Presentazione degli articoli del mese di ottobre 2020

Giovanni_Paolo_II-Karol_Wojtyla-BQ-600x372-1280x720Andrea Drigani invita alla lettura dei «Diari segreti» di Giulio Andreotti, dai quali emerge una passione per il mondo e per l’Italia, all’insegna di una cattolicità intesa nel suo significato primigenio di universalità. Giovanni Campanella illustra il libro curato da Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, con diversi autori che riflettono a partire dal «lockdown», dal quale emerge che la fede in Dio, apparentemente inutile, diviene il fondamento di ogni utilità. Antonio Lovascio prende spunto dai tragici episodi di violenza di questa estate, per rilevare la deriva nichilista alla quale da sempre risponde l’insegnamento degli ultimi pontefici verso dei giovani smarriti ma desiderosi di dare un senso alla vita. Gianni Cioli sollecitato da un intervento del vescovo Erio Castellucci svolge alcune considerazioni sulla bellezza «smisurata» della morale cristiana che porta a compimento la bellezza «misurata» della morale umana. Carlo Parenti con una delle ultime lettere di Giorgio La Pira annota sull’attuale questione della disoccupazione giovanile, che tuttavia viene da lontano. Francesco Romano dall’impegno di contrastare il pericoloso e scandaloso intreccio tra manifestazioni religiose e infiltrazioni mafiose, auspica una specifica normativa penale canonica universale, in aggiunta alle vigenti leggi particolari e a quelle di diritto comune. Dario Chiapetti recensisce il volume di Francesco Marchesi sul Poverello d’Assisi, una sorta di autobiografia basata sui suoi scritti, con una lezione finale: se non c’è pentimento, non v’è apprendimento, se non vi è apprendimento dal pentimento, l’uomo è un nulla. Giovanni Pallanti presenta la figura di Don Olinto Marella, proclamato Beato in questo mese di ottobre, un prete colto ed educatore, che incorse nella sospensione, perché ritenuto modernista, ma per le sue doti spirituali e morali fu riammesso nella vita sacerdotale. Stefano Tarocchi segnala il saggio di Sławomir Stasiak che compara storicamente l’insegnamento delle scienze bibliche nelle Facoltà di Teologiche di Firenze e di Breslavia nel segno di un comune spirito europeo. Leonardo Salutati in attesa dell’Enciclica «Fratelli tutti» rammenta che, per Papa Francesco, la pandemia ha fatto emergere un’economia malata perché fondata sul dominio dell’uomo sull’uomo, ma pure la nostra interdipendenza poiché siamo tutti legati gli uni altri. Mario Alexis Portella svolge delle riflessioni sull’Accordo tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Regno del Bahrein, che assai difficilmente contribuirà alla pace poiché fondato sui rapporti economici e sull’ignoranza del rispetto dei diritti umani. Stefano Liccioli per quanto attiene alla ripresa dell’anno scolastico, dopo la chiusura per il covid-19, auspica che, oltre alle questioni di legate alle prevenzione sanitaria, venga promosso un grande attenzione per la didattica. Carlo Nardi prende spunto dal dono del libro di Alberto Maggi su San Giovanni Crisostomo, per ripercorre la propria passione culturale, sacerdotale e cristiana per questo Padre della Chiesa. Alessandro Clemenzia commenta la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede circa alcuni quesiti sulla forma del Sacramente del Battesimo, nella quale si precisa, anche secondo l’insegnamento di Sant’Agostino, che chi battezza non è il celebrante ma è sempre Cristo. Francesco Vermigli in margine alla prossime celebrazioni dantesche annota, alla luce del magistero di Benedetto XV e Paolo VI, su Dante teologo in quanto poeta, rilevando che la poesia quando su reca nella verità divina insegna alla teologia l’umiltà e la precarietà della sua opera. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si osserva che l’esito del referendum costituzionale sul numero dei parlamentari non può essere ritenuto un obbiettivo finale, bensì l’inizio di uno studio e di un’azione per ulteriori riforme.




Il culto della Madonna e la religiosità popolare, grandissimo tesoro per la Chiesa, vanno purificati da ogni elemento mafioso o superstizioso

5450255_1433_parolindi Francesco Romano • Il contrasto alla criminalità organizzata, di cui mafia e ‘ndrangheta rappresentano la piaga più dolorosa che continua ad affliggere la convivenza sociale, sconfinando decisamente dai territori di origine, vede impegnate da molti decenni le migliori energie dello Stato nel tentativo impari di sradicarle. Anche la Chiesa ha fatto un lungo percorso di crescita nello sforzo di isolare la commistione socio religiosa che caratterizza queste organizzazioni malavitose che ricorrono anche a quei simboli e pratiche devozionali molto vissuti nella religiosità popolare.

È significativo che ancora una volta la Chiesa sia dovuta intervenire in modo drastico, chiaro e inequivocabile attraverso l’intervento fatto dal Segretario di Stato vaticano Card. Pietro Parolin in occasione della visita a Catanzaro al Santuario di Torre di Ruggiero per la festa della Madonna delle Grazie.

Il monito del Card. Parolin trae spunto dai rituali mafiosi e religiosi che vengono spesso praticati soprattutto nelle processioni con le statue di santi e madonne fatti sostare da infiltrati per un inchino sotto le finestre dei boss. Per questo il Card. Parolin ha detto che il culto della Madonna e la religiosità popolare, grandissimo tesoro per la Chiesa, vanno purificati da ogni elemento mafioso o superstizioso.

Sono parole che fanno eco a quelle pronunciate da Papa Francesco nel 2018 in occasione della visita a Palermo: “Quando la Madonna si ferma e fa l’inchino davanti alla casa del capo mafia, no quello non va, non va assolutamente”. E ai preti siciliani, riuniti in cattedrale, raccomandò: “Vi chiedo di vigilare attentamente, affinché la religiosità popolare non venga strumentalizzata dalla presenza mafiosa, perché allora, anziché essere mezzo di affettuosa adorazione (rectius: venerazione), diventa veicolo di corrotta ostentazione”.

Nella visita a Cassano nello Jonio nel 2014, Papa Francesco ha parlato apertamente di scomunica per i mafiosi. Parole pronunciate con immediatezza e forza, tese a raggiungere e scuotere le coscienze di tutti, principalmente di coloro che vivono e agiscono in questa gravissima condizione di peccato, ma anche di coloro che patiscono a livello personale o sociale le conseguenze di un male così radicato, per far loro sentire che tutta la Chiesa è presente e ne condivide le sofferenze nell’aiutarli a portare i pesi.5cc0ddba2400004f002426e0

L’impegno della Chiesa contro la criminalità di stampo mafioso, radicata nei suoi celebri luoghi nativi, può fare riferimento a tre date importanti 1944, 1952 e 1982. L’Episcopato siciliano in una lettera collettiva del 1944 emanava la condanna di scomunica nei seguenti termini: “Sono colpiti di scomunica tutti coloro che si fanno rei di rapine o di omicidio ingiusto e volontario”. Ancora non compare la parola “mafia”, ma il riferimento a essa per il comportamento delittuoso condannato e per i luoghi ove si realizzava è chiaro.

Nel 1952 il secondo Concilio Plenario Siculo – che in quanto concilio plenario, ha potestà legislativa per il proprio territorio (can. 290 Codex 1917; can. 445 Codex 1983) – recependo il contenuto del documento del 1944, individua con più chiarezza i delitti che sono tipici della mafia e la pena prevista includendo anche i mandanti e i cooperatori, ma senza ancora pronunciare in modo esplicito la parola “mafia”: “Coloro che operano rapina o si macchiano di omicidio volontario, compresi mandanti, esecutori, cooperatori, incorrono nella scomunica riservata all’Ordinario”.

Dovremo attendere il 1982, dopo l’uccisione del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando la Conferenza Episcopale Siciliana, confermando le precedenti scomuniche, ne individua esplicitamente la matrice mafiosa: “A seguito del doloroso acuirsi dell’attività criminosa che segna di sangue e di lutti la nostra regione, i Vescovi, in forza della loro responsabilità di pastori, riaffermano la loro decisa condanna sottolineando la gravità particolare di ricorrenti episodi di violenza che spesso hanno come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita”.

Nella “Nota” di Novica che accompagnava il suddetto documento, venivano delineate le conseguenze della scomunica: “la condizione di scomunicato emergerà quando l’autore di uno dei due delitti si accosterà alla confessione per essere assolto dal peccato: il sacerdote lo informerà che non può assolverlo in quanto colpito da scomunica che i vescovi hanno riservato a se stessi, dalla quale, cioè, soltanto loro possono assolvere”.

La novità che emerge dalle parole pronunciate da Papa Francesco è l’esplicita condanna del comportamento mafioso con la commissione individuale di determinati atti criminali tipici della mafia, e non solo, ma anche la stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”.

Il Papa vuole sottolineare che, oltre alla commissione di specifici delitti, è l’essere di per sé un mafioso che costituisce un delitto e necessita di una pena. Si tratta di delitti che hanno un grave risvolto sociale: “coloro i quali vivono di malaffare, di violenza e disprezzo del bene comune”, “interesse personale e sopraffazione”, ma sono anche delitti contro la religione come il delitto di idolatria e di apostasia, cioè la “adorazione del male”. Infatti, aggiunge il Papa, “Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato”.

