastorale del clero sottraendolo ai tribunali secolari. Teodosio e Valentiniano, cesari nel 425, ornarono il clero di tale distinzione e prerogativa ripristinando quelle leggi costituzionali garanti dell’immunità ed esenzione delle persone ecclesiastiche da qualunque pubblica secolare autorità dell’Impero: “Fas nim non est, ut divini muneris ministri temporalium subdantur arbitrio”. L’esercizio della potestà giudiziale dei Vescovi nelle cause contenziose e penali che vedevano coinvolti i chierici rafforzava la disciplina ecclesiastica attraverso questo privilegio non per indulgere a favoritismi e protezioni di stampo corporativo, ma come strumento di attuazione della missione salvifica all’interno della societas fidelium.

Il messaggio cristiano è il fulcro su cui da sempre ha fatto leva l’ordinamento canonico e che lo ha contraddistinto da tutti gli altri mettendo al centro il principio di carità, misericordia ed equità. Il diritto di asilo ne è un esempio evidente. Colui che chiede asilo fonda il suo diritto sulla inalienabilità della sacralità del luogo, ma la normativa che vige nella Chiesa cattolica va oltre perché vi introduce anche la carità quale elemento che gli conferisce nuova specificità. Per lo stesso principio i Vescovi avevano il potere d’intercedere per coloro che si rifugiavano in chiesa per sottrarsi a una pena.

Il diritto canonico, eredita dal diritto romano tanti istituti, ma si distingue nettamente per lo spirito cristiano che lo connota, anche, per esempio, nell’utilizzo dell’istituto giuridico romano dell’aequitas. Per questo, non a caso, l’Ostiense definì l’aequitas canonica “Iustitia dulcore misericordiae temperata”.

La legge canonica è permeata dalla suprema legge dell’amore. La Chiesa non è soltanto società giuridica, ma è soprattutto comunione. In questo modo, diritti e doveri fondamentali e inalienabili pongono al centro la persona quale soggetto primario di obbligazioni e diritti.

L’inizio del percorso di cristianizzazione del diritto romano postclassico nel IV secolo segna anche l’inizio di avvicinamento di questi al diritto canonico con la recezione di nuovi istituti giuridici di ispirazione cristiana. Un esempio lo troviamo nel matrimonio nel diritto romano il cui vincolo restava affidato all’arbitrio dei coniugi, mentre sotto l’influsso dell’annuncio evangelico, nelle Costituzioni di Giustiniano e nelle Novelle la possibilità di divorziare iniziò a richiedere almeno una motivazione per poi orientarsi verso l’affermazione del principio di indissolubilità voluto dal Creatore.

L’eredità del diritto romano si coniuga con l’insegnamento cristiano della Chiesa e con la penetrazione delle norme canoniche, come una sorta di osmosi fino a trasfondere valori che trovano la sintesi nell’amore fraterno elevato a legge suprema. La Giustizia e l’equità diventano sinonimi di legge cristiana. Nella legislazione teodosiana il cristianesimo si fa portatore di valori rivoluzionari tra i quali la carità è l’anima che da nuovo senso e finalità alle norme antiche e nuove. Ricordiamo quindi l’equità che si coniuga con la misericordia, mentre la schiavitù vede attenuare il suo rigore fino a diventare incompatibile con i valori del cristianesimo.

Le costituzioni imperiali recepiscono norme dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Si afferma con le costituzioni teodosiane l’istituto dell’episcopalis audientia che pone il Vescovo con i suoi presbiteri al centro della vita sociale nell’ambito che tocca l’esercizio della giustizia e della carità, svolgendo una potestà giurisdizionale originaria e non di derivazione secolare. Il riconoscimento dell’autorità imperiale ai pronunciamenti del Vescovo era anche un chiaro segno della sua indiscussa autorevolezza e competenza rispetto ai giudici laici nell’interpretare e applicare norme che ormai si andavano identificando come legge cristiana.

