Presentazione degli articoli del mese di marzo 2020

annunciazione-di-ustjugDa questo numero sulla Rivista sarà presente la rubrica «Coscienza universitaria» curata dal Gruppo FUCI di Firenze, il cui titolo è identico a quello di un libretto di Giovanni Battista Montini scritto negli anni trenta del secolo scorso, nel quale, il futuro Paolo VI, tra l’altro, notava che lo spirito di ricerca apre lo studente credente alla sperimentazione pratica di quel volto di Dio redentore e rivelatore. Andrea Drigani da un’intervista al cardinale Louis Raphaël Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei, richiama uno dei principi della dottrina cattolica: la legittima sana laicità della Stato, affermata da Pio XII e confermata dal Vaticano II. Dario Chiapetti attraverso il libro di Marco Botta riflette sulla spogliazione di Francesco d’Assisi da ritenersi come rinuncia ai suoi pregiudizi, a ogni difesa umana, alla sua immagine di santo, ai suoi meriti per una piena conformazione a Cristo. Stefano Tarocchi nella circostanza della morte del biblista Benito Marconcini, primo Preside della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ne ricorda l’acribia dello studioso, assieme alla sensibilità e alla passione per la Parola di Dio, ma anche della sua comunicazione a tutti i battezzati. Giovanni Campanella presenta un originale saggio di Nino Galloni circa il ruolo dalla «moneta non a debito» e sull’eventuale instaurazione di doppio regime monetario per combattere l’inflazione e la disoccupazione. Francesco Romano si sofferma sui quattro «sogni» di Francesco, che caratterizzano l’Esortazione «Querida Amazonia», la promozione dei diritti dei popoli originari, la difesa della ricchezza culturale, la custodia della bellezza naturale, l’impegno delle comunità cristiane per un volto «amazonico». Gianni Cioli in margine ad un convegno organizzato, presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, dalla Conferenza Episcopale Toscana sul servizio di tutela dei minori e delle persone vulnerabili sottolinea lo stretto collegamento tra questa tutela e la teologia nei suoi elementi ecclesiologici, morali e pastorali. Carlo Parenti di fronte a dei linguaggi, degradati e volgari, presenti in alcuni dibattiti, rammenta lo stile linguistico di Giorgio La Pira: comunicativo, rispettoso, poetico e ottimista, all’insegna di un’autentica pedagogia cristiana. Mario Alexis Portella svolge alcune considerazioni su due richieste emerse durante i lavori del Sinodo dell’Amazonia: il superamento del celibato clericale e il diaconato femminile, che il Papa, in conformità con una consolidata tradizione ecclesiale, ha ritenuto di non recepire nella sua Esortazione apostolica. Francesco Vermigli ripropone l’attenzione sul commento di San Bernardo di Chiaravalle al Cantico dei Cantici, un’opera diffusissima, nella quale il «Doctor mellifluus» vede nell’amore la descrizione del rapporto che stringe l’anima a Dio: Dio ama l’uomo e l’uomo ri-ama Dio. Giovanni Pallanti recensisce il libro-intervista di Luigi Maria Epicoco con Papa Francesco su San Giovanni Paolo II, nel quale si intersecano le vite di due preti che hanno fatto di tutto per non fare carriera. Antonio Lovascio partendo da due Rapporti, dell’Istat e dell’Eurispes, trascurati dai media, affronta le due gravi questioni italiane: il calo demografico e l’emigrazione dei giovani all’estero che necessitano di una urgente risposta da parte delle istituzioni politiche, come da tempo sollecita la Conferenza Episcopale Italiana. Stefano Liccioli introduce alla visione di un film-documentario su Lourdes, realizzato da due registi francesi non credenti Thierry Demaizière e Alban Teurlai, uno spaccato della condizione umana soprattutto quella più fragile e ferita nel corpo e nello spirito, ma anche sulla fede, l’amore e la speranza. Leonardo Salutati prosegue la storia dello Stato sociale, una storia poco conosciuta ma di grande utilità anche per i nostri giorni, illustrando l’opera di un economista liberale inglese William Henry Beveridge (1879-1963) autore di un celebre Rapporto che contiene molti elementi che convergono con la Dottrina Sociale della Chiesa. Alessandro Clemenzia annota sull’intervento del Papa alla riunione plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica nel quale ha proposto degli elementi fondamentali per un proficuo processo educativo che deve essere dinamico, ecologico, inclusivo, pacificatore e di squadra. Carlo Nardi studia il rapporto tra la preghiera e la tradizioni popolari toscane, dove insieme all’ironia e al sarcasmo emerge pure la sobrietà e la semplicità di un culto sincero.




In preghiera ed altre umanità

unnameddi Carlo Nardi • Grazie alla ‘Associazione Giglio Amico’ nelle care persone del presidente Alberto Panizza e di Marco Viani, dotto e semplice, e buono, ho voluto inviare a Il mantello della giustizia in rete alcune mie parole: In preghiera, in Toscanità. A cura di Marco Viani, Angela Manetti, Giovanni Gozzini. Prefazione di Sergio Zavoli, Firenze, appunto ‘Associazione Giglio Amico’, Giunti 2016, e già in stampa fin dall’ottobre (pp. 120-122).

In preghiera.

Mica facile condensare in poche pagine il sentire umano più consono con il divino presente in un popolo, quello toscano, peraltro multiforme quanto a luoghi e tempi! Ed essere consono con il divino vuol dire, in parole povere, che la preghiera è ‘uscio e bottega’ col Padreterno. Metto però le mani avanti: mi raccapezzo un po’ circa la preghiera nel cattolicesimo. Di altre fedi non sono un intenditore sì da parlarne con cognizione di causa. Ma ne sono più che curioso, e sono lieto di essere in compagnia di numerosi oranti.

Per dare il via ai pii toscani passati e presenti, e probabilmente anche futuri, ho richiamato alla mente alcuni proverbi o modi di dire, capaci di esprimere l’ethos di un popolo composto da illustri e sconosciuti, dalla Lunigiana alla Maremma. Parlare di preghiera è cosa seria, molto seria. Nondimeno, in Toscana, si maneggia la preghiera col sorriso sulle labbra: di solito non c’è il ghigno del sarcasmo, ma un’ironia in pelle in pelle. Che sia retaggio dell’ineffabile riso che increspa le tenere guance del sornione Apollo di Veio, plasmato e venerato dai nostri avi etruschi?

La mentalità toscana, anche in fatto di preghiera, ha bisogno di distinguere. Lo fa pensare un detto, grassoccio, ma in tema: Icché centra il culo con le quarantore?! con punto interrogativo, come grammatica comanda, rafforzato dall’esclamativa. A questo proposito il probo lettore si aspetta una delucidazione. Non solo il secondo sostantivo aveva a che fare con una chiesa. Si racconta: in una pieve, tra il pigia pigia dei fedeli accalcati per le funzioni delle quarantore, un focoso pischello allungò una mano a pizzicottare una ragazza «in parte ˗ non s’adonti il poeta ˗ ove non è che luca» (Inferno 4,151): lei, casta Figlia di Maria o risoluta suffragetta, si voltò di scatto stizzita a fulminare il gradasso.