L’idolatria e il rifiuto del Signore per adorare il denaro sono veri e propri atti di rifiuto della fede cristiana, sono per questo delitti di apostasia sanzionati dal can. 1364 §1 con la scomunica “latae sententiae”, ma le categorie che definiscono l’identità e l’appartenenza mafiosa, ‘ndranghetista ecc. necessitano una tipizzazione del delitto anche sul piano nominalista. Un punto di grande rilievo nella condanna pubblica fatta dal Sommo Pontefice sarebbe la volontà di estendere a livello di legge universale la pena di scomunica per il delitto di appartenenza mafiosa e i relativi atti criminali, cioè oltre i confini di una regione, non essendo più da considerarsi solo una piaga locale.

Un altro risvolto presente nel discorso del Papa Francesco è l’aver puntato fortemente il dito sull’identità pseudo religiosa del mafioso. La sua religiosità è idolatria, di cui si ammanta volentieri simulando comportamenti devozionali, spesso anche in modo visibile, inconciliabili con l’appartenenza alla Chiesa fino a sfociare in azioni omicidiarie quando il Pastore cerca di difendere il suo gregge dal contagio della mentalità nefasta e fuorviante che porta al fraintendimento della vera religione, oltre che al reclutamento, spesso anche di minori. Si potrebbero ravvisare in questa fattispecie i tratti tipici del delitto contemplato dal can. 1374: “Chi si iscrive a un’associazione che trama contro la Chiesa, sia punito con giusta pena; chi poi promuove o dirige una tale associazione sia punito con l’interdetto”, al quale il Papa attribuisce in questo caso, ma ancora in modo orale, la pena massima della scomunica.

Le parole pronunciate da Papa Francesco sono in stretta continuità con quelle pronunciate dai suoi due predecessori, San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, e Benedetto XVI a Palermo. Giovanni Paolo II definì la mafia “civiltà di morte”, aggiungendo: “Lo dico ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”. E Benedetto XVI gli faceva eco: “Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte”.

Papa Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi, per i quali “un giorno ci sarà il giudizio di Dio”. Egli dice che già da ora questa condizione di peccato dei mafiosi è un vulnus per la comunione con la Chiesa: “non sono in comunione con Dio”, ma le parole che pronuncia subito dopo in senso rafforzativo: “sono scomunicati!”, vogliono significare che non allude solo alla comunione mistica a motivo del peccato, indicando anche quale sia il delitto che comporta la scomunica, cioè l’idolatria, l’adorazione del denaro che prende il posto dell’adorazione per il Signore ecc. ecc.

A conclusione dobbiamo rilevare che la scomunica essendo una pena canonica necessita di un testo legale, cioè una legge (o un decreto penale) emanata in forma scritta e promulgata dalla competente autorità munita di potestà legislativa, in cui sia determinata la fattispecie delittuosa, il tipo di pena, “latae sententiae” o “ferendae sententiae”, l’autorità che la può irrogare e rimettere, il tempo di prescrizione ecc.

La scomunica per i delitti di mafia che i Vescovi della Sicilia hanno deciso di comminare a coloro che se ne macchiano, è una legge penale particolare. Ormai il fenomeno mafioso nei molteplici aspetti e nelle diverse nomenclature è molto diffuso e va oltre i confini della Sicilia e dell’Italia stessa fino a radicarsi in territori una volta insospettabili e in tutti gli ambiti legati soprattutto al potere economico: mercato della droga, sfruttamento della prostituzione, vari tipi di racket dall’usura al pizzo fino alle onoranze funebri, edilizia, attività commerciali, infiltrazioni nella vita politica e gestione del potere a livello locale e nazionale ecc. ecc. In questo senso assume grande rilievo che il Papa Francesco, in quanto legislatore universale, abbia ben delineato i comportamenti delittuosi della mafia e della ’ndrangheta e ravvisato la necessità che concretamente i mafiosi siano scomunicati con una pena canonica da irrogare.

Ciò che appare evidente è che l’intervento del Papa, in alcuni passaggi pronunciati anche a braccio, vede ogni associazione malavitosa assimilata a quella di mafia e di ’ndrangheta, come un’unica categoria da condannare senza limiti o differenziazioni territoriali. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle Diocesi della Sicilia venisse punito con la norma penale territoriale della scomunica, mentre se commesso in un’altra regione restasse indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica.

Questo vuoto normativo a livello universale lo si può comprendere con la difficoltà che si è avuta nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali abbia potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società, ovunque, sia dal punto di vista territoriale nazionale e internazionale che dal punto di vista del coinvolgimento di persone insospettabili, anche moralmente, a volte anche a livelli istituzionali più alti dello Stato.




L’estate degli omicidi e il nuovo nichilismo

comozero-18settembre-1di Antonio Lovascio · L’estate degli omicidi. Rivedendo le immagini che scorrono in TV, cerchiamo di andare oltre gli orrori che evidenziano una chiarissima crisi di valori ed il trionfo della brutalità, denominatori che accomunano vicende tinte di sangue pur diverse tra loro: l’uccisione di Willy, un ragazzo solare che per giorni ha occupato le prime pagine dei giornali; quella di don Roberto – il “prete degli ultimi” accoltellato a Como da un tunisino che sfamava da tempo ed a cui aveva offerto rifugio; il caso di Caivano, dove un presunto senso di orgoglio familiare ha fatto credere a Michele Gaglione di dover punire la sorella Maria Paola; l’aggressione di Vicenza ad un anziano che difendeva una ragazza. E poi altri pestaggi e stupri da rabbrividire. Ci si chiede ancora come a Colleferro dei giovani con i loro corpi scolpiti dai muscoli tatuati possano aver assassinato con determinazione e ferocia un altro coetaneo, originario di Capoverde e con la pelle di colore diversa dalla loro, generosamente intervenuto nel pieno della notte per sedare una lite. Si sono fatti grandi discorsi (ma le parole più belle le abbiamo però sentite dai genitori di Willy: “che la sua morte abbia un significato!”), si è condannata la violenza, con l’immancabile passerella dei politici – eravamo sotto elezioni – solidali con le famiglie dilaniate dal dolore. Ma questo non basta. Occorre capire e soprattutto trovare rapidamente le contromisure a questo nuovo nichilismo che svuota le vite, ed affrontare con coraggio la vera urgenza che innanzitutto si chiama Scuola.

Il nichilismo ha una lunga storia, filosofica e letteraria. Ce lo hanno spiegato con stili e parole diverse gli ultimi quattro Papi, analizzando la “profezia” di Nietzsche che aveva avvertito la “morte di Dio” e il profilarsi di una catastrofe consumata poi nella carneficina della Grande Guerra. La pedagogia di San Giovanni Paolo II, acquisita dal suo predecessore San Paolo VI, ha avuto certamente riflessi nel Magistero di Benedetto XVI e di Papa Francesco, che non a caso nel 2018 ha voluto tenere un Sinodo appositamente dedicato ai giovani, proprio per offrire non solo alla Chiesa ma alla società ed al mondo globalizzato chiavi di lettura per affrontare questa emergenza educativa nel tempo presente. L’insegnamento di Papa Wojtyla è stato sicuramente ricco di molte intuizioni e realizzazioni pratiche, i cui significati sono costante motivo di ispirazione per tanti operatori pastorali ed educatori, che hanno ben compreso – come ha sottolineato in diversi saggi il filosofo-sociologo Umberto Galimberti – una cosa fondamentale: volere il bene dei giovani vuol dire innanzitutto ascoltarli, sostenerli, per poi offrire un modello valido su cui investire la loro ricca umanità. L’entusiasmo, la speranza, la contestazione e la ricchezza trovano nella fede cristiana la vera collocazione e il migliore sviluppo. In Cristo si resta sempre giovani della sua gioventù.

Il magistero di Papa Francesco propone un approccio più pratico e operativo. Egli predilige occuparsi di aspetti immediati della vita, piuttosto che di speculazione metafisica: «la realtà è superiore all’idea» (EG 231). Il suo insegnamento ai giovani verte su scelte concrete di autenticità ai valori, di amore ai più poveri e di impegno per un mondo più giusto. Non meraviglia dunque che, interrogato sull’essenza della giovinezza, abbia risposto: «la gioventù non esiste». Egli si mostra preoccupato che la giovinezza divenga un falso mito, un inganno giovanilistico che non rende ragione né ai giovani né ai vecchi. Per questo dice che preferisceunnamed (4) pensare ai giovani piuttosto che alla gioventù. In essi però egli vede comunque i tratti positivi dello slancio, della promessa, della gioia: «Vedo un ragazzo o una ragazza che cerca la propria strada, che vuole volare con i piedi, che si affaccia sul mondo e guarda l’orizzonte con occhi colmi di speranza, pieni di futuro e anche di illusioni». Certo le nuove generazioni non accettano la fede a scatola chiusa, piuttosto cercano coerenza e autenticità: perciò seguono Papa Francesco. La storia di Gesù, senza orpelli, li incuriosisce ancora.