Sotto l’influsso del cristianesimo il diritto romano culminante nell’epoca postclassica si va modificando nell’accogliere i principi dell’etica cristiana e di quegli elementi strutturali necessari a far funzionare la compagine sociale di fedeli. Nel codice teodosiano e giustinianeo possiamo cogliere elementi funzionali alla vita della Chiesa che si afferma nel ruolo di supplenza nel colmare nell’ordinamento civile le lacune legate alla diffusione del messaggio evangelico e alle sue esigenze calate nella vita concreta. Dall’altro lato l’ordinamento canonico, pur recependo alcuni istituti giuridici da quello romano, se ne distanzia nella sostanza per l’impostazione che riceve dall’insegnamento cristiano dell’amore fraterno elevato a suprema legge che contraddistingue la Chiesa nel suo essere e operare per la missione che Cristo le ha dato, cioè la salus animarum. L’ordinamento canonico, con la sua fonte nella Rivelazione divina, ha continuato a mantenere questa sua identità che lo contraddistingue per il carattere e il fine soprannaturali da perseguire rispetto alla norma secolare.




La sana democrazia nel mondo islamico: illusione o realtà?

La partenza del Califfo Abdülmecid II

La partenza del Califfo Abdülmecid II

di Mario Alexis Portella Molti politici occidentali e membri della Chiesa Cattolica (latina) sostengono, dopo l’appello lanciato nel 2015 dall’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, al fine di integrare “l’Islam politico” in Europa, la compatibilità tra la democrazia e l’Islam. Costoro ritengono possibile la coesistenza fra la religione islamica e la società occidentale, vale a dire son convinti che gli Stati islamici possano accettare e sviluppare una sana democrazia, salvaguardando e promuovendo i diritti fondati sull’equità. Questa tesi si sta manifestando in modo sempre più insistente in virtù del dialogo interreligioso odierno tra la Sede Apostolica e i vari rappresentanti del corpo politico-islamico. Il loro punto di riferimento è, in parte, il modello turco, che è rappresentato da una forma di stato repubblicana, democratica e laica, con una popolazione a maggioranza musulmana. L’ironia della storia è che tale modello fu realizzato da Kemal Mustafa Atatürk, il quale, convinto che il progresso della Turchia dipendesse dalla separazione tra la legge civile e quella religiosa. Egli abolì il califfato—già unito all’ufficio del sultano dal 1577—di Abdülmecid II nel 1924, con la completa estromissione “dell’Islam politico” e col rifiuto di qualsiasi dialogo con le loro autorità religiose.

Questa vicenda ci fa capire che l’Islam storicamente nasce come una comunità politica e religiosa in cui non esistevano né istituzioni, né clero, né cariche direttive, giacché il profeta Maometto era l’unico depositario ed interprete di una legge divina e trascendente che governava tutte le attività umane. La comunità islamica si è poi evoluta costituendo simultaneamente una struttura politico-giuridica ed un insieme istituzionalizzato di mandati religiosi, che si è tradotto in una nazione teocratica. Come capo di uno stato monocratico, il Profeta emanò norme che rendevano il corpo politico inseparabile dalla religione imposta. Coloro che desideravano essere membri della comunità islamica furono obbligati ad accettare la dottrina di Maometto con una professione di fede per rimanere in vita; insomma, dovevano necessariamente diventare e restare musulmani. Qualsiasi separazione dall’unica religione riconosciuta sarebbe stata presa come un tradimento della comunità politica che su tale religione era edificata. Ma come già accennato, per Atatürk l’Islam rappresentava la causa principale dellostacolo principale allintroduzione di innovazioni politico-sociali, civilizzatrici e tecniche. Con l’abolizione del califfato, che contestualmente abrogò tutti e due l’Impero Ottomano e l’eredità universale politica-religiosa del profeta Maometto, la Turchia, iniziò l’era della laicità, cioè di rispetto dei fondamentali diritti e doveri legati alla dignità della persona.