L’obiezione ricorda chi di toscani s’intendeva alquanto: Curzio Malaparte con un epitaffio in apertura al terzo capitolo di Maledetti Toscani, parole immediate come una fotografa sul «modo d’inginocchiarsi, che è piuttosto uno stare in piedi con le gambe piegate». È una frase da decodificare: si tratta di un rifiuto formale d’un doveroso atto di latria oppure di bisogno di libertà, dono del buon Dio che ci è babbo? O che sia un tentativo un po’ goffo di salvar capra e cavoli? Il fatto è che prima della riforma seguita al Vaticano II si scialava in genuflessioni: anche nel passar davanti alla cattedra episcopale, assente l’inquilino, era prescritto il ginocchio destro a terra in un atto che non era certo di adorazione nel senso teologico del termine.

Non solo. Nel mariolo Malaparte, pratese, mi sembra di annusare effetti toscani della Regolata devozione de’ cristiani di Ludovico Antonio Muratori, libro caldeggiato per il clero toscano dal granduca Pietro Leopoldo, auspice monsignor Scipione de’ Ricci, vescovo di Prato e Pistoia, anno 1787. Difatti è da considerare l’ascetica dello specifico giansenismo toscano: come quella del priore Marchionni di Querceto a Sesto Fiorentino, teologo di fiducia del Ricci, accusato di una mala morte dagli zelanti conservatori e invece morente con parole carpite dalle Scritture secondo i riformatori.

Se nell’Ottocento e nel primo Novecento prevalse una vistosa devozione in compagnie, confraternite e pie unioni, a Firenze l’incisiva figura episcopale del card. Elia Dalla Costa mirava alla sobrietà (1931-1961). Ad un parroco che lo informava di una stillazione sanguinolenta da un’immagine del Sacro Cuore, Dalla Costa avrebbe detto ˗ il condizionale è d’obbligo ˗: «Signor priore, la chiuda in un armadio. Quando vede i rigoli grondare, allora mi chiami». Ci furono fiotti? O no? Per il cardinale era meglio non riconoscere un miracolo vero che riconoscere un miracolo falso.

D’altra parte, nonostante la resistenza dei porporati fiorentini Antonio Bacci e Domenico Bartolucci, la Toscana in generale ha recepito la riforma liturgica conciliare all’insegna della “nobile semplicità” e della massima partecipazione. Già la messa in Santa Maria del Fiore presieduta dal card. Ermenegildo Florit in occasione del Settimo centenario dalla nascita di Dante il 14 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Concilio ecumenico per l’Immacolata, fu una concelebrazione: rispetto alle antifone seguite da un solo versetto del salmo lo si cantò integralmente, in una celebrazione versus populum, già auspicata negli anni trenta dal liturgista del Dalla Costa, il canonico inglese Reginald Pilkington.

Certo, nel Settecento c’erano stati segni di reazione alla regolata devozione con il movimento Viva Maria, come a preparare la restaurazione ottocentesca con superfetazioni curiose, credulone e pompose, talvolta per una iper-identificazione cattolica. Sono atteggiamenti peraltro ricorrenti. A titolo d’esempio ricordo qualche decennio fa la devota trovata del cosiddetto dolce di Padre Pio, probabilmente gradevole davvero, ma confezionato con passaggi rituali che sanno di “vane osservanze”, come si leggerebbe in qualche manuale di teologia morale del tempo che fu. E non è del tutto liscia la coabitazione dei due ordinamenti liturgici nello stesso rito romano. Del quale mi vien da dire pensosamente «mezzo lesso e mezzo arrosto per Christum dominum nostrum», riecheggiando una barzelletta: quella del molto reverendo pievano che si era scordato di dire alla perpetua, prima della messa grande, come cucinare il cappone. La fantesca allora, a messa avanzata fece pervenire il quesito al celebrante tramite un dispaccio bisbigliato da un chierico vispo al pio orecchio sacerdotale. Al che il reverendo avrebbe risposto rimescolando alla bell’e meglio latino e volgare nel prefazio con le parolette di cui sopra, solennemente cantate.

Qualcuno mi dirà: È buono il lesso ed è buono l’arrosto? Ma? Il papa, in amabili profondi conversari col direttore della Civiltà Cattolica, il 19 agosto 2014 parlava di «aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità», quella del Vetus ordo, che tradurrei con ‘vecchio ordinamento’, anche se la parola sa un po’ di Ministero della pubblica istruzione o come ora si chiama. Se poi il ‘vecchio’ è anche ‘straordinario’, chi lo sente chiamare così non pensa tanto al significato giuridico della parola: si fa un’idea di fuor dell’usuale, da vip e perciò di sciccoso. Invece, per come ricordo, mi viene in mente: «io c’ho la mi’ biondona, / la un sarà scicche, l’è forse un po’ cialtrona, / ma io l’adoro senza reticenze …»: con Edoardo Spadaro nella Sacra congregazione de’ riti? Tutto pol essere?

Anche il toscano ha i suoi santi. Eccome! Per questo non ne rammento alcuno. Scrivo da Firenze, dalla dominante del tempo che fu, e se omettessi per dimenticanza santi o santuari, e relativi preti, frati e monache, e zelanti soladizi … ci sarebbe da rischiar grosso. Perché anche in Toscana qualche volta i santi sono tanto potenti da oscurare il Principale. A Castelfiorentino i confessori si sentivano dire: «Qualche resia sì: alla Verdianina mai!». Invece certe beatificazioni devono sortire nel libero popolo di Dio stiracchiate recezioni, se fino a poco tempo fa si udiva: «Priore, qualche piononino in atto di rabbia»: si capisce perché, senza bisogno di ripassare la storia del Risorgimento.

Effetti? Sono questioni di cuore su cui non entro o in punta di piedi, facendomi aiutare dal Fucini di cui riporto pari pari una poesia.

Ave!

fucini_renato-221x300Somigliante al ronzìo d’un alveare
Che a sciamar si prepara
Colmo di pace amara,
Giunge al cuor mio, col vento della sera,
Il suon d’una preghiera.
Oh, fortunati voi, voi che pregate!
Quanta pioggia di speme e di conforti
Scende dal Ciel! Van per l’eterna via,
Cinte di stelle alate,
L’ombre de’ nostri morti.
Ave Maria:<
Ave, porta del Ciel, stella del mare …
Oh, fortunati!… Ed io non so pregare! (da Ombre, 33)

Parla di preghiera anche una memoria che devo a una preziosa confidenza del padre Giovanni Roncari, ora vescovo di Sovana Pitigliano e Orbetello: San Piero a Ponti, prima metà del Novecento. Devote persone si affrettano a informare il priore, che la Cesira – mi vien di chiamarla così – l’ha la figliola sopra parto da diverse ore e l’è in chiesa davanti alla Madonna a raccomandarsi e a vociare come una barrocciaia, e a dire alla Madonna certe parole, sor priore, certe parole che son mezzi …, più che mezzi moccoli. «Lasciatela fare, lasciatela dire. Cose tra donne», rispose prontamente il reverendo e sospirando continuò a dire il suo breviario. Tacque e lasciò gridare. E non interruppe quella preghiera, e nemmeno la sua.