Ma c’è purtroppo il rovescio della medaglia ad una realtà ed a comportamenti esemplari. I tanti giovani senza lavoro e allo sbando, che rincorrono i falsi idoli, trascurati dalla famiglia dopo che magari hanno abbandonato la scuola. Sfortunati anche perché non hanno trovato “buoni maestri” in grado di orientarli nel delicato percorso di formazione. A questa categoria appartengono sicuramente i protagonisti della cronaca nera di questa folle estate. Chissà quante ore hanno passato in palestra per scolpire quei corpi esteticamente perfetti. Oppure collegati ai Social come “i gorilla da tastiera” sempre pronti – prendendo pessimo esempio da alcune star della politica – a saltare addosso all’avversario senza esclusione di colpi! L’importante è abbatterlo.

Se la Chiesa fa già e continua a fare la sua parte, lo Stato tramite la Scuola e l’Università deve cambiare registro dopo questa esplosione di nuovo nichilismo. Non ci sono più alibi. Ora non mancano le risorse e gli aiuti messi a disposizione dall’Europa per i reali problemi del Paese: 209 miliardi di euro, più altri 36 se decidiamo di ricorrere al prestito MES. Per curarci dalla preoccupante ripresa dei contagi Covid, per rilanciare il lavoro e risollevarci – con riforme strutturali mirate all’innovazione industriale e della pubblica amministrazione – da una crisi economica che ha ridotto molte famiglie in condizioni di assoluta povertà. Ma soprattutto per porre rimedio al degrado progressivo del nostro sistema educativo. Causa del Male che scorre sotto i nostri occhi.




Il Beato Don Olinto Marella

marella-buono-e1589991308732-800x601di Giovanni Pallanti · Il 4 ottobre padre Olinto Marella è stato beatificato nel giorno di San Petronio, nella sua Bologna. Padre Marella nacque il 14 giugno 1882 a Pellestrina (Venezia). Il padre era medico condotto dell’isola e morì nel 1903, lasciando la moglie Carolina de’ Bei, insegnante, con tre giovani figli. Olinto era il secondogenito. Sin dall’adolescenza manifestò il desiderio di studiare e farsi prete. La sua scelta di vita fu molto influenzata dallo zio paterno, monsignor Giuseppe M. Marella. Terminate le scuole, il giovane Olinto venne mandato a Roma a terminare gli studi all’Apollinare, l’istituto superiore di studi ecclesiastici, dove ebbe come compagno di corso Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII.

Ordinato sacerdote il 17 dicembre 1904, don Marella celebrò la prima messa a Pellestrina. Sacerdote intelligente, colto e con una forte propensione verso i problemi dei più poveri, gli viene assegnato l’incarico di professore nel seminario di Chioggia. Nel 1909, con l’aiuto del fratello Tullio, studente di Ingegneria, fonda il Ricreatorio Popolare a Pellestrina, dove riunisce intorno a sé i giovani più poveri dell’isola e delle altre terre emerse della laguna veneziana. Nel ricreatorio si occupava prevalentemente di cultura generale, di attività sportive e della formazione catechistica dei giovani che lo frequentavano.

Come molti sacerdoti della sua generazione, compreso Angelo Giuseppe Roncalli e don Ernesto Buonaiuti, fu accusato di Modernismo. Chi erano i modernisti? Per la Chiesa, ai tempi di San Pio X, erano degli eretici. Per coloro che comprendevano le ragioni di un necessario e rinnovato metodo di presenza della Chiesa nella storia del mondo, erano coloro che si battevano per evitare alla luce della storia, gli errori degli uomini di Chiesa, le compromissioni della Chiesa di Roma con il potere temporale, ed erano particolarmente invisi a quel clero invidioso degli studi e dei successi umani di alcuni di loro. Anche monsignor Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, fu insieme al suo segretario Roncalli, inquisito per Modernismo, e poi prosciolto. Don Olinto Marella ebbe in sorte, invece, un amaro destino: il 25 settembre 1909 venne sospeso a divinis con il divieto di celebrare l’Eucarestia. L’accusa principale per cui fu sospeso a divinis, era quella di aver dato ospitalità per pochi giorni, nella sua casa di Pellestrina, allo scomunicato don Romolo Murri, fondatore della prima Democrazia Cristiana, suo amico dai tempi del seminario. Don Marella si ritirò in una operosa solitudine, con la sua madre e iniziò a insegnare filosofia nei licei. Come professore di filosofia, incontrò a Rieti uno studente molto bravo, anche se di spirito ribelle: Indro Montanelli. Il grande giornalista toscano dirà in più occasioni: “Sono sicuro di avere conosciuto un santo, il mio professore di filosofia don Olinto Marella”.

Anche Enzo Biagi, bolognese d’adozione essendo nato a Lizzano Belvedere, ha fatto conoscere la figura di don Olinto Marella che, riammesso dopo 16 anni di sospensione a divinis come sacerdote nella Chiesa Cattolica, aveva fondato a Bologna la Città dei Ragazzi. Biagilogo fece vedere in televisione questo vecchio prete con la lunga barba bianca appostarsi all’uscita dei cinema più eleganti della città felsinea, per chiedere l’elemosina a favore dei ragazzi che lui curava.

Don Olinto Marella fu in quel contesto che cominciarono a chiamarlo “Padre”, proprio per la funzione che svolgeva per i suoi ragazzi, di educatore e di maestro di vita. Don Marella, morto il 6 settembre 1969, è da considerarsi uno dei primi preti di strada, tanto cari a Papa Francesco, che vorrebbe una chiesa in uscita nelle periferie delle città e accanto alle persone più disagiate. In questo consiste una delle principali missioni della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. La beatificazione del 4 ottobre è un grande evento che esalta tutti coloro che hanno personalmente sofferto, dando interamente se stessi per il bene degli altri e la salvezza delle loro anime.




«Trasumanar significar per verba…». Dante, la poesia, la teologia

Dante in Paradisodi Francesco Vermigli · S’appressa a grandi falcate il centenario della morte di Dante e vorrei dire qualcosa del messaggio che egli lascia circa la teologia e la poesia. Non è cosa nuova, si dirà, trattare di Dante e della riflessione su Dio che trapela dalla sua poesia: molti ne hanno trattato, basti pensare al nome eccelso di Bruno Nardi o più recentemente a Lino Pertile. E quest’attenzione è stata consacrata anche dal Magistero che nell’ultimo secolo ad ogni anniversario dantesco ha ricordato come la sua stessa poesia sgorgasse dalla fede della Chiesa: si pensi al motu proprio di Paolo VI Altissimi Cantus del 7 dicembre 1965 e prima all’enciclica di Benedetto XV In praeclara summorum del 30 aprile 1921. Così Paolo VI: «Qualcuno potrebbe forse chiedere come mai la Chiesa cattolica, per volontà e per opera del suo Capo visibile, si prenda così a cuore di celebrare la memoria del poeta fiorentino e di onorarlo. La risposta è facile e immediata: Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica» (Altissimi Cantus, 9).

Tuttavia qui, nello spazio di solo qualche battuta, vorrei precisare il campo, in modo tale da far emergere con maggior chiarezza che si sta trattando di una teologia che si esprime in linguaggio poetico e, per giunta, in un linguaggio poetico di rarissima qualità. In altri termini, vorrei far emergere che Dante non fu teologo perché si trovò semplicemente a trattare tematiche di teologia, che Dante non fu teologo nonostante la sua poesia: egli fu teologo grazie alla sua poesia. Tornano qui alla mente i percorsi mai interrotti della grande scuola spirituale francese del ‘900: gli studi del padre Léonce de Grandmaison o quelli di Louis Bouyer; per non parlare di quella figura singolarissima che fu Henri Brémond, accademico di Francia e prete. Sono quelli studi che hanno colto la prossimità del linguaggio poetico e del linguaggio mistico alla riflessione teologica.

Pare a questo punto necessario spiegare il titolo. Esso reca una citazione da Paradiso I,70-71 («Trasumanar significar per verba / non si porìa»): frase che ha un contesto specifico, si tratta del racconto mitologico della divinizzazione di Glauco, a causa di un’erba che aveva assaggiato. Ma quel verso e mezzo che abbiamo citato, può ben rappresentare lo scopo della poesia di Dante, il compito superiore alle proprie forze che essa si dà. Dante vuol dire che provare a descrivere con le parole la trasfigurazione dell’umano, la sua elevazione al di sopra del limiti naturali è impossibile.Dante_Domenico_di_Michelino_Duomo_Florence

La Commedia, in effetti, racconta l’irraccontabile. Racconta ciò che nessuno potrebbe mai raccontare: racconta l’in-diarsi (cf. Paradiso IV,28) dell’uomo, cioè l’entrata dell’uomo in Dio. Racconta ciò che è impossibile a raccontarsi, eppure lo racconta. Cosa accade alla parola della poesia quando è chiamata a raccontare ciò che appare impossibile raccontare? Accade quello che accade alla parola della mistica. La parola della mistica nasce da un’esperienza altissima: l’esperienza di Dio, che per grazia è concessa all’uomo. La parola che vuole raccontare quest’esperienza si distorce, si dilata alla ricerca delle massime proprie capacità. La parola affronta la sfida, essa non è più parola feriale; è parola che deve trasformarsi in qualcosa che la trascenda. La mistica intende comunicare qualcosa; ma comunicando, ha consapevolezza che le è richiesto di superare i limiti della parola e delle immagini.