Alcuni studiosi paragonano la democrazia nel mondo islamico alla sana laicità di uno Stato democratico e, come accennato, guardano alla Turchia. Il concetto della sana laicità, come disse papa Benedetto XVI, richiede che lo Stato «da una parte, riconosca a Dio e alla sua legge morale… [però] dall’altra, affermi e rispetti la ‘legittima autonomia delle realtà terrene’, intendendo con tale espressione, come ribadisce il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes, che ‘le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradualmente deve scoprire, usare e ordinare’». Questa nozione è inimmaginabile per un musulmano poiché la sua religione, come dettata dalla sharia—fondata sulla disuguaglianza tra musulmano e non-musulmano, tra uomo e donna, tra uomo libero e schiavo—deve necessariamente regolare ogni aspetto della propria vita secondo le norme stabilite quattrocento anni fa. Tale osservanza giuridica fu unanimemente riconosciuta da tutti i paesi islamici (incluse la Turchia e la Palestina) nell’articolo 24 della Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam (1990): “Tutti i diritti e le libertà enunciate nelle presente Dichiarazione sono soggette alla Shari’ah Islamica”. E questo perché “Allah non associa nessuno al suo dominio” (Sura 18, 26).

In quei paesi islamici dove la sharia non è più norma civile, ad esempio il Regno Hascemita di Giordania, essa costituisce pur sempre un punto di riferimento per quanto concerne il matrimonio, l’eredità, la mancanza di libertà religiosa, ecc. Anche quegli Stati che hanno adottato una struttura “democratica” di governo, come l’Iran, l’Egitto e il Regno di Marocco, di fatto applicano una legislazione draconiana, come la pena di morte per l’apostasia o la soppressione del diritto di parola e di stampa, non dissimile da quella degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita dove la sharia è legge prevalente.

Tornando allo Stato laico di Atatürk, si deve ricordare che, prima dell’abolizione del califfato, l’Impero Ottomano nel 19° sec. presentava un sua propria caratteristica : la capacità delle élites e di alcuni sultani illuminati di capire che la modernizzazione e l’occidentalizzazione costituivano l’unico modo per ribaltare il ruolo subordinato dell’Impero rispetto all’Europa. A queste intuizioni, seguirono una serie di riforme che iniziarono a laicizzare e occidentalizzare il paese, e dettero il nome il nome alla cosiddetta epoca delle Tanzimat (riforme). Furono adottati alcuni codici europei, importando così uno stile di vita occidentale. Ciò nonostante, la sharia rimase in vigore, come pure il potere del califfo, perché, eliminandoli, ne sarebbe derivata perdita dell’identità islamica e la loro autorità politica, senza di che, per esempio, i turchi non avrebbero potuto dichiarare lecitamente le fatwa, gli ordini a perseguitare i cristiani armeni e assiri, che sfociarono nel noto genocidio.

La democrazia, come noi la concepiamo in occidente, è basata sul modello pensato ed attuato dai Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America, che garantisce la terzietà della legge rispetto alle varie confessioni religiose che godono, però, della libertà d’esercizio, come sono garantiti la libertà di parola e di stampa, il diritto di riunirsi pacificamente e il diritto di appellarsi al governo per correggere i torti. Tale sistema, inoltre, proibisce di “emanare qualunque legge che riconosca come unica ufficiale qualsiasi religione”. Mi permetto qui di chiarire che la separazione tra chiesa e Stato non significa separazione tra Stato e Dio: infatti, è scritto nella Dichiarazione di Indipendenza che “le Leggi della Natura e del Dio della Natura” attribuiscono all’uomo “inalienabili diritti” dotati dal Creatore — un principio quasi del tutto dimenticato nell’Europa occidentale. Comunque, per un cristiano, uno Stato laico e democratico è compatibile con la sua dottrina, ma non così per un musulmano. Tale concetto non soltanto è estraneo alla cultura islamica ma è anche considerato, come si è già detto, un tradimento della comunità stabilita dal Profeta dell’Islam.

Atatürk uscendo dal parlamento dopo il 7° anniversario della sua istituzione (1930). A sua sinistra,  İsmet İnönü, 2° Presidente della Turchia.

Atatürk uscendo dal parlamento dopo il 7° anniversario della sua istituzione (1930). A sua sinistra, İsmet İnönü, 2° Presidente della Turchia.