Mi pare che non ci sia nulla da aggiungere.

Carlo Nardi

P.S. Difatti nel 6 marzo 2016 mi ero messo di buzzo bono a scrivere, che di solito son piuttosto piaccicone, e invece non mi pareva vero che già nell’8 marzo avessi inviato lo scritto a Marco Viani.

Per un patto educativo globale

cq5dam.web.800.800 (1)di Alessandro Clemenzia • L’educazione è un processo tipicamente umano, da cui nessuna cultura può sentirsi esente, e che necessita di un metodo attuativo sempre rinnovato, inverato tanto dall’educatore quanto dalla reale condizione di colui a cui egli si rivolge. L’emergenza educativa è un tema di grande attualità che investe non soltanto il mondo giovanile, ma anche gli adulti, coloro che vivono in quello stadio esistenziale denominato “maturità”.

È capace il cristiano, proprio alla luce della sua esperienza ecclesiale, di offrire un proprio peculiare metodo educativo, rivolto alla persona nella sua globalità e a prescindere da una determinata interlocuzione generazionale?

Il Papa, nel discorso rivolto ai partecipanti all’assemblea plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica (20 febbraio 2020), ha offerto alcuni spunti interessanti proprio per coloro che si muovono nell’ambito educativo.

Francesco ha da subito sottolineato la dinamicità del processo educativo: esso, infatti, non è una mera trasmissione di contenuti, ma «è una realtà dinamica, è un movimento che porta alla luce le persone», orientato al loro pieno sviluppo in senso individuale e sociale. A partire da questa consapevolezza egli si è soffermato su alcuni tratti caratteristici dell’educazione cristianamente intesa.

La prima proprietà riguarda l’essere un movimento ecologico che, avendo al centro la persona nella sua integralità, «ha lo scopo di portarla alla conoscenza di se stessa, della casa comune in cui è posta a vivere e soprattutto alla scoperta della fraternità come relazione che produce la composizione multiculturale dell’umanità, fonte di reciproco arricchimento». Riprendendo quanto aveva precedentemente scritto nella Laudato si’, l’attenzione ecologica viene colta soprattutto nella sua accezione relazionale.

La seconda proprietà dell’educazione è l’essere un movimento inclusivo, capace cioè di accoglienza verso tutti gli esclusi, per arginare quella sempre più avanzata cultura dello scarto, e ciò «si concretizza nelle azioni educative a favore dei rifugiati, delle vittime della tratta degli esseri umani, dei migranti, senza alcuna distinzione di sesso, di religione o etnia». Pur essendo un tema di grande attualità politica, spiega il Papa, tale inclusività trova il suo fondamento nel DNA del cristianesimo: «L’inclusione non è un’invenzione moderna, ma è parte integrante del messaggio salvifico cristiano».download (1)

Per fare fronte alla crisi della dimensione comunionale dell’educazione, Papa Francesco ha indetto la giornata per il patto educativo globale, prevista per il prossimo 14 maggio, affidando l’organizzazione alla Congregazione per l’Educazione Cattolica. L’intento di tale evento è quello di ricomporre il “villaggio dell’educazione”, per ritrovarsi insieme e trovare un passo comune e rivoluzionario in vista di «un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna».

Nella medesima direzione di questo patto educativo globale va anche quella dimensione interdisciplinare e transdisciplinare, esplicitamente e caldamente suggerita e indicata dalla Costituzione Apostolica Veritatis gaudium per quanto riguarda gli studi ecclesiastici.

A ciascuna realtà accademica ecclesiale è richiesto non soltanto di assumere quanto la suddetta Esortazione Apostolica ha indicato, ma anche di partecipare all’evento del prossimo 14 maggio, non per fare presenza o non sentirsi esclusi dai giochi, ma per scommettere con coraggio su un’alleanza educativa capace di generare unità lì dove la paura della diversità ha causato una frammentarietà globale dell’umano.




Stato Sociale (2): attualità di una visione politica

Il frutto delle indagini del comitato presieduto da Beveridge fu il Report on Social Insurance and Allied Services meglio conosciuto come Beveridge Plan in quanto, come chiarito nelle prime righe del documento, mentre l’analisi del quadro complessivo della sicurezza sociale era attribuibile al comitato, le raccomandazioni che ne scaturirono appartenevano integralmente a Beveridge.

Presentato al governo il 20 novembre 1942, il 1 dicembre sarà reso di pubblico dominio, dirigendosi ai potenziali percettori delle politiche sociali, ovvero i cittadini comuni che sopravvivevano con difficoltà e stenti negli anni della guerra. Chi lo legge, vi trova il progetto di una società post-bellica più equa e generosa nella redistribuzione della ricchezza, sulla base di politiche mirate di welfare. È questo il motivo dell’immediato successo di pubblico e stampa. In un mese ne sono vendute nel Regno Unito più di centomila copie e si arriva presto al mezzo milione. Se ne stamperà l’edizione economica per i soldati in prima linea. Traduzioni clandestine circoleranno tra gli antifascisti nei paesi occupati dai tedeschi. La prima edizione italiana è del 1943, stampata a Londra, presso la Stamperia reale. La fondazione Rockefeller inviterà Beveridge negli Stati Uniti, per tre mesi di conferenze, interviste, foto sui giornali. Tra i risultati, la vendita di cinquantamila copie del rapporto.

Con lungimiranza, mentre imperversava la guerra, le democrazie alleate iniziarono infatti a fissare l’architettura del sistema socio-economico e politico da costruire una volta terminato il conflitto. Il Rapporto Beveridge, scritto senza toni propagandistici e senza alcuna ipotesi di rivoluzione socialista, era un minuzioso catalogo di progetti e di dati tecnici. Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore della protezione sociale e della libertà dal bisogno, in un sistema di democrazia autentica. Richiama l’attenzione sul tema dei diritti sociali colmando il vuoto programmatico che il sistema liberista tradizionalmente esprimeva sul sociale.ibeveri001p1

L’intento perseguito era quello di allargare il consenso verso i nascenti regimi democratici e i nuovi rapporti di forza internazionali elaborando un proprio modello di Stato sociale. Infatti, sia il nazismo che il fascismo esprimevano culture politiche non estranee a pretese di socialità, tanto che avevano allestito uno stato assistenziale considerato, per i tempi, piuttosto avanzato e accusavano di plutocrazia, mediante la loro propaganda, le democrazie alleate che consideravano l’economia di mercato e il capitalismo valori irrinunciabili.