Quando la poesia si pone sulle tracce della mistica, come nel caso della Commedia – che è detta appunto “divina” – quello che sempre accade alla poesia ispirata e che in piccolo assomiglia alla parola della mistica, qui accade all’ennesima potenza, poiché ora il poeta è il mistico che parla di Dio e dell’entrata dell’uomo in Dio. Ecco quello che intendo dire: il poema dantesco può essere letto come lo sforzo costante, perseverante – e in ultimo sconfitto – di dire l’indicibile. Sconfitto, sì, come nella finale di tutto il poema: «A l’alta fantasia qui mancò possa…» (Paradiso XXXIII,142); una battaglia contro il limite della parola, una battaglia contro il limite dell’immaginazione che si scontra con la vastità in-com-prensibile di Dio (che non puoi appunto com-prendere); perché agostinianamente sappiamo che si comprehendis non est Deus.

Dante e la sua poesia insegnano alla teologia di oggi e di ogni tempo il Deus semper maior: che Dio è maggiore del concetto, dell’immaginazione, della parola, della nostra riflessione. La poesia quando si reca tra le lande sconfinate della verità divina, insegna alla teologia l’umiltà e la precarietà della propria opera. Ma insegna anche che qualcosa è necessario dire, su qualcosa è opportuno riflettere. La poesia dantesca dà fiducia alla teologia, quando essa scopre il limite della propria capacità conoscitiva: perché chi ha cercato di toccare Dio non è come prima. Come Dante che torna cambiato alla vita di quaggiù, ad usare le solite parole, a riveder le stelle. Così accade alla teologia, quando essa davvero tocca Dio.




Circa la validità del Battesimo conferito con la formula «Noi ti battezziamo»

250px-Sant'Agostino-d'Ipponadi Alessandro Clemenzia · «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche» (SC 7). Con queste parole, estrapolate dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, viene affermata una verità di fondamentale importanza per l’esperienza cristiana, tanto da innervare l’intera vita liturgico-sacramentale della Chiesa. Tale citazione è stata presa come punto di riferimento anche dal “Responsum” della Congregazione per la Dottrina della Fede per risolvere un dubbio sulla validità del Battesimo conferito con la formula “Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”: si tratta di una nota dottrinale, recentemente uscita (06.08.2020), sulle arbitrarie modifiche delle formule sacramentali stabilite dai testi liturgici della Chiesa, al fine di evitare interpretazioni e prassi disorientanti.

I quesiti posti sono i seguenti. Nel primo ci si chiede se sia valido il Battesimo conferito con la formula: «Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»; nel secondo, ci si domanda se coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula debbono essere battezzati in forma assoluta. Al primo la risposta è negativa; al secondo, invece, è positiva. Ma a chi si riferisce questo fatidico “noi” come soggetto dell’atto sacramentale? La risposta non va ricercata in chissà quale speculazione teologica, ma fa riferimento – come scrive la nota stessa – a un’azione compiuta «a nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità … ».

La modifica della formula tradizionale è sostenuta dall’intenzione di sottolineare il valore comunitario del Battesimo, al contrario da come si potrebbe interpretare quell’ “io ti battezzo”, in cui emergerebbe l’eccessiva importanza conferita al potere sacrale del presbitero a discapito dell’actuosa participatio dei fedeli, tanto auspicata dal Concilio Vaticano II. La sostituzione dell’io con il noi restituirebbe, secondo questa interpretazione pastorale, la giusta collocazione sacramentale degli altri membri della Chiesa.

Prima ancora di entrare nell’argomento propriamente teologico, in cui viene spiegata la natura di quell’io, ci si può domandare quale tentazione può nascondersi dietro tale ingenua preoccupazione pastorale. Viene recuperata una citazione di Romano Guardini, secondo il quale nell’azione liturgica l’orante «deve aprirsi a un altro impulso, di più possente e profonda origine, venuto dal cuore della Chiesa che batte attraverso i secoli. Qui non conta ciò che personalmente gli piace o in quel momento gli sembra desiderabile…» (R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia 2009, p. 196). Proprio nel desiderio di dilatare l’apparente solipsismo dell’io nel noi si nasconde una, seppure inconsapevole, deriva soggettivistica di chi crede di poter manipolare una formula che appartiene alla Tradizione, sostituendola con testi ritenuti più idonei.

Il valore della Tradizione viene affermato, nella nota dottrinale, attraverso un procedimento di ordine metodologico, vale a dire ricorrendo a quello che la Tradizione stessa ha affermato in proposito. Il primo autore ad essere citato è Tommaso d’Aquino, il quale, alla questione «utrum plures possint simul baptizare unum et eundem» (S.Th. III, q. 67, a. 6 c.), risponde in modo negativo. Il secondo è Agostino d’Ippona; di quest’ultimo la nota dottrinale si è servita soprattutto per comprendere la natura di quell’io: non è il presbitero in quanto tale il vero protagonista dell’evento liturgico, ma Cristo stesso (cf. S. Augustinus, In Evangelium Ioannis tractatus, VI, 7), o meglio è la Chiesa che, «quando celebra un Sacramento, agisce come Corpo che opera inseparabilmente dal suo Capo, in quanto è Cristo-Capo che agisce nel Corpo ecclesiale da lui generato nel mistero della Pasqua». A conferma di ciò la nota dottrinale presenta la continuità tra la teologia di Sacrosanctum Concilium e la dottrina dell’istituzione divina dei Sacramenti del Concilio di Trento.battesimo-acqua-fonte-battesimale-CMYK

Proprio in virtù della soggettualità ecclesiale, il celebrante è la Chiesa in quanto Corpo di Cristo che agisce sempre insieme al suo Capo, Cristo stesso, per cui modificare le formule liturgiche «non costituisce un semplice abuso liturgico, come trasgressione di una norma positiva, ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo, che nei casi più gravi rende invalido il Sacramento stesso, perché la natura dell’azione ministeriale esige di trasmettere con fedeltà quello che si è ricevuto (cfr. 1 Cor 15, 3)».

Certamente, il soggetto celebrante non è il presbitero singolarmente preso, ma tutta la comunità dei battezzati; il ministro tuttavia è «segno-presenza di Colui che raduna», e dunque – parole molto forti del documento – egli «è un segno esteriore della sottrazione del Sacramento al nostro disporne e del suo carattere relativo alla Chiesa universale». La ministerialità del presbitero, infatti ha un valore chiaramente relativo a Cristo; e questa verità dottrinale viene confermata da un’altra citazione di Agostino: «Battezzi pure Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; e battezzi anche Giuda, è Cristo che battezza» (S. Augustinus, In Evangelium Ioannis tractatus, VI, 7 ).

Tale relatività del ministro ordinato a Cristo significa che il presbitero agisce non in nome proprio, ma nella persona di Cristo e in nome della Chiesa, e questa dinamica del noi ecclesiale nell’io si esprime proprio «nell’atto esteriore che viene posto, con l’utilizzo della materia e della forma del Sacramento».

La nota dottrinale è chiara: quando lo zelo pastorale porta alla manipolazione di una formula sacramentale non va contro il rubricismo liturgico, ma si imbatte in seri problemi di natura cristologica ed ecclesiologica.




Il mio Crisostomo con Alberto Maggi

41YOsw4CBQL._SY445_QL70_ML2_di Carlo Nardi · Ho goduto d’una lettura, dono d’una mia parrocchiana attenta ai miei gusti: Luglio 2020 / Al mio Priore. Maria, B.: è un libro di Alberto Maggi dei Serviti di Maria ci dona in suo libro: Chi muore si rivede. Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita. Nuova edizione riveduta e ampliata. Quarte ristampa, Garzanti, Milano 2019 (p. 3), Al personale medico, infermieristico e ausiliare del reparto UTIC Lancisi degli Ospedali Riuniti di Ancona (p. 5), e con un Padre Alberto come il frate che libera la Parola (disegno di Dario Fo) (p. 7).

Ne prendo un pezzo che riguarda anche me. Intanto dò la parola a padre Alberto:

Monaci.

Gli anni di teologia a Roma coincidono con la scoperta della trappa delle Tre Fontane, il monastero dei trappisti, monaci cistercensi di stretta osservanza nati nel Seicento che conducono una vita rigorosa fatta di silenzio, preghiera e lavoro manuale.

Mi sento attratto a questa vita contemplativa. Comincio ad andare la domenica, poi i fine settimana e tutte le volte che mi è possibile, e mi trovo sempre meglio. Ogni volta però è sempre più difficile tornare alla realtà.

Dopo giorni trascorsi nel più completo silenzio, nella pace, nella preghiera, tutto mi disturba (mi sembra si essere come di quella suora che mi disse: “Padre, sto tanto bene con il Signore che non sopporto più di stare con le mie consorelle …).