Nonostante le innovazioni politiche di Atatürk, che aveva ridotto l’Islam ad una pura questione personale e privata, la popolazione, per la maggioranza contadina e musulmana, rimase legata alle tradizioni e non riuscì ad interiorizzare in tutto i moderni modelli europei. L’eredità di questi sconvolgimenti politici e sociali si riflette, a tutt’oggi, specialmente a causa della politica pro-islamica del Presidente Recep Tayyip Erdogan, nel disorientamento ideologico e culturale del popolo, consapevole di non essere partecipe né della civiltà occidentale né di quella medio-orientale, manifestandosi assolutamente incapace di incarnare serenamente un’identità alternativa alle prime due.

L’idea che l’Islam si possa integrare nello Stato democratico, oppure che la laicità, che è stata il pilastro del governo turco basato sull’equità, possa coesistere in uno Stato islamico, è pura illusione. Ecco perché sin dalla sua ascesa al potere, Erdogan, utilizzando la stessa struttura democratica di Atatürk, ha messo in atto una serie di riforme col proposito di trasformare la Repubblica della Turchia in uno Stato islamico. Così infatti si è espresso: «Non si può essere laico e musulmano! Sarà o musulmano o laico! Quando entrambe le identità cercano di convivere, creano il magnetismo inverso [cioè, si respingono l’un l’altro]…. E perché mai? Perché Allah, il creatore del musulmano, ha il potere assoluto di governo! La sovranità appartiene al popolo solo quando va a votare [ogni cinque anni]! Ma sia materialmente ed in sostanza, la sovranità appartiene incondizionatamente e sempre ad Allah»!»! Malgrado tali premure islamici, la rivoluzione kemalista continua a incoraggiare molti turchi, anche cittadini in paesi islamici che, pur subendo persecuzioni, lottano per lo Stato laico e la dignità della persona.




Nuova evangelizzazione e sinodalità. Quaranta vescovi italiani a Loppiano

Vescovidi Alessandro Clemenzia • «Il fare esperienza del camminare insieme porta a un cambiamento di prospettiva anche sul modo in cui ciascuno di noi guarda se stesso: ci fa vedere che la nostra vita ha senso solo se è in relazione, in quanto l’altro ci è necessario. Tuttavia non ci basta più neanche stare l’uno accanto all’altro; diventa decisivo comprendere “come” stare l’uno accanto all’altro».

Con queste parole il segretario della Conferenza Episcopale Italiana, Mons. Stefano Russo, ha salutato una quarantina di vescovi italiani, pervenuti a Loppiano, cittadella internazionale del movimento dei Focolari, al termine di un convegno promosso dal Centro Evangelii Gaudium dell’Istituto Universitario Sophia, intitolato: “Nuova tappa dell’evangelizzazione e sinodalità: il rinnovamento ecclesiale alla luce della Evangelii gaudium” (18-21 febbraio 2019).

Nel saluto inviato ai partecipanti, il cardinale Gualtiero Bassetti ha scritto che «non è più sufficiente “pensare la sinodalità” o “parlare di sinodalità”. Dobbiamo pensare, parlare, agire sinodalmente». Tale esortazione del presidente della CEI ha trovato una piena corrispondenza nel cuore dei vescovi presenti, come è stato da loro stessi comunicato nelle conclusioni dell’ultimo giorno.

I lavori si sono aperti con i saluti del Preside dell’Istituto Universitario Sophia, Piero Coda, di Jesús Morán, co-presidente del movimento dei Focolari, e del vescovo di Fiesole Mario Meini, il quale ha poi tenuto un intervento introduttivo su “La Chiesa italiana dopo il Convegno di Firenze”.

Sono stati poi presentati la genesi, lo sviluppo e la natura del Centro Evangelii Gaudium (CEG). Dopo un’introduzione del coordinatore accademico, ha preso la parola il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila e presidente del consiglio scientifico del CEG, il quale ha offerto alcune linee essenziali per comprendere e vivere l’Evangelii Gaudium; è necessario “con-muoversi”, vale a dire sintonizzarsi con quanto afferma l’Esortazione apostolica, alla luce delle quattro formule assiomatiche: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte. Petrocchi ha così indicato il compito del CEG: irradiare, nella Chiesa e con la Chiesa, una nuova cultura, attraverso l’arte del “pensare insieme”, alla scuola di Maria.