Beveridge predispone una piattaforma politico-sociale sulla quale possa essere edificata una società di tipo nuovo, dove si riconoscano i diritti sociali come diritti di libertà e cittadinanza, nel solco di quanto accaduto con altri diritti previsti dallo stato liberale cresciuto in Europa tra la rivoluzione francese e i primi decenni del Novecento. L’obiettivo è quello di mettere la popolazione al riparo dai cinque bisogni che l’affliggono: lavoro, istruzione, malattie croniche, stato di desolazione, inerzia. L’autore li vede come dei giganti contro i quali nulla può il ceto popolare e operaio, da qui la necessità che lo stato attivi politiche pubbliche di stimolo e “anti-ciclo”, per evitare la depressione della domanda e il generale impoverimento in quanto, nel dopoguerra, era prevedibile che non vi sarebbe stato reddito effettivo disponibile né per il consumo privato né per i bisogni di base delle famiglie.

Una ricetta ancora attuale oggi, poiché la crisi odierna non è tanto finanziaria ed economica quanto sociale. Ciò che si sta verificando infatti, è un gigantesco drenaggio di ricchezza e liquidità dalle famiglie e dalle amministrazioni pubbliche verso i grandi centri finanziari, alcuni produttivi e molti speculativi, con impoverimento dei bilanci pubblici e dei redditi famigliari. Anche oggi come allora, la questione sociale chiede che si riscriva il contratto sociale tra stato e cittadino, riconoscendo gli eccessi del trasferimento di forza e capacità contrattuale in favore dei centri finanziari transnazionali ed evitando l’estremismo liberale, che colloca la relazione tra stato e cittadino nella sfera idealistica e ipocrita dei soli diritti di cittadinanza e politici, senza considerazione dei diritti economici e sociali che dei primi sono presupposto imprescindibile.

Non deve meravigliare che un liberale impenitente quale fu Beveridge esprima idee che ritroviamo come temi portanti della Dottrina sociale della Chiesa, perché si tratta di un uomo preoccupato non solo di raggiungere un “regime di piena occupazione” ma anche di farlo senza infrangere le libertà essenziali di parola, di culto, di associazione, di scelta del lavoro, di orientamento economico. Un vero uomo di buona volontà che non è la banale bonarietà degli uomini sempliciotti, ma la virtù dei veri costruttori di pace e giustizia, con i quali è sempre possibile confrontarsi onestamente e convergere, anche provenendo da storie diverse. Papa Giovanni XXIII amava dire: «Quando incontro qualcuno per strada non gli chiedo da dove viene. Non mi interessa. Gli chiedo dove va. Gli chiedo se posso fare un pezzo di strada insieme a lui».




Combattere la disoccupazione quando l’inflazione è lontana

41Syq17vL0L._SX355_BO1,204,203,200_di Giovanni Campanella • Nel mese di dicembre 2019, la casa editrice Arianna ha pubblicato un libro, intitolato L’altra moneta. Womanesimo e natura (dall’avere all’essere). Un nuovo rapporto tra religione, economia e scienza?, all’interno della collana “Free writers”. L’autore è Antonino (talvolta chiamato Nino) Galloni.

Antonino Galloni è figlio del noto avvocato, politico, vicepresidente del CSM e professore di diritto Giovanni Galloni. Quest’ultimo, al tempo in cui era ordinario di Diritto Agrario a Firenze, insegnò anche al direttore di questa rivista. Nel mese di maggio 2018, il nostro Giovanni Pallanti scrisse un articolo in memoria dell’esimio professore (vedi).

Quasi un anno fa mi ero già cimentato nella recensione di un suo libro: il relativo articolo è nel numero di aprile 2019 de “Il mantello della giustizia” (vedi).

Nino si è molto distinto nello studio dell’altra grande branca delle scienze sociali, l’economia. Nato a Roma nel 1953, è stato funzionario di ruolo del Ministero del Bilancio, direttore generale del Ministero del Lavoro e ha svolto controlli contabili all’INPDAP, all’INPS ed all’INAIL. È stato tra i più stretti collaboratori del celebre economista Federico Caffè.

Comprensibilmente, questo nuovo libro riprende molti temi già sviscerati nel libro scritto nell’anno precedente. Cerca poi di spingersi su questioni metafisiche, che forse lasciano un po’ il tempo che trovano. La vera novità però sta nell’analisi della “moneta non a debito”.

Si sa che ormai da diversi decenni la moneta non è più agganciata all’oro o a qualcosa di prettamente fisico. È un credito nei confronti della Banca Centrale, controbilanciato a sua volta da crediti che la Banca Centrale vanta nei confronti di altri. Fondamento della circolazione della moneta è il fatto che sia riconosciuta dallo Stato come mezzo di pagamento e il fatto che tutti si fidino che qualsiasi creditore la accetterà come mezzo di pagamento in forza di tale riconoscimento pubblico. D’altra parte, lo stesso Stato richiede quella moneta nel momento dell’imposizione fiscale.

La moneta sembrerebbe così un’entità molto “eterea”. Essa però è di fondamentale importanza per un sistema economico: molti hanno associato tale importanza alla stessa che ha il sangue nell’organismo umano. È infatti essenziale affinché i beni e i servizi circolino all’interno di una economia.Galloni (Conflitto di maiuscole o minuscole)

Sappiamo poi che l’aumento di moneta non accompagnato da un corrispondente aumento di beni e servizi genera inflazione ossia perdita di potere di acquisto nelle tasche di tutti (con danno maggiore per coloro che vedono contrarre il proprio potere di acquisto sotto la soglia di sopravvivenza ossia per i più poveri).

Ciò che sostiene Galloni è che, siccome dagli anni ’60 dello scorso secolo c’è una grande abbondanza di beni, risorse e capacità produttive ferma e bloccata, sarebbe assai utile che lo Stato emetta temporaneamente una moneta parallela e svincolata non solo dall’oro ma anche dal debito in modo da “far scorrere” la grande massa di tecnologia e risorse non impiegata. Così scrive:

«la condizione basilare per emettere questo tipo di moneta è che essa non si traduca, tutta e immediatamente, in inflazione: abbiamo visto in precedenza, accennando ad alcuni casi storici, che ciò avveniva perché – a fronte di una maggiore immissione di moneta (ancorché aurea, argentea, ecc.) – le capacità produttive non erano in grado di fornire altri beni oltre quelli correnti. (…) l’effetto sarà immediato e importante nella risposta ai bisogni di cura (delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente) e nel relativo aumento di occupazione necessaria» (pp. 88-89)

È un’idea sfruttabile nei paesi più avanzati dove c’è abbondanza di beni e grande capacità produttiva non impiegata. È spendibile solo nel breve termine. Farebbe storcere il naso a grandi speculatori che tesaurizzano grandi masse di denaro per lungo tempo ma darebbe respiro a chi cerca occupazione.