In occasione di un periodo di vacanze resto in trappa per una decina di giorni. Mi piace, amo la preghiera, il silenzio. Poi una mattina leggo la vita di san Giovanni Crisostomo. Questo santo si era ritirato in una grotta in cima a una montagna e viveva di preghiere e penitenze. Un giorno il Signore gli disse più e meno così: “Senti Giovanni, tu restando quassù diventi certamente santo, ma in città la gente si sta dilaniando in lotte intestine. Perché non scendi? Diventerai meno santo, ma porterai la pace”. Giovanni scende e lo fanno vescovo della città. Capisco al volo. Chiudo il libro, faccio i bagagli, lascio la trappa” (pp. 97-98).sangiovanni-crisostomo

A questo punto dò la parola a me medesimo:

Motivi diatribici in Giovanni Crisostomo, dissertazione dattiloscritta, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, anno accademico 1974-1975, relatore Adelmo Barigazzi, correlatori Maurilio Adriani e Mario Naldini, come da diploma di laurea.

Il motivo dell’‘oikeía areté’ nel “Quod nemo laeditur nisi a se ipso” di Giovanni Crisostomo, in Prometheus. Rivista quadrimestrale di studi classici 1 (1975), 266-272.

Motivi tradizionali ed echi basiliani nella diciottesima omelia “De statuis” di Giovanni Crisostomo, dissertazione dattiloscritta, Studio Teologico Fiorentino affiliato alla Facoltà di Teologica della Pontificia Università Gregoriana, anno accademico 1974-1975, relatore Samuele Olivieri o.f.m.

Echi dell’orazione funebre su Basilio Magno di Gregorio Nazianzeno nel prologo del “De sacerdotio” di Giovanni Crisostomo, in Prometheus 2 (1976), 175-184.

Jo. Chrysost. adv. oppugn. vit. mon. 3,7: tracce di un logos attribuito a Socrate, in Prometheus 3 (1977), 267-273.

Jo. Chrysost. hom. 59 (60) in Mt 7: motivi socratici e pseudoplutarchei, in E. Livrea – G.A. Privitera (edd.), Studi in onore di Anthos Arduzzoni, Roma 1978, II, 615-638.

Motivi tradizionali ed echi basiliani nella diciottesima omelia “De statuis” di Giovanni Crisostomo, in Ho Theologos. Cultura cristiana di Sicilia 6 (1979), 61-114.

Quibus de fontibus Iohannes Chrysostomus praestigiatorum exemplum sumpserit, in Latinitas 27 (1979), 180-182.

Quid de margaritarum ordine Iohannes Chrysostomus senserit in Latinitas 25 (1980), 95-99.

Note alla Lettera a Teodoro di san Giovanni Crisostomo, in Rivista di ascetica e mistica 52 (1983) 245-263. 390-417; 53 (1984), 157-170.

Notivi di dibattito (o di diatrina) nella predicazione del Crisostomo, in Rivista di ascetica e mistica 56 (1987), 347-358.

Giovanni Crisostomo. Profilo bioletterario e spirituale, in Rivista di ascetica e mistica 55 (1986 o 1990 ???), 35-53. ???

Le idee antropologiche, morali e pedagogiche di Giovanni Crisostomo e la filosofia popolare, in Vivens homo 1 (1990), 59-78.

L’ideale di felicità in Giovanni Crisostomo e la filosofia popolare. Spunti epicurei, in Vivens homo 2 (1991) 29-68.

Ermione o epifania del femminino. Omero e Giovanni Crisostomo, in Prometheus 19 (1993), 253-264.

Il sapiente ripescaggio di una distinzione. Giovanni Crisostomo nella “Pacem in Terris”, in Rivista di ascetica e mistica 29 (2004), 309-314.

Il “De pueris” di Giovanni Crisostomo. Passione educativa e gusto del racconto, in Giovanni Crisostomo. Oriente e Occidente tra IV e V secolo. XXXIII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma 2005, 23-85.

Gloria a Dio in tutto e per tutto”. Provvidenza divina e libertà umana in Giovanni Crisostomo, in Rivista di ascetica e mistica 76 (2007), 753-775.

In compagnia di Giovanni Crisostomo, in La ‘Populorum progressio’. Ispirazioni patristiche, in Vivens homo 18 (2007), 366-368, in particolare In compagnia di Giovanni Crisostomo, 365-386.

Giovanni Crisostomo predicatore esigente, in L’Osservatore Toscano – Toscana oggi 24 (9 dicembre 2007), n° 44, p. ii.

Salvezza del mondo infraumano. Anche in Giovanni Crisostomo, in Giornale di Bordo di storia, letteratura ed arte terza serie 17 (2008), 43-44.

Eucaristia e conflitti sociali. La proposta di Giovanni Crisostomo, in Vivens homo 22 (2011), 349-367.

Tre amici di san Giovanni Crisostomo. Leggendo un libro di Sergio Zincone, in Vivens homo 23 (2012), 425-431. Cf. S. Zincone, Giovanni Crisostomo. Coscienza critica del suo tempo. Presentazione di mons. Carlo Ghinelli, Roma 2011.

Giovanni Crisostomo. Istantanee e divagazioni, in Rivista di ascetica e mistica 38 (2013), 955-987.

Il simpatico prete Maesinas in Teodoreto di Cirro. Una santità possibile tra Giovanni Crisostomo e Francesco di Sales, in Rivista di ascetica e mistica 38 (2013), 33-58.

Dall’iniziazione alla perfezione cristiana. La dignità del battezzato in Giovanni Crisostomo, in Vivens homo 25 (2014), 403-429.

Credete e vi sarà dato” (Mt 2,2; Lc 11,8): Tertulliano, Giovanni Crisostomo e Agostino sulla preghiera, in Rivista di ascetica e mistica 40 (2015), 575-594.

Giobbe, ‘santo pagano’, in Giovanni Crisostomo, in Il mantello della giustizia in rete, agosto 2016.

Giovanni Crisostomo. “La gloria di colui che tutto move …” (Paradiso I,1), in Il mantello della giustizia in rete, ottobre 2019.

Pertanto da ragazzo mi sono ritrovato con san Giovanni Crisostomo. Ero per le Lettere classiche, ovviamente a Firenze. Poi chiesi al professore di greco, il caro Ademo Barigazzi, la dissertazione. Il 29 aprile 1975 fu il Motivi diatribici di Giovanni Crisostomo. E in ottobre ero in Seminario al Cestello. Mi fa pensare che il Crisostomo mi fosse vicino.




«I diari segreti» di Giulio Andreotti

unnamed (1)di Andrea Drigani · Il primo significato della parola «segreto» è quello di appartato, celato nell’intimo, particolare, dal termine latino «secretus», derivante dal verbo «secernere» che vuol dire, appunto, separare, mettere in disparte. Così si spiega il titolo «I diari segreti» di Giulio Andreotti (1919-2013), usciti recentemente per l’Editore Solferino, a cura dei figli Serena e Stefano con l’introduzione di Andrea Riccardi. Come annota Riccardi: «Questi sono veramente Diari segreti. Giulio Andreotti li compilava solo per sé e se serviva come un aiuto alla memoria». Questi diari sono state preceduti, nella pubblicazione, da altri diari tra i quali sono da rammentare quegli degli anni della «solidarietà nazionale» (1976-1979). I Diari segreti riguardano un arco temporale di dieci anni dal 1979 al 1989, durante i quali Giulio Andreotti ricoprì prima l’incarico di Presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati (1979-1983), quindi di Ministro degli Affari Esteri (1983-1989), fino a quando divenne, per la settima volta, Presidente del Consiglio dei Ministri. In effetti il filo conduttore di queste memorie personali sono proprio la politica internazionale, le relazioni tra gli Stati, una passione per il mondo. All’insegna, come annota Riccardi, di una «cattolicità romana» non solo in senso confessionale, ma culturale. In questo contesto si muove l’azione diplomatica di Andreotti, in costante contatto con la Santa Sede, per impedire le guerre e il nazionalismo. Dagli appunti si vede, tra l’altro, l’attenzione per le complicate questioni mediorientali, anche col coinvolgimento della Chiesa greco-cattolica melkita, e per la tutela dei profughi iracheni cristiani. Ragguardevole anche la sua opera per cercare di togliere il Mozambico, pervenuto di recente all’indipendenza e travagliato da una guerra civile, dall’influenza sovietica e per realizzare un accordo di pace in un paese africano tra i più poveri del mondo. Sull’America Latina, i Diari segreti di Andreotti, svelano un grande lavoro, pure con l’intesa dei partiti democristiani allora assai presenti in quell’area dominata da regimi autoritari. Balza agli occhi la sua tenace volontà di negoziare, per dare concretezza al dialogo, profondamente convinto di un’affermazione di Pio XII nel 1939 che lo aveva impressionato : «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare». E’ da segnalare che nel 1988, durante una visita in Cina, Andreotti incontrò il vescovo «patriottico» di Pechino, che lo pregava di dire a Giovanni Paolo II che bisognava trattare col governo cinese. Andreotti, non solo nei diari, ha sempre espresso la sua opinione favorevole per risolvere la questione cattolica in Cina, perciò non si mise a difendere la Chiesa «clandestina», come non attaccò quella «patriottica». Rilevanti appaiono le sue azioni per lo sviluppo e l’allargamento della Comunità Europea, presupposto per un grande salto di qualità e di crescita per l’intera comunità internazionale. Non si precluse a iniziative di confronto e di ricerca di nuovi equilibri con gli Stati comunisti.l_157b_ga-e-famiglia-1968_2822x2207 Giulio Andreotti, anticomunista e antifascista, in quanto sincero democratico alla scuola di Alcide De Gasperi (1881-1954), non si scandalizzò della cosiddetta «Ostpolitk» vaticana forse convinto che, prima o poi, il totalitarismo d’origine marxista, almeno in Europa, sarebbe finito, perché conteneva in nuce gli elementi che avrebbero inevitabilmente condotto alla dissoluzione. Andrea Riccardi rileva, nell’introduzione, che Giulio Andreotti non è soltanto l’uomo delle relazioni internazionali, ma è l’uomo che si è dedicato tanto alla politica italiana, orgoglioso del ruolo del suo partito, la DC, nell’Italia del dopoguerra e nella ricostruzione. «La DC – scrive Riccardi – è una sua grande passione…E’ rimasto sempre un democristiano convinto, anche dopo la scomparsa del suo partito».