Di seguito ha preso la parola p. Lorenzo Prezzi, direttore di Testimoni delle edizioni Dehoniane e membro del consiglio scientifico del CEG, il quale ha presentato gli apporti più fecondi dell’Evangelii gaudium: la dimensione carismatica, la parrocchia post-tridentina, una minoranza accogliente, una politica dalla carità. Ha concluso così: «L’alveo complessivo a cui ricondurre i possibili contributi del CEG alla Chiesa italiana è indicato da due vettori molto enunciati e non sempre praticati: il discernimento comunitario da un lato e il processo della sinodalità dall’altro».

Il giorno seguente è stata presentata ai vescovi l’esperienza accademica dell’Istituto Universitario Sophia, con la testimonianza di docenti e di studenti. Grande interesse ha suscitato l’intervento di Piero Coda: “Sinodalità esercizio di Chiesa”. Ispirandosi alle affermazioni magisteriali di Papa Francesco e al documento della Commissione Teologica Internazionale, “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, Coda ha presentato la sinodalità come kairós da cogliere e accogliere nell’oggi, come l’esercizio di Chiesa in cui entrare e far entrare il Popolo di Dio. Egli ha poi individuato cinque sentieri d’impegno, divenuti poi oggetto di discussione per gruppi da parte dei vescovi: la riscoperta dei vescovi, e dei presbiteri con loro, artisti e artigiani della sinodalità; l’esigenza di dare voce a una vera e propria scuola del Popolo di Dio, richiamandosi al discorso pronunciato da Papa Francesco a Loppiano; l’urgenza di formare alla sinodalità come esercizio di Chiesa, educando a quella “cultura dell’incontro” e a quel “coraggio dell’alterità”, tanto auspicati da Papa Francesco; l’avvio di una nuova stagione nella costruzione collettiva di una democrazia realmente partecipativa e popolare, educando sempre più a sentire il desiderio di trovare luoghi in cui esercitarsi al dialogo; e, infine, la necessità di un processo sinodale che coinvolga in un cammino comune tutte le Chiese in Italia.

Al termine dei lavori di gruppo su questi temi e a un momento di plenaria, sono stati presentati ai vescovi i percorsi di ricerca e di formazione già avviati dal CEG, in vista di un rinnovamento ecclesiale: una scuola comunitaria di pastorale alla luce dell’Evangelii gaudium; un corso per formatori al ministero presbiterale; corsi di formazione all’impegno sociale e politico e all’ambito del lavoro e dell’economia; percorsi di formazione alla cultura dell’incontro.

Ogni giornata è stata aperta da una meditazione: la prima, tenuta da Renata Simon, consigliere centrale per la Sapienza e lo studio del movimento dei Focolari, su “la mistica del noi”; la seconda, tenuta da Ide Manici, del Centro dei movimento dei Focolari e membro del consiglio direttivo del CEG, su “L’unità e la cultura del dialogo”.

Decisivo è stato l’intervento di Mons. Vincenzo Zani, segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il quale ha presentato le esperienze e le prospettive del Sinodo dei giovani, sottolineando «tre aspetti significativi sui quali la Chiesa è chiamata a compiere scelte chiare e coraggiose»: essere accompagnatori di qualità, preparare nuovi educatori per rispondere alle sfide e alla complessità della realtà, fare della Chiesa una casa per i giovani.

Nelle conclusioni, i vescovi hanno mostrato sincera gratitudine agli organizzatori dell’evento, per aver offerto loro un luogo in cui poter riflettere sulla loro ministerialità e sull’urgenza di un rinnovamento ecclesiale, alla luce dell’Evangelii gaudium, proprio a partire dall’episcopato.