«La nudità di Francesco. Riflessioni storiche sulla spogliazione del Povero d’Assisi» di M. Bartoli

10103171_4294985di Dario Chiapetti Uno degli aspetti meno studiati della vita del Santo d’Assisi è quello riguardante il significato della scelta di mostrarsi nella sua nudità. Tuttavia, tale aspetto sta iniziando ad essere preso in esame. Nel 2017 è stato creato un nuovo Santuario ad Assisi dedicato proprio alla spogliazione di Francesco. Nell’occasione, il Papa ha inviato una lettera in cui si diceva particolarmente impressionato da Francesco che si spoglia nella piazza del Vescovado ad Assisi, tale impressione era già stata esternata in un suo discorso durante la sua visita ad Assisi nel 2013. Lo studioso Marco Bartoli ha condotto un prezioso studio, che ho il piacere di presentare, proprio su tale questione: La nudità di Francesco. Riflessioni storiche sulla spogliazione del Povero d’Assisi (Edizioni Biblioteca Francescana, 2018, 137 pp.).

Innanzitutto, l’Autore mostra come il denudarsi in pubblico di Francesco sia una costante nella vita del Santo e, pertanto, una vera e propria chiave di lettura con cui intendere la sua figura. Bartoli presenta gli innumerevoli episodi di spogliazione, sottolineandone le diverse accentuazioni di significato che essi portano con sé. Ci tengo a menzionarli.

miserias experiri» – e, quasi come per una sorta di prova con se stesso per vincere il suo orgoglio, scambiò i vestiti con uno di questi e rimase, «hilariter», a mendicare con loro tutta la giornata. È questo un episodio assai importante giacché – secondo l’Autore – esso ha come fonte lo stesso Francesco e attesta la bontà d’animo del futuro Santo, il quale, tuttavia, riconosce come punto d’avvio del suo cammino di conversione l’incontro coi lebbrosi, così come egli stesso riferisce nel Testamento. Sempre prima della conversione, nel Memoriale, anche questo testo del Celano, si apprende che il Santo «spesso si spogliava per rivestire i poveri». La Compilazione di Assisi rende noto l’incontro tra Francesco e due frati francesi che gli chiesero il saio (forse in segno di sfida, per umiliarlo) e videro accolta la loro richiesta, così che il Santo «rimase nudo per qualche ora». Sempre nella Compilazione si apprende di come Francesco ordinò a frate Pietro (il primo Ministro Generale eletto da lui) di trascinarlo nudo davanti al popolo, legato per il collo con una corda, per confessare a tutti che durante una malattia si era cibato di carne. A volte è Francesco che comanda ad altri di denudarsi. La Legenda maior di Bonaventura narra del Santo che ordinò a un suo frate che si rifiutò di fare elemosina a un povero di prostrasi nudo ai piedi di questi implorandogli il perdono. L’Actus beati Francisci (Fioretti) narra di Francesco che volle che un suo compagno, Rufino, il quale non rispondeva prontamente alla «santa obbedienza», di andare a predicare nudo al popolo. Preso dal pensiero di essere stato troppo duro, Francesco, volendo provare ciò che aveva comandato al suo frate, lo raggiunse e predicò, anch’egli nudo, al popolo. Bartoli ricorda a questo punto la forse più importante spogliazione di Francesco, quella al momento della sua morte. Le prime agio-biografie tacciono su tale aspetto a motivo – secondo l’Autore – del probabile imbarazzo che esso provocava finché non si comprese il fatto teologicamente. Dopo qualche anno si incontra l’inno Plaude, turba pupercula che presenta Francesco che «povero e nudo lascia il mondo». Il Memoriale ci informa che Francesco si fece «deporre nudo sulla nuda terra» a «lottare nudo con un avversario nudo», dopodiché, egli chiese che fosse letto il passo evangelico della Lavanda dei piedi, proprio quello in cui si parla della nudità di Gesù – «depose le sue vesti e, avendo preso un panno di lino, se ne cinse il fianco» – che manifesta così il suo amore «fino alla fine». Ma è Bonaventura che nella Legenda maior offre la lettura teologica dell’evento: «conforme in tutto a Cristo crocifisso, che, povero e dolente e nudo, rimase appeso sulla croce.maxresdefault

L’Autore giunge così alla disamina dell’episodio, forse più noto, della spogliazione di Francesco: quella davanti al Vescovo di Assisi nel 1206. Sebbene Francesco non abbia mai parlato di tale episodio, esso, con ogni probabilità, è storico. Dieci testi, dalla Vita beati Francisci (1229) alla Legenda maior (1262), narrano il fatto. Le differenze dei racconti sono presenti, tuttavia, la fonte storica più attendibile è offerta dalla Leggenda dei tre compagni. Il padre di Francesco, Pietro di Bernardone, volendo che il figlio restituisse il denaro preso in casa per offrirlo alla Chiesa, prima si rivolge all’autorità civile ma, dato che Francesco si era dichiarato «servo del solo Dio altissimo», questi era passato sotto l’autorità della Chiesa. Da qui Francesco è convocato dal Vescovo a comparire davanti a lui. È a questo punto che Francesco restituisce soldi e vestiti al padre, comparendo nudo davanti a questi, al Vescovo e ai cittadini di Assisi nel frattempo radunatisi in piazza. Il Vescovo coglie la profondità di quel gesto e, mosso a compassione, copre Francesco col proprio mantello, dopodiché questi abbandona la città e inizia a vivere nei boschi delle zone circostanti.

Veniamo ora, con Bartoli, alle fonti. Quattro fonti antiche (la Vita beati patris nostri Francisci, la Legenda ad usum Chori, il Breviario di Santa Chiara, la Legenda liturgica Vaticana), destinate ad uso liturgico, tacciono il fatto, probabilmente per legare la conversione del Santo ai lebbrosi e non alla protezione del Vescovo.

Vita sancti Francisci) richiama l’espressione di Girolamo «nudus nudum Christos sequi», ossia della conformazione a Cristo, la lettura che più è stata ripresa in seguito. Enrico d’Avranches (Legenda sancti Francisci versificata) racconta che Francesco «suscipit oblatas veteres a paupere vestes», ossia, prese le vesti, in piazza, offertegli da un povero (anziché, successivamente, da un amico di Gubbio, come in altre fonti), quasi a suggerire che il Santo ricevette la sua identità da quella di un povero, in dono da questi. Con il generalato di Aimone di Faversham, dopo quello di frate Elia, si tornò a parlare della spogliazione. Nella Leggenda liturgica vaticana compare un racconto in cui per la prima volta Francesco pronuncia un discorso in cui mette in contrapposizione il “Padre nostro celeste” e il “padre suo carnale”, richiamando così il tema di Dio come Padre, molto ricorrente in Francesco. Il Memoriale fa dire al Santo di poter ora «andare nudo incontro al Signore», a sottolineare la «sua anima nobile» alla quale «ormai basta solo Cristo!». La Legenda maior aggiunge il particolare del mantello povero di un contadino che il Vescovo ordinò fosse offerto al Santo rimasto nudo e che questi segnò con un segno di croce con un mattone a indicare che da quel momento in poi egli «indossava» la croce.

Soprattuto, ancora oggi, il Poverello offre noi la testimonianza della forza di un Dio nudo, disarmato e disarmante, capace di suscitare in chi vi si imbatte e lo accoglie quella che un altro Francesco, 800 anni dopo, ha chiamato la «santa inquietudine» del cristiano.