L’insegnamento della Bibbia in Italia e in Polonia nel dopoguerra: Firenze e Breslavia 

download (7)di Stefano Tarocchi · Sta per essere pubblicato un saggio dal titolo La Bibbia su entrambi i lati della Cortina di ferro. L’autore, il biblista Sławomir Stasiak della Pontificia facoltà teologica di Breslavia (Wrocław),  affascinante città situata nella regione della Slesia, aggiunge un sottotitolo eloquente: Studio storico dell’insegnamento delle materie bibliche sull’esempio della facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze e della Pontificia facoltà teologica a Breslavia

Il lavoro è frutto di una ricerca accurata, compiuta in Italia e in Polonia: due realtà estremamente diverse ma con molti punti di contatto. Nella prima parte dello studio, in virtù delle relazioni intercorse fra le due istituzioni, viene presa in esame la Facoltà Teologica dell’Italia centrale, allora Studio Teologico Fiorentino. Tutto questo a partire da quei cenni storici che l’autore con molta saggezza ha voluto riprendere facendo riferimento alla storia plurisecolare dell’istituzione fiorentina che inizia nel 1348: lo «Studium generale florentinum, ossia l’Università degli studi, che in perpetuo all’istituzione la facoltà di addottorare in sacra pagina, in utroque iure e in medicina».  

Il professor Stasiak ha dettagliatamente studiato il ‘900, per ricostruire l’ambiente in cui è stata eretta l’attuale Facoltà Teologica dell’Italia Centrale a partire prevalentemente dal secondo dopoguerra. Di fatto come sappiamo c’è una continuità ininterrotta del 1348 al 1932, quando al tempo dell’arcivescovo del tempo, il cardinale Elia Dalla Costa venne “sospesa” l’Università dei teologi.  

Sławomir Stasiak ha trasferito all’interno del suo studio una disamina sulla mole di dati che interseca anche la storia del Seminario maggiore arcivescovile, e che tenta di ricostruire la ratio studiorum quando a partire dal 1976, l’allora Studio teologico Fiorentino Riprende il cammino verso l’attuale facoltà teologica dell’Italia centrale. 

Uno sguardo approfondito è dato alla biblioteca, che fu intitolata al cardinale Silvano Piovanelli di felice memoria, e al suo patrimonio librario, vero ambito qualificante di una istituzione accademica, insieme naturalmente all’attività editoriale. 

L’attenzione principale di questa sezione del saggio è dedicata alla disanima della struttura degli studi biblici, e naturalmente dei loro docenti in Firenze: soprattutto da Bartoletti, a Vannucci, a Mannucci, a Marconcini, a Randellini: nel loro ambito, insieme ai docenti di altre discipline, si vanno a configurare le fondamenta della attuale Facoltà Teologica dell’Italia centrale.  

Questo saggio ricostruisce significativamente anche il modo in cui gli alunni dell’allora Seminario minore fiorentino studiavano al tempo la storia di Israele: una vera e propria completa formazione pre-teologica che doveva servire a completare la loro formazione precedente, che occupa diverse pagine nella stesura di questo testo. Significativo è che questo insegnamento veniva somministrato agli studenti della prima e della seconda media fornendo un quadro direi notevolmente completo e quella che un tempo era chiamata la “Storia sacra”, ma si trova anche la lista, fino al 2018, di tutti i dottorati in sacra teologia in ambito biblico espressi dalla FTIC.  Firenze-inaugurata-la-nuova-sede-della-Facolta-Teologica-dell-Italia-Centrale_articleimage

naturalmente questa lista di dati completata da una bibliografia molto ricca sarà utile per un ulteriore approfondimento naturalmente tenendo conto che perseguire l’autore al di qua della Cortina di ferro il percorso era necessariamente molto diverso. 

Molto più ampia inevitabilmente la trattazione sulla Pontificia facoltà teologica di Breslavia (PWT), la cui storia inizia nel 1565, con il seminario teologico che, secondo il decreto del Concilio di Trento preparava i candidati al sacerdozio. Nel 1702 l’imperatore austriaco Leopoldo I istituisce l’Academia e Universitas Leopoldina, sotto l’autorità della compagnia di Gesù, con le due facoltà di teologia e di filosofia. Nel 1811 viene trasferita a Breslavia l’università di Francoforte sull’Oder: quattro facoltà (teologia evangelica, legge, medicina e filosofia). Questa nuova università comprende le facoltà già esistenti nella Accademia leopoldina.  

Nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, dopo che l’università di Breslavia aveva iniziato la sua attività già nel novembre di due anni prima, nel 1947 viene inaugurato il primo anno accademico al seminario arcivescovile di Breslavia. Siamo al tempo in cui il regime comunista intensifica la sua lotta alla Chiesa Cattolica e alle sue istituzioni.  

Questo vanifica il tentativo di ripristinare la Facoltà di teologia, manifestata in una lettera del ministero dell’istruzione del 1948 in cui si ritiene non necessaria una facoltà di teologia a Breslavia, data l’esistenza di altri centri accademici, come Cracovia, Varsavia e Lublino. 

Arriviamo così al 1968 quando la Congregazione per l’educazione cattolica (CEC) riconosce lo Studio Teologico Accademico come una continuazione della facoltà di teologia cattolica esistente in Breslavia, e anche l’uso del titolo facoltà teologica di Breslavia.  

In seguito agli accorti tra il governo polacco e la conferenza episcopale del 1989, e soprattutto del 1996, arriviamo all’anno 1999, quando il nome della facoltà teologica assume la denominazione di Pontificia facoltà teologica di Breslavia. Infine, nel 2001 la medesima PWT di Breslavia riceve lo status di università. 

Questo prezioso lavoro descrive accuratamente l’ordinamento dell’insegnamento della facoltà medesima e tutti i passaggi a livello accademico complesso la lista dei docenti distinti per l’appartenenza geografica, fra “locali”, ossia di Breslavia, e “pendolari”, ossia delle sedi ad essa afferenti, che ha portato al decreto della CEC del 1968.  

Dopo aver accennato all’attività editoriale, e alla preziosa biblioteca di Breslavia – che ha recentemente costruito ex novo una splendida nuova sede – lo studio del prof. Stasiak delinea la struttura degli studi biblici in tutto il suo complesso evolversi nei vari decenni.  

Segue poi la lista dei docenti della sacra scrittura a Breslavia, compreso lo stesso Stasiak, Ma si aggiungono anche i docenti degl’istituti collegati dei Salvatoriani, delle vicine diocesi di Świdnica e di Legnica. 

Sono particolarmente interessanti i programmi delle singole materie insegnate a Breslavia negli anni successivi alla guerra dal 1948 in avanti.

Nella conclusione, l’autore fa riferimento al fatto che soltanto durante gli anni ‘60 i docenti di Sacra Scrittura di Breslavia iniziarono a tornare nella loro città dopo gli studi compiuti a Lublino o a Varsavia, ma anche a Roma al Pontificio Istituto Biblico e alla Pontificia Università Gregoriana.  

Ci fu evidentemente un salto qualitativo enorme che la medesima facoltà ha compiuto nell’attraversare l’arco temporale che arriva ai giorni nostri. Non può essere dimenticato un punto nodale: gli esiti della Seconda guerra mondiale, con il regime comunista totalmente incluso nell’orbita dell’allora URSS. 

Si tratta di un quadro che in larga parte è peculiare della Polonia, ma ugualmente significativo, in quanto il nucleo forte della fede cattolica della nazione ha saputo mantenere un livello estremamente elevato degli studi. Questo permette oggi al Rettore della Pontificia facoltà teologica di Breslavia di potersi esprimere accademicamente, e non solo, da pari a pari con i rettori delle altre università della sua città.




Il dramma della disoccupazione giovanile in Italia e in Europa.

downloaddi Carlo Parenti · E’ noto che il 20 e 21 agosto 1977 Giorgio La Pira dettò la sua ultima lettera indirizzata al papa Paolo VI. In essa si legge, tra l’altro,: “Beatissimo Padre, Le scrivo all’estremo delle forze in cui mi trovo. RaccontarLe tutto è inutile[…]Certo quando si è in condizioni come la mia non si sa davvero cosa fare: davanti a noi c’è il Corpo della Chiesa ogni giorno più crescente: che sarà? Ci poniamo questa domanda proprio mentre il Signore ci invita a riflettere sulla situazione in cui si trovano migliaia di giovani. Preghi per me. Con rinnovato affetto. La Pira[…]”.