Israele nel deserto. La Quaresima e il discernimento

pellegrinaggio-giovani-a-romadi Francesco Vermigli Go down, Moses, way down in Egypt’s land. Tell old Pharaoh: Let my people go!, canta un celeberrimo spiritual; reso ancora più celebre dall’esecuzione magistrale di Louis Armstrong (video). Lasciar andare il popolo è il leitmotiv di ogni dialogo tra Mosè e il Faraone e tra il Faraone e i suoi ministri, lungo il libro dell’Esodo. Ma per quale motivo, il Faraone avrebbe dovuto lasciar andare il popolo degli schiavi? Il testo dell’Esodo lo esplicita diverse volte. Così si legge ad esempio a Es 5,1: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: “Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!”». Da questo, come da altri versetti dei primi capitoli del libro, si apprende che primo obbiettivo dell’esodo è servire Dio nel culto, rendere lode e gloria al Dio che salva Israele; prima ancora che entrare nella terra promessa. L’Esodo è davvero il cammino della libertà, che ben si può applicare ai derelitti e agli oppressi di ogni epoca, come ci insegna lo spiritual. Ma questa liberazione dalla schiavitù ha senso se è per il servizio a Colui, che solo è degno d’essere servito dall’uomo.

In maniera appropriata, l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto può considerarsi dunque come la metafora di ogni vita pensata in relazione con Dio. Perché uscire dall’Egitto delle nostre schiavitù per andare incontro al servizio per la lode e la gloria di Dio, è vocazione che accomuna tutti: vocazione dell’uomo è servire Dio nella concretezza della propria vita; ad ogni uomo è richiesto di cercare e di trovare la via determinata per servire Dio. Con Dante possiamo dire, citando il salmo 113: «In exitu Isräel de Aegypto / cantavan tutti insieme ad una voce / con quanto di quel salmo è poscia scripto» (Purgatorio II,46-48).

Il cammino di Israele attraverso il deserto, è un cammino verso il servizio reso a Dio; ma è un cammino lungo e faticoso, che subisce in continuazione tanto la tentazione dell’idolatria (il vitello d’oro), quanto la tentazione della sfiducia in Dio (Meriba). A ben vedere, queste sono tentazioni che hanno un riferimento all’esistenza più profonda dell’uomo stesso: così, si direbbe che all’origine del peccato dei progenitori, sta in radice proprio la sfiducia nei confronti di Dio; quell’idea, cioè, secondo la quale Egli è da considerare l’avversario da cui guardarsi, non tanto l’alleato, che crea, salva e redime. Il cammino dell’Esodo è dunque in continuazione sotto la pressione della sfiducia e dell’idolatria; e quest’ultima, nel vitello d’oro deve essere intesa come il modo umano, troppo umano di rendere presente Dio in mezzo al suo popolo.

Il tempo di Quaresima che stiamo per iniziare, può essere pensato alla luce della storia che il Signore scrive con il popolo d’Israele dall’Egitto alla terra promessa e nella sua permanenza nel deserto. La Quaresima chiama a riconoscere – contro le tentazioni a cui va incontro il popolo nel lungo cammino della libertà – che Dio è degno di fiducia e che primo passo della purificazione penitenziale, passo decisivo, passo imprescindibile è la distruzione degli idoli. Ma fiducia in Dio e distruzione dell’idolatria a ben vedere sono la grammatica che accomuna il tempo di Quaresima ad ogni cammino discernimento; tema, quello del discernimento, su cui recentemente sono tornato più volte in questa rivista online (ad esempio, nel numero di dicembre scorso: Il sinodo sui giovani: ascolto, discernimento, cammino).

Il tempo di Quaresima, se vissuto nell’impegno che mira alla conversione del cuore e della vita, e la pratica costante e paziente del discernimento sono chiamate al riconoscimento comune circa il carattere veritativo della Parola di Dio: distruggo gli idoli e mi pongo nella confidenza nei confronti del Signore, solo se avverto la verità di una Parola che scruta il mio cuore e lo rivela a me stesso. È una Parola che si impone alla vita dell’uomo e, quando si impone, ferisce e fa soffrire; dal momento che svela la mia vera identità e mi incita a cambiare vita. Mentre gli idoli delle genti non hanno niente da dire alla nostra vita, niente rivelano, sono muti, hanno bocca e non parlano (cfr. Sal 114,5), il Dio di Israele parla con chiarezza e verità al cuore degli uomini e alla loro coscienza.