Stato laico e Medio Oriente nel pensiero del cardinale Louis Raphaël Sako

, dunque, che vi è una chiara distinzione («clara distinctio»), ma pure la prospettiva di una sana cooperazione («sana cooperatio»). Viene, infine, ribadito il diritto della Chiesa di predicare, sempre e ovunque, con vera libertà la fede, di insegnare la propria dottrina sociale, di esercitare la sua missione tra gli uomini, utilizzando tutti e soli quei mezzi conformi al Vangelo. In continuità ed in sintonia con questi principi teologici e in una lungimirante applicazione pratica di siffatti principi si è collocato il cardinale Louis Raphaël Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei, residente a Bagdad, che in una recente intervista ha dichiarato: «Lo Stato laico è la soluzione della crisi dei Paesi del Medio Oriente. Uno Stato laico significa la fine del settarismo… L’Islam politico punta a fondare uno Stato teocratico, ma non può funzionare. Non siamo nel Medioevo. La religione e lo Stato sono due campi distinti. La religione ha principi, la politica ha interessi, purtroppo spesso personali e particolari. Io parlo invece di uno Stato civile, basato sulla cittadinanza, che abbia come obiettivo l’integrazione e il servizio di tutte le sue componenti senza distinzione alcuna.pio12 Per me il concetto è chiaro: separazione tra Stato e Religione e rispetto dei valori spirituali e morali del popolo che ha bisogno di vivere nella libertà senza paura». Le asserzioni del cardinale Sako sono quanto mai stimolanti e pertinenti tenendo conto del drammatico contesto mediorientale. La consistente presenza di Stati confessionali islamici (per lo più sunniti) che hanno formato regimi autoritari o totalitari, percorsi peraltro da sotterranee contestazioni originate dai più svariati motivi, nei confronti delle minoranze religiose, in particolare cristiane, hanno talvolta concesso l’uso degli statuti personali per vivere in una forma di semilibertà religiosa. Ma si tratta, come purtroppo si è visto, di equilibri precari e instabili, che aggiunti all’instabilità cronica di quell’area geopolitica, dovuta al pericoloso groviglio di interessi economici e strategici, rende la situazione incandescente e ad alto rischio per la pace del mondo. E’ da leggere nell’intervento del cardinale Sako anche l’assoluta necessità, se si vuol uscire da un apparente ordine, che invece è un vero disordine, di ricercare il ruolo preminente di un diritto comune («ius commune») sui diritti propri («iura propria»). La storia ci dovrebbe insegnare che quando gli «iura propria» hanno prevalso sullo «ius commune» si è precipitati verso il caos. La legittima sana laicità dello Stato richiamata da Pio XII e confermata dal Vaticano II, non è soltanto, lo fa intendere il cardinale Sako, una dottrina astratta, bensì una proficua indicazione concreta.




«Querida Amazonia», l’esortazione apostolica postsinodale con i “quattro sogni” di Papa Francesco

Querida-Amazonia-Radio-Foto-Daletdi Francesco Romano • Il 2 febbraio scorso è stata pubblicata l’attesa esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia di Papa Francesco. Il Sinodo si era svolto a Roma tra il 6 e il 27 ottobre 2019 e si era concluso con il Documento intitolato “Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale”.

Con questa esortazione apostolica il Papa intende solo esprimere le risonanze che il percorso sinodale di dialogo e di discernimento gli ha suscitato limitandosi a offrire solo una sintesi di alcuni grandi aspetti che lo preoccupano.

Querida Amazonia contestualizza e attualizza la Laudato si’ in quella parte del mondo con queste parole: “Nella Laudato si’ ricordavamo che se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana […]. All’interno di ciascun livello sociale e tra di essi, si sviluppano istituzioni che regolano le relazioni umane. Tutto ciò che le danneggia comporta effetti nocivi, come la perdita della libertà, l’ingiustizia e la violenza. Diversi Paesi sono governati da un sistema istituzionale precario, a costo delle sofferenze della popolazione”. Un sogno che porta il Papa ad auspicare un’Amazzonia dove i suoi abitanti possano consolidare “un buon vivere” e, citando ancora la Laudato si’, rileva che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”.

La violazione del diritto al territorio e all’autodeterminazione dei popoli originari è una ingiustizia e un crimine che porta alcune aziende perfino a privatizzare l’acqua potabile, a devastare le foreste da cui ricavare legname, a inquinare l’ambiente. Le violazioni dei diritti umani e le nuove schiavitù colpiscono specialmente le donne, il narcotraffico che cerca di sottomettere gli indigeni, o la tratta di persone che approfitta di coloro che sono stati scacciati dal loro contesto culturale. Di fronte a questo quadro disastroso il Papa afferma: “Non possiamo permettere che la globalizzazione diventi un nuovo tipo di colonialismo”.

L’esortazione postsinodale Querida Amazonia è stata una sorpresa per quanti si aspettavano soluzioni epocali che il Papa avrebbe dovuto prendere in riferimento al celibato dei presbiteri. La Relatio finale del Sinodo al n. 111 diceva “A volte ci vogliono non solo mesi, ma anche diversi anni prima che un sacerdote possa tornare in una comunità per celebrare l’Eucaristia, offrire il sacramento della Riconciliazione o ungere i malati nella comunità. Apprezziamo il celibato come dono di Dio (Sacerdotalis caelibatus, 1) nella misura in cui questo dono permette al discepolo missionario, ordinato al presbiterato, di dedicarsi pienamente al servizio del Popolo santo di Dio […], proponiamo di stabilire criteri e disposizioni da parte dell’autorità competente, nel quadro della Lumen gentium 26, per ordinare71SYMUVjM2L sacerdoti uomini idonei e riconosciuti della comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile, per sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica. A questo proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento”.

Senza un’approvazione in forma canonica il documento non può assumere un carattere magisteriale, tuttavia la raccomandazione fatta ai pastori, ai consacrati, alle consacrate e ai fedeli laici dell’Amazzonia di impegnarsi nella sua applicazione equivale a dire che il Documento deve essere applicato.

Tra i sogni del Papa di rilievo è quello di comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici. Il rilievo sta nell’appello a creare in Amazzonia “una cultura ecclesiale propria, marcatamente laicale” (n. 94) realizzando la presenza stabile di responsabili laici maturi e dotati di autorità […] una presenza capillare che è possibile solo attraverso un incisivo protagonismo dei laici” (Ibid.).

L’inculturazione è anche un modo incarnato di attuare l’organizzazione ecclesiale e la ministerialità. La pastorale della Chiesa ha in Amazzonia una presenza precaria, dovuta in parte all’immensa estensione territoriale. Questo non può lasciarci indifferenti ed esige dalla Chiesa una risposta specifica e coraggiosa.

Il sacerdote è segno di Cristo Capo che effonde la grazia anzitutto quando celebra l’Eucaristia. Questa è la sua grande potestà, che può essere ricevuta soltanto nel sacramento dell’Ordine sacerdotale.