Non fu un caso. Parlando infatti della morte disse (1934) ai suoi giovani studenti universitari: “Qualche volta ci viene il pensiero della morte: allora ci viene subito un ricordo consolante: Siete Voi giovani! Come sarà bello se in quel punto supremo potremo ricordarci dei Vostri volti […] allora diremo: ebbene la vita è finita, ma […] pure un consumante desiderio di bene per queste creature buone lo avemmo”.E in quel «punto supremo» si ricordò davvero dei suoi giovani, con profetiche parole tuttora di incredibile attualità. Davvero commovente! Certo La Pira aveva una visione cosmica e credo già vedesse le sfaccettature mondiali della situazione giovanile. Vorrei con questa premessa dare solo qualche dato sulla situazione che reputo drammatica in cui si trovano i giovani europei e italiani in relazione alla possibilità di avere un lavoro. Attingo ai dati Eurostat, ISTAT, ma parto dai dati europei in generale.

Per Eurostat 15,184 milioni di uomini e donne nell’UE-27 , di cui 12,793 milioni nell’area dell’euro (EA-19) , erano disoccupati a luglio 2020. Rispetto a giugno 2020, il numero di persone disoccupate è aumentato di 336 000 nell’UE e di 344 000 nell’area dell’euro. Nel luglio 2020, il tasso di disoccupazione destagionalizzato dell’area dell’euro è stato del 7,9%, rispetto al 7,7% di giugno 2020. Il tasso di disoccupazione dell’UE è stato del 7,2% a luglio 2020, in aumento dal 7,1% a giugno 2020.

La odierna situazione complessiva della disoccupazione in Italia anche a causa della pandemia da Covid non è migliore, anzi. A giugno 2020 il tasso di disoccupazione generale è risalito all’8,8%, in aumento di 0,6 punti rispetto a maggio. Corrisponde a più di 2,5 milioni di residenti. La crescita delle persone in cerca di lavoro, per l’Istat, è «consistente», pari a 149mila unità in più (+7,3%). Il rialzo, «riguarda soprattutto gli uomini (+9,4% pari a +99mila unità, contro il +5,0%, pari a +50mila, delle donne) e interessa tutte le classi di età». Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) aumenta al 27,6%, in rialzo di 1,9 punti rispetto al mese precedente. Sono dunque 752mila i nuovi disoccupati: «Da febbraio 2020 il livello dell’occupazione è sceso di circa 600mila unità e le persone in cerca di lavoro sono diminuite di 160mila, a fronte di un aumento degli inattivi di oltre 700mila unità», facendo il confronto con il periodo appena precedente al deflagrare dell’epidemia di COVID. «Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione – scrive l’Istat – hanno determinato un calo rilevante rispetto al mese di giugno 2019 (-3,2% pari a -752mila unità), che coinvolge entrambe le componenti di genere, i dipendenti (-613mila), gli autonomi (-140mila) e tutte le classi d’età; l’unica eccezione risultano essere gli over50 (+102mila)». A Luglio, invece, Il tasso di disoccupazione è salito al 9,7% e, tra i giovani, al 31,1% .
Tra le donne invece il tasso è stato del 10,9 %.(un punto abbondante più del dato nazionale e 3,4% in più della media EU).La gravità della questione femminile in Italia risulta dai dati sull’occupazione e sull’inattività (la condizione di chi non è occupato e non cerca nemmeno lavoro). Il tasso di occupazione, che a livello nazionale è pari al 59,2 per cento -tra gli uomini è pari al 68,2 per cento- tra le donne al 50,2 per cento (una donna su due in età compresa tra i 15 e i 64 anni, cioè, non è né occupata, né disoccupata, né in cerca di lavoro). Il tasso di inattività, che a livello nazionale si attesta al 34,3 per cento, tra i maschi è poi pari al 25 per cento, mentre tra le donne al 43,5 per cento. In Europa (UE) nel luglio 2020, il tasso di disoccupazione femminile era del 7,5% nell’UE, dal 7,3% nel giugno 2020. Il tasso di disoccupazione maschile era del 7,0% nel luglio 2020, dal 6,8% nel giugno 2020. Nella zona euro, il tasso di disoccupazione femminile è aumentato dall’8,0% nel giugno 2020 all’8,3% nel luglio 2020 e dal 7,5% al ​​7,6% per gli uomini. Quindi l’Italia (10,9%) è pesantemente peggiore della media EU. Se guardiamo ai dati italiani sul tasso di disoccupazione suddivisi per fascia di età emerge una situazione molto poco omogenea, che vede i lavoratori più anziani in una condizione nettamente migliore rispetto ai più giovani. Preciso che quando si parla di “disoccupazione giovanile(vedi)
, si intende la fascia 15-24 anni (31,1% a luglio). Invece nel luglio 2020 2,906 milioni di giovani (sotto i 25 anni) erano disoccupati nell’UE, di cui 2,338 milioni nell’area dell’euro. A luglio 2020, il tasso di disoccupazione giovanile era del 17,0% nell’UE e del 17,3% nell’area dell’euro, in aumento rispetto al 16,9% e al 17,2% rispettivamente del mese precedente. Tasso di disoccupazione giovanile del 15,1% (in Italia: 31,1%%). (Va Precisato che i tassi di disoccupazione citati e gli indici di disoccupazione differiscono perché i tassi di disoccupazione includono nel denominatore solo la parte della popolazione che si trova nel mercato del lavoro. A 15 anni, quasi il 100% della popolazione giovanile dell’UE e dei suoi Stati membri va ancora a scuola. Man mano che i giovani crescono, molti entrano nel mercato del lavoro, diventando occupati o disoccupati. Si consideri a proposito che nell’Europa a 27 stati il numero di giovani al di fuori della forza lavoro è come detto pari nel 2020 a 2,9 milioni su un totale di circa 46,3 milioni di persone tra i 15 ei 24 anni).lavoro-0410

Vediamo anche il raffronto coi paesi europei quanto alla disoccupazione giovanile, dati Eurostat al 2019.

I tassi di disoccupazione giovanile più bassi sono stati osservati in Repubblica Ceca (5,4%), Germania (6,1%) e Paesi Bassi (6,9%), mentre i più alti sono stati registrati in Grecia (35%), Spagna (33%) e Italia (31,1%). L’Italia inoltre ha il tasso di occupazione giovanile più basso a livello europeo (56,3%, contro una media Ue del 76% nella fascia 25-29 anni) e il più alto tasso di giovani che non studiano e non lavorano (29,7%, media Ue 16,6%). Inoltre va considerato il tasso di abbandono scolastico che va dall’11,5% delle femmine al 15,4% dei maschi, il terzultimo peggiore in Europa.

Il nostro paese non è dunque favorevole per i giovani. La conseguenza? Oltre 320mila ragazzi e ragazze (20-34 anni) hanno lasciato l’Italia tra il 2009 e il 2018, molti dei quali senza prospettiva di ritorno. Sono cifre, tutte quelle sopra, che sembrano aride, ma rappresentano il vissuto di persone vere con i loro sentimenti, speranze e drammi reali.

Per il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella il «lavoro che manca» è il vero nemico da sconfiggere. Per papa Francesco (vedi l’esortazione apostolica “Christus vivit”) è nel mondo del lavoro che i giovani sperimentano forme di esclusione ed emarginazione: la prima e più grave, per il Papa, è la disoccupazione giovanile, già da lui definita “un peccato sociale” e “che in alcuni Paesi raggiunge livelli esorbitanti”. “Questo non va bene, perché il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale” “Oltre a renderli poveri, la mancanza di lavoro recide nei giovani la capacità di sognare e di sperare e li priva della possibilità di dare un contributo allo sviluppo della società”.

Va detto però che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel suo programma ha promesso maggiore impegno per l’occupazione giovanile. Speriamo!!!




Bellezza «smisurata» e bellezza «misurata». Complementarità di virtù teologali e virtù morali

Erio-Castelluccidi Gianni Cioli · «La fondamentale differenza tra la bellezza greca e la bellezza cristiana è proprio questa: i greci individuavano la bellezza nel logos, nell’armonia che proporziona gli elementi corporei e spirituali; i cristiani identificano la bellezza nell’amore, nell’agape, cioè nel dono della vita. I cristiani non negano affatto il logos, affermando anzi che la realtà è ordinata e prende significato da Cristo, logos nel quale Dio ha creato il mondo (cf. Gv 1,1-3); però danno un nome più concreto a questa armonia, chiamandola agape, dono di sé. Dio stesso è chiamato “amore”, agape (cf. 1 Gv 4,8.16), proprio perché è dono. Il dio greco è armonia in sé, mentre il Dio cristiano è dono di sé; il dio greco è compreso da se stesso, autarchico, mentre il Dio cristiano esce da se stesso, si offre all’uomo. La bellezza, per i cristiani, non è una qualità racchiusa nell’oggetto, una bellezza semplicemente da ammirare; è invece una bellezza che esce da se stessa, una bellezza da accogliere» (E. Castellucci, Eucaristia e vita sacerdotale, di prossima pubblicazione su Vivens homo).