Il giovedì dopo le Ceneri il rito romano pone all’inizio della Liturgia della Parola un brano decisivo dal libro del Deuteronomio: «io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. Oggi, perciò, io ti comando di amare il Signore, tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme» (Dt 30,15-16). Il tempo della Quaresima, tanto quanto ogni seria pratica del discernimento hanno alla base lo stupore per la verità che si impone, che ferisce, allontanando dalla mente ogni idolo e distruggendolo. È la fedeltà alla Parola di Dio che imponendosi conduce a scoprire e ad abbracciare la vocazione concreta che è richiesta a ciascuno di noi per servire il Signore.




Il Venerabile Joszef Mindszenty

06-Card_Jozsef_Mindszenty-2di Giovanni Pallanti • Il cardinale Joszsef Mindszenty, Primate di Ungheria nacque il 29 marzo 1892 e morì a Vienna il 6 maggio 1975. Ordinato sacerdote il 17 giugno 1915, dopo la prima guerra mondiale e il crollo dell’Impero austro-ungarico andarono al potere i comunisti di Bela Kun. Nel 1919 il futuro primate di Ungheria fu arrestato dal neo regime bolscevico. Il 3 marzo 1944 fu nominato vescovo di Veszprem da Pio XII. Fra il 1944 e il 1945 fu nuovamente imprigionato questa volta dai nazisti. Finita la seconda Guerra mondiale l’Ungheria diventò una repubblica socialista, succube dell’Unione sovietica. Mindszenty diventò un duro oppositore del totalitarismo comunista, che aveva anche forti correnti anticlericali nel suo seno. Fu presto oggetto di ogni tipo di persecuzione: il 26 dicembre 1948 fu prelevato in episcopio dalla polizia e arrestato. Nel frattempo Papa Pio XII lo aveva elevato al rango di cardinale, nel concistoro del 18 febbraio 1946, con il titolo di Santo Stefano al Monte Celio.

Dal giorno dopo Natale del 1948 iniziò una lunga persecuzione che vide il primate di Ungheria oggetto di ogni tipo di tortura, sia fisica che psicologica: fu picchiato per giorni, drogato e costretto ad ascoltare bestemmie, il tutto per spingerlo a confessare di aver commesso reati contro il regime comunista.  Dopo un processo-farsa fu condannato all’ergastolo. La persecuzione del cardinale Mindszenty sembrava non dover finire mai. In carcere, dove trascorse 8 anni, non poteva leggere testi sacri e aveva il divieto di inginocchiarsi. Le guardie furono sempre pronte a interromperlo se si accorgevano che recitava preghiere, anche sottovoce. Nel 1956 quando il popolo di Ungheria insorse contro il regime comunista, il cardinale Mindszenty fu liberato dal carcere. Quando le truppe sovietiche repressero nel sangue i patrioti ungheresi, Mindszenty sì rifugiò nell’ambasciata degli Stati Uniti a Budapest.

Quando cominciò il dialogo della Santa Sede con i regimi comunisti dell’Europa centrale e orientale al fine di allargare le maglie della libertà religiosa, il primate di Ungheria si schierò contro la politica di Paolo VI e dell’arcivescovo Casaroli, poi cardinale. Quando Paolo VI si adoperò per liberarlo dall’esilio nell’ambasciata americana di Budapest, il regime comunista ottenne dal Vaticano la promessa del suo silenzio, che gli fu imposto in nome dell’obbedienza che il primate di Ungheria doveva al papa. Quando compì 75 anni, doveva dimettersi dall’incarico formale che ancora rivestiva. Il papa derogò a questo obbligo e solo quando compì 81 anni, Paolo VI chiese le sue dimissioni dalla cattedra primaziale di Ungheria. Il cardinale Mindszenty oppose un rispettoso rifiuto. Papa Montini lo sollevò d’autorità dall’incarico di primate. Trasferitosi dal Vaticano a Vienna, morì nella capitale austriaca pregando per il suo popolo. Il 12 febbraio 2019 Papa Francesco ha riconosciuto le virtù eroiche del cardinale Mindszenty, dichiarandolo venerabile. Una grande opera di verità che glorifica il nome di un Pastore della Chiesa che si è battuto strenuamente contro ogni totalitarismo.