La necessità di sacerdoti e la loro scarsità richiedono che i diaconi permanenti, le religiose e i laici stessi cooperino assumendo responsabilità importanti per la crescita delle comunità e maturando nell’esercizio di tali funzioni grazie ad un adeguato accompagnamento. Soprattutto, però, una Chiesa con volti amazzonici richiede la presenza stabile di responsabili laici maturi e dotati di autorità che possano assicurare la presenza capillare in un territorio sterminato. “In Amazzonia ci sono comunità che hanno trasmesso la fede per lungo tempo senza che alcun sacerdote passasse da quelle parti, anche per decenni. Questo è stato possibile grazie alla presenza di donne forti e generose: donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a pregare, sono state missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito Santo” (n. 99).

L’esortazione apostolica non fa proprie le conclusioni della Relatio finale del Sinodo come ad esempio l’ordinazione diaconale delle donne e l’ordinazione presbiterale dei viri probati. Tale Documento, dice il Papa, “non intendo né sostituirlo né ripeterlo”. Neppure intende “citare”, anche se al tempo stesso lo presenta. Di fronte a soluzioni molto diverse che a volte intravedono gli operatori pastorali per i problemi che affrontano, il conflitto si supera a un livello superiore dove ognuna delle parti, senza smettere di essere fedele a sé stessa, si integra con l’altra in una nuova realtà (n. 104). Questo piano superiore, nelle discussioni del Sinodo, si è configurato un poco alla volta come la possibilità di elaborare un “rito amazzonico” che di fatto sarebbe l’ambito appropriato per discernere meglio in futuro l’eventualità di ordinare alcuni “viri probati”.




San Giovanni Paolo Magno

E’ fuor di dubbio che dal 1922 al 1933 anche all’insaputa del papa Pio XI i cardinali Gasparri e Pacelli abbiano, in modo diverso ma sostanzialmente uguale, appoggiato l’ascesa al potere di Mussolini in Italia e di Hitler in Germania. Giovanni Paolo II figlio della terra polacca, la nazione Cristo fra le nazioni, ha vissuto e combattuto in ugual misura sia il nazismo, dal 1939 al 1945, e l’occupazione sovietica della Polonia e il regime comunista che essa vi instaurò fino agli anni Novanta del secolo scorso. Il papa polacco, dopo un’infanzia tribolata e la perdita della madre, del fratello medico infettato dal colera mentre si adoperava per contenere l’epidemia che aveva colpito Cracovia, e la morte del padre, studiò e lavorò in una miniera della Solvay. Diventò anche un famoso attore di prosa. Si fece prete senza la benché minima ombra di clericalismo. Era un uomo a tutto tondo. Anche papa Francesco ricorda in questo libro che la sua esperienza di vita fino all’entrata nella Compagnia di Gesù, era stata simile a quella di Wojtyla. Anche lui aveva lavorato in una fabbrica e non aveva nessun atteggiamento tipico di molte coscienze tormentate che vedono nel sacerdozio una via di fuga dalla vita reale. Tutti e due hanno fatto scelte di vita all’opposto di quelle necessarie per fare una sicura carriera ecclesiastica. Soprattutto Giovanni Paolo II diventò a 38 anni vescovo ausiliare di Cracovia, pochi anni dopo arcivescovo della grande città polacca, poi cardinale e infine papa a 58 anni. Il gesuita Bergoglio, com’è caratteristica storica dell’ordine fondato da San’Ignazio, a tutto pensava fuorché a diventare vescovo: i gesuiti che il Santo Padre sceglie per l’episcopato, devono chiedere infatti la dispensa al superiore generale della Compagnia di Gesù. A Bergoglio fu concessa per diventare vescovo ausiliare di Buenos Aires. download

Il primo a essere sorpreso della sua elezione al soglio di Pietro fu, come racconta nel libro, lo stesso cardinal Bergoglio. Insomma, questi due preti, con caratteristiche e carismi diversi, hanno fatto di tutto per non fare carriera. La loro ascesa al pontificato è un modello da seguire per curare il virus del carrierismo nella chiesa cattolica. Quindi, un libro da leggere soprattutto per chi vuole cambiare il corso di Santa Romana Chiesa. Complimenti al giovane sacerdote coautore del testo, don Luigi Maria Epicoco. 




Organizzazione e gestione di un ufficio diocesano per la tutela dei minori: esperienze a confronto e riferimenti.

Tutela-dei-minori-e-prevenzione-degli-abusi-in-ogni-diocesi-toscana-un-centro-d-ascolto-per-accogliere-segnalazioni-e-denunce_articleimagedi Gianni Cioli • Il giorno 24 febbraio 2020 si è svolto presso La Facoltà teologica dell’Italia centrale un evento formativo organizzato dal Servizio Regionale per la tutela dei minori e adulti vulnerabili della Conferenza episcopale toscana dal titolo Organizzazione e gestione di un ufficio diocesano per la tutela dei minori: esperienze a confronto e riferimenti. L’evento è stato promosso per contribuire alla formazione a referenti diocesani, dei referenti dei centri di ascolto diocesani e dei membri delle equipe dei servizi diocesani per la tutela dei minori e adulti vulnerabili, e per favorire l’attuazione della strutture operative e dei servizi richiesti dalle recenti Linee guida della CEI in materia.

Nel corso della mattinata, dopo i saluti di S.E. il Card. Giuseppe Betori, Presidente CET, di S.E. Mons. Carlo Ciattini, Referente SRTM, di don Gianni Cioli, Vicepreside FTIC e Referente UDTM della Diocesi di Firenze (ovvero del sottoscritto) e di Sr. Tosca Ferrante, coordinatrice SRTM della Toscana sono intervenuti Don Gottfried Ugolini, Diocesi di Bolzano (CPSNTM, CEI) e Don Gianluca Marchetti, Diocesi di Bergamo (CPSNTM, CEI) che hanno illustrato l’esperienza pluriennale dei servizi diocesani per la tutela di minori delle rispettive diocesi. Don Ugolini ha poi sostituito la Dott.ssa Anna Deodato, forzatamente assente, nella prevista riflessione sul delicato impegno dell’ascolto delle vittime.

Nel pomeriggio Sr. Tosca Ferrante ha illustrato programma e obiettivi del nuovo Servizio regionale, poi il Dott. Filippo Focardi, Sostituto Procuratore della Procura per i minorenni di Firenze e il Dott. Luca Guido Tescaroli, Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Firenze hanno parlato rispettivamente di Elementi di diritto per la tutela dei minori e di Abusi e codice penale. L’evento si è concluso con un vivace forum moderato dal dott. Stefano Lassi (CPSNTM, CEI). A titolo di cronaca riporto il testo del mio saluto all’evento:???????????????????????????????

«Buongiorno,

Mi trovo a porgere il saluto a questa assemblea, dopo sua Eminenza il Card. Betori e sua Eccellenza il Vescovo Ciattini, a doppio titolo. Saluto innanzitutto come referente per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili della diocesi di Firenze che ospita quest’evento evento formativo promosso dal Servizio regionale, ma saluto anche come vicepreside della Facoltà teologica dell’Italia centrale, che ha messo a disposizione i suoi spazi per l’evento.