Queste parole pronunciate dal Vescovo Erio Castellucci nella Basilica fiorentina di San Lorenzo il 25 settembre 2020 in occasione della celebrazione del cinquantesimo anniversario di ordinazione presbiterale del Card. Giuseppe Betori, mi hanno stimolato a riflettere sulla bellezza della morale cristiana e sul suo rapporto con la bellezza della morale umana. Sicuramente c’è una bellezza della morale umana che consiste nel riconoscimento e nell’attuazione della giusta misura nel rapporto con se stessi e nel rapporto con gli altri. Come afferma Tommaso d’Aquino, citando Aristotele «la virtù morale è un abito elettivo che sta nel giusto mezzo» (I-II q. 64 a. 1 s. c.). La bellezza della morale cristiana, tuttavia, non si accontenta del giusto mezzo. Infatti le virtù teologali, fede, speranza e carità, come afferma sempre Tommaso, non consistono, per quanto concerne la loro ragione intrinseca (secundum ipsam rationem virtutis), in un giusto mezzo, ma in un asintotico movimento di sbilanciamento verso il «senza misura» di Dio (Gv 3, 34): «l’uomo non potrà mai, né amare Dio quanto è tenuto ad amarlo, né credere o sperare in lui quanto è necessario. A maggior ragione non potranno in questo esserci degli eccessi» (I-II q. 64 a. 4 co.). Tuttavia sarebbe sbagliato credere che la bellezza della morale cristiana possa eludere l’impegno di delineare la giusta misura dell’agire. Per essere praticate le virtù teologali hanno bisogno della pratica delle virtù cardinali che necessitano della determinazione della giusta misura. Non ci può essere vera carità, ad esempio, se si elude l’impegno per la giustizia (ovvero a dare a ciascuno il suo, determinandolo nella misura dovuta). D’altra parte la storia dei fanatismi religiosi, anche in ambito cristiano (pensiamo al famigerato falso misticismo e al dominio delle coscienze talora collegato a gravi e ben noti abusi), ci spinge a non confondere ogni abbondanza di zelo negli atteggiamenti religiosi con l’autentico esercizio della vita teologale. A questo proposito lo stesso Tommaso riconosce che, «rispetto a noi» (ex parte nostra), «si può indirettamente determinare un giusto mezzo» anche «nelle virtù teologali», infatti, «sebbene non si possa amare Dio quanto si deve, tuttavia dobbiamo avvicinarci a lui, credendo, sperando e amando, secondo la misura della nostra condizione» (I-II q. 64 a. 4 co.). Educare alla bellezza della misura e quindi al senso del limite, contrastando con coraggio l’odierna cultura dell’eccesso, appare una sfida di capitale importanza per il futuro della nostra società. Pensiamo all’importanza d’imparare ad abitare il limite, per quanto concerne l’ecologia ambientale, ma anche alla necessità di apprendere a gestire le emozioni per quanto concerne l’ecologia umana tanto cara a Papa Francesco. La bellezza della morale cristiana consiste nella disposizione al dono di sé senza misura, ovvero senza calcoli di tornaconti personali, tipico della carità, ma tale disposizione necessita, per attuarsi nella concretezza della condizione umana, anche dell’attenzione alla misura insita nell’esercizio della prudenza e di tutte le virtù morali. La bellezza “smisurata” della morale cristiana accoglie e porta a compimento la bellezzatommaso_d_aquino_001 “misurata” della morale umana, alla quale, del resto, non può rinunciare. Certo, nell’orizzonte del cristiano non c’è la bellezza di una perfezione autoreferenziale (cf. Mt 5,48; Lc 6,36) congruente con una concezione autarchica del Logos. L’anelito del cristiano alla misura giusta e bella, nelle sue emozioni come nelle sue azioni, si pone a servizio della sua risposta alla misericordia divina che chiama alla misericordia. È una risposta che s’incarna nell’esercizio di un culto “ragionevole” (logike latreia) attuato mediante un paziente discernimento, come sintetizza con estrema efficacia Paolo nella Lettera si Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (logike latreia). Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).




In attesa dell’enciclica «Fratelli tutti»

downloaddi Leonardo Salutati · Papa Francesco promulgherà, il 4 ottobre, nella festa di san Francesco d’Assisi, un’enciclica sulla fraternità che dovrebbe essere ispirata dalla riflessione sulla fratellanza umana di Abu Dhabi (febbraio 2019), da quanto proposto nella Lettera ai movimenti popolari (aprile 2020) e dalle catechesi dettate nel corso delle udienze riprese ad agosto scorso.

Durante queste udienze, il Papa ha invitato i cristiani a farsi autentici discepoli di Cristo Guaritore per la guarigione del nostro mondo malato di Covid-19, ma soprattutto di ingiustizia e di altre “malattie sociali”, rivisitando la Dottrina sociale della Chiesa e i suoi principi «che possono aiutarci ad andare avanti, per preparare il futuro di cui abbiamo bisogno» e aiutare «i responsabili della società a portare avanti … la guarigione del tessuto personale e sociale» (5/08/20).

Tra questi principi il papa ha richiamato i principali, «tra loro strettamente connessi: il principio della dignità della persona, il principio del bene comune, il principio dell’opzione preferenziale per i poveri, il principio della destinazione universale dei beni, il principio della solidarietà, della sussidiarietà», aggiungendone uno nuovo, quello della «cura per la nostra casa comune». Sono tutti principi che «esprimono, in modi diversi, le virtù della fede, della speranza e dell’amore» (ibid).

Papa Francesco ha denunciato «la visione distorta della persona, … che ignora la sua dignità e il suo carattere relazionale» e conduce a guardare «gli altri come oggetti, da usare e scartare» (12/08/20), espressione dei due mali dell’«indifferenza» e dell’«egoismo». Al riguardo ha ricordato invece il valore della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, nella cultura moderna, è l’espressione più vicina alla «dignità inalienabile» della persona «creata a immagine di Dio» (GS 12), diritti che non sono soltanto individuali ma anche sociali: sono dei popoli e delle nazioni (cf. CDSC 157).download (1)

Il Santo Padre ha poi insistito sul fatto che la pandemia ha smascherato e accresciuto le disuguaglianze nel mondo e che la cura non può non passare anche dalla necessità di «curare un grande virus, quello dell’ingiustizia sociale». Per questo, l’«opzione preferenziale per i poveri» è una necessità, espressione della sequela di Gesù che mette al centro chi è ai margini della società. In questo orizzonte è necessario elaborare piani di ripresa economica che aiutino ad uscire dalla crisi con un’economia più giusta e meno distruttiva dell’ambiente, che assicuri «lo sviluppo integrale dei poveri» e non «l’assistenzialismo», favorendo la «creazione di posti di lavoro dignitosi», promuovendo «l’economia reale» e non la sola ricerca del profitto. Il denaro destinato alla ripresa economica – che è per lo più pubblico – dovrebbe aiutare quelle industrie che rispondano a quattro criteri: contribuire «all’inclusione degli esclusi, alla promozione degli ultimi, al bene comune … alla cura del creato» (19/08/20).

L’attuale «economia malata» è il risultato di un desiderio di dominio dell’uomo sull’uomo che non considera che la terra non è una proprietà assoluta, ma un dono fatto «a tutta l’umanità» (CCC 2402). «L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (GS 69). Infatti, «la proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri». Tutto ciò autorizza l’autorità politica a «regolamentare, secondo il «bene comune», il legittimo esercizio del diritto di proprietà. Solo così facendo sarà possibile alimentare veramente la «speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo» (26/08/20)

La «pandemia ha evidenziato la nostra interdipendenza: siamo tutti legati, gli uni agli altri, sia nel male che nel bene», pertanto, possiamo uscire da questa crisi solo insieme. L’interdipendenza richiede «solidarietà», cioè «creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni». L’opposto della solidarietà è la “Torre di Babele“ (cf. Gen 11,1-9), «che descrive ciò che accade quando cerchiamo di arrivare al cielo – la nostra meta – ignorando il legame con l’umano, con il creato e con il Creatore» (02/09/20).

Nella pandemia, purtroppo vi è anche «chi vorrebbe appropriarsi di possibili soluzioni, come nel caso dei vaccini e poi venderli agli altri», ma il vaccino Covid dovrà essere «universale e per tutti», senza «priorità ai più ricchi» né «proprietà di questa o quella Nazione» (19/08/20). Decisioni diverse vanno contro il bene comune e l’amore cristiano, che non si limita alla sua ristretta cerchia ma ama anche i nemici: «noi dobbiamo amarli, dobbiamo dialogare, dobbiamo costruire questa civiltà dell’amore, questa civiltà politica, sociale, dell’unità di tutta l’umanità. Tutto ciò è l’opposto di guerre, divisioni, invidie, anche delle guerre in famiglia. L’amore inclusivo è sociale, è familiare, è politico: l’amore pervade tutto!» (09/09/20).

Infine, è importante imparare a prendersi cura dei più vulnerabili e della nostra casa comune. Il modo migliore è la contemplazione «del più bello dei figli dell’uomo» (Sal 44,3) il Signore Gesù, nonché della creazione, che apre il nostro sguardo oltre l’utilità. Infatti: «Quando non si impara a fermarsi ad ammirare e apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli». La contemplazione ci ricorda «la nostra vocazione di custodi della vita», sia del Creato che degli esseri umani (16/09/20).