Come referente diocesano, anche a nome degli altri referenti, ritengo di dover innanzitutto ringraziare il Servizio regionale (in particolare nelle persone di Mons. Carlo Ciattini, di Sr. Tosca Ferrante e del dott. Stefano Lassi), nonché la a conferenza episcopale Toscana nella persona del Presidente, Sua Eminenza, il Card. Betori. Ringrazio per questa preziosa opportunità di vedere a confronto esperienze significative di Servizi diocesani per la tutela, che hanno dato buona prova, proprio nel delicato momento in cui ci troviamo a dover organizzare ex novo un ufficio diocesano per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili.

Ma sono grato anche come Vicepreside della Facoltà teologica per la scelta di questo luogo. Ritengo che la Facoltà sia stata scelta per ospitare questo evento formativo non soltanto perché offre uno spazio bello e funzionale, ma anche perché si è ritenuto che la tutela dei minori nella Chiesa ha bisogno di dialogare con la teologia. Certo perché dove si fa teologia si formano i futuri ministri della Chiesa, che bisogna educare, anche e non da ultimo, a tutelare i piccoli. Ma direi, inoltre e soprattutto, perché una tutela dei minori nella Chiesa richiede, se vuol essere efficiente, una adeguata riflessione ecclesiologica che sappia considerare il peccato, in seno alla comunità cristiana e ai suoi ministri, a partire dalla considerazione della Chiesa reale senza tuttavia perdere di vista la Chiesa ideale. Si richiede quindi un’approfondita riflessione teologica sulla Chiesa e, aggiungerei, un’approfondita riflessione morale e pastorale: ad esempio, per una più adeguata comprensione del concetto di scandalo e per una più saggia gestione degli scandali nella Chiesa rispetto al passato.

Dunque l’impegno della tutela di minori nella Chiesa ha bisogno della teologia, ma anche, viceversa, la teologia ha bisogno di confrontarsi con le esigenze della tutela dei minori per essere, oggi, una teologia incarnata».




Il sinodo sull’Amazzonia e la Chiesa di sempre

Sinodo amazzoniadi Mario Alexis Portella G. K. Chesterton una volta disse: “Il cristianesimo è stato dichiarato morto infinite volte. Ma, alla fine, è sempre risorto, perché è fondato sulla fede in un Dio che conosce bene la strada per uscire dal sepolcro”. Ovviamente, l’aforismo dell’anglicano convertito cattolico si riferiva alle persecuzioni e tragedie spinte dall’odio contro il cattolicesimo, nonostante le eresie e gli scismi subiti e superati nella storia dalla Santa Madre Chiesa Cattolica.

Ma quello che i progressisti della Chiesa—il presidente “scadente” della Conferenza dei vescovi tedeschi, il cardinale Reinhard Marx e l’Arcivescovo-Emerito di San Paolo (Brasile), Cláudio Hummes, O.F.M.—scelto da Francesco per guidare il sinodo—volevano sottilmente fare era eliminare il celibato clericale e istituire il Diaconato femminile. Se la Chiesa avesse scelto secondo tali suggerimenti, il ruolo del sacerdote come il mediatore tra Dio e l’uomo sarebbe stato ridotto a un funzionario della “chiesa-aziendale”. Di conseguenza, l’atto redentrice del sacrificio della Messa che il prete celebra sarebbe stato diminuito a una cerimonia socio-culturale.

nubendusin realtà, non c’è una crisi vocazionale perché Nostro Signore continua a chiamare gli uomini al Suo ministero; il problema è la mancanza di risposta a causa degli insegnamenti tiepidi di pastori e dello scarso discernimento dei superiori del seminario che hanno sottovalutato la necessità di vivere il Vangelo, i sacramenti e di far progredire l’istituzione della famiglia.

"per noi sacerdoti il celibato è un dono"

“per noi sacerdoti il celibato è un dono”

Nella loro illusione, il papa poteva in modo “gesuitico” dare ampio spazio per proporre tale opinione—il Santo Padre sembra avergli dato una corda con cui impiccarsi quando nella sua Esortazione apostolica post-sinodale, Querida Amazonia, ha mantenuto il celibato clericale e il Diaconato maschile: Hummes non si è presentato all’evento della pubblicazione dell’esortazione e Marx si è dimesso come capo dei vescovi tedeschi il giorno dopo.

«Mi viene alla mente una frase di San Paolo VI: ‘Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato’». E aggiungeva: «Personalmente penso che il celibato sia un dono per la Chiesa. Io non sono d’accordo di permettere il celibato opzionale, no».

Nel documento troviamo la più chiara intuizione della mentalità del Romano Pontefice sulla carenza di vocazioni: Nelle circostanze specifiche dell’Amazzonia, specialmente nelle sue foreste e luoghi più remoti, occorre trovare un modo per assicurare il ministero sacerdotale…. [i popoli dell’Amazzonia] hanno bisogno della celebrazione dell’Eucaristia, perché essa «fa la Chiesa». Questa pressante necessità mi porta ad esortare tutti i Vescovi, in particolare quelli dell’America Latina, non solo a promuovere la preghiera per le vocazioni sacerdotali, ma anche a essere più generosi, orientando coloro che mostrano una vocazione missionaria affinché scelgano l’Amazzonia.

La Chiesa, di nuovo, ha corso un pericolo e di nuovo l’ha superato. E questo perché la Chiesa è divina. Non dimentichiamo le parole del Signore come scrisse San Matteo, dopo che San Pietro confessò la divinità di Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa».




Il Cantico di san Bernardo. L’amore di Dio, l’amore dell’uomo

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In questo, non v’è dubbio, Bernardo si fece erede di una tradizione interpretativa del libro biblico che intendeva le parole del Cantico come espressione di un amore umano, che si apre di per sé a raccontare anche l’amore umano-divino. La via precisa, specifica di questa applicazione spirituale del Cantico è la lettura tropologica della sposa e dello sposo, come rappresentanti l’anima e il suo Dio. In particolare, così facendo Bernardo si faceva erede di una tradizione i cui rappresentanti più autorevoli si direbbero Gregorio Magno e Origene. Eppure, in Bernardo questa interpretazione è più che una semplice ripetizione di interpretazioni e di letture spirituali del Cantico che derivava dalla storia. Come accadrà per il suo amico Guglielmo di Saint-Thierry e per il suo segretario Goffredo di Auxerre (entrambi, tra l’altro, agiografi dell’abate di Clairvaux), per Bernardo la lettura che propone del libro biblico è come l’architrave del suo stesso pensiero.

Quanto ha influito l’idea di Dio come Amore che si comunica liberamente all’uomo secondo ciò che narra il Cantico interpretato spiritualmente, sull’idea moderna di uomo, segnato dalla libertà e dalla responsabilità? Chi abbia mai frequentato Bernardo e il suo secolo, saprà che vi sono studi che hanno mostrato singolari addentellati tra la mistica cisterciense e l’amor cortese dei trobadori e delle loro mille poesie amorose. A noi, qui, basta aver posto la questione.