Don Giulio Facibeni e la Sua Opera : una riflessione sulla «Gaudete et Exsultate» di Papa Francesco

don-giulio-facibeni-590x380di Carlo Parenti • In questo mese di giugno l’Opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa” ricorda il 60° anniversario della scomparsa di don Giulio Facibeni (2 giugno) , che ne fu il fondatore, e festeggia il 94° compleanno di don Corso Guicciardini (12 giugno) che dal Padre fu scelto come Suo successore.

Oggi – in questa nostra società dove l’individualismo possessivo porta a disinteressarsi degli altri, specie dei più bisognosi, e l’apparire è più importante dell’essere- risulta quasi incomprensibile il cammino spirituale di don Giulio Facibeni e poi di don Guicciardini che decise di seguire l’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa. Uomini che per tutta la vita hanno inseguito l’annientamento del proprio io nella carità e nella misericordia.

«Perché sono sacerdote? Perché c’era la povertà. Non si può vivere il Vangelo senza abbracciare la povertà! I poveri ti rivoluzionano il mondo interiore, perché ti fanno capire che non sei nulla! Un oceano di bisogni. Ti avvicini e ti assorbono, ti prendono tutto, ti trasformano. Essere cristiani non è il chiedere a Dio quello che noi vogliamo da Lui, ma è fare quello che Lui vuole da noi. Spogliarsi di tutto per essere Suoi strumenti di misericordia e carità»: queste le risposte di Corso Guicciardini – come mi ha detto in un lungo recente colloquio- alla tragedia della vita, alla tragedia della povertà. La rinunzia alla ricchezza è la vera ricchezza. La miracolosa capacità di un ricco di passare attraverso la cruna dell’ago, vincendo la sfida del Vangelo. Ma questa rinuncia ha generato –per dirla con don Facibeni «fatti e non parole» per tante «povere creature» che soffrivano la «miseria e l’abbandono». Davvero gli “scarti”.

Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Gaudete et Exsultate, sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (data a Roma, il 19 marzo, Solennità di San Giuseppe, dell’anno 2018) ci indica un percorso del quale le esperienze di “carità” di don Giulio e di don Corso sono per me un esempio luminoso e illuminano la storia e il futuro dell’opera della divina Provvidenza “Madonnina del Grappa”.
Francesco ci ricorda infatti il valore della povertà, di spirito e materiale:

68. Le ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di dio, per amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si priva dei beni più grandi. Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità.

69. Questa povertà di spirito è molto legata con quella “santa indifferenza” che proponeva sant’Ignazio di Loyola, nella quale raggiungiamo una bella libertà interiore: «Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e così in tutto il resto».

70. Luca non parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (cfr. Lc 6,20), e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia. In questo modo, ci chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è fatto povero» (2Cor 8,9). Essere poveri nel cuore, questo è santità.

Voglio ricordare con le parole di don Carlo Zaccaro che «La profezia di don Facibeni è costituita dall’annuncio, in8894690_3235050 tempi ancora lontani dal Concilio, di una nuova linea pastorale nella quale il sacerdote diventa il testimone della paternità di dio e lui stesso padre […] Egli realizzava il munus apostolicum del sacerdote secondo il Vangelo, rimanendo immerso nelle attese e nei bisogni della povera gente e nella speranza missionaria di salvezza della nostra Santa Chiesa. In una comunità presbiterale, missionaria, don Facibeni ha cercato anticipando di anni, lo slancio e la franchezza per l’evangelizzazione dei più poveri in una fedele lettura dei segni dei tempi». Osservo anche che furono uomini come il cardinal Giacomo Lercaro e don Giuseppe Dossetti che riuscirono (anche ben conoscendo il Padre e esperienze quali quelle della Madonnina del Grappa o del Prado) a farsi veicolo per introdurre nei testi conciliari, con solo i pochi richiami consentiti dai tempi, il discorso della Chiesa povera e dei poveri a partire dal mistero del Cristo povero.

Mi riferisco all’ottavo punto del capitolo I della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen Gentium: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo «che era di condizione divina… spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo» (Fil 2,6-7) e per noi «da ricco che era si fece povero» (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre «ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito» (Lc 4,18), «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo.» Spogliarsi; farsi poveri; diffondere con l’esempio; riconoscere nei poveri e nei sofferenti l’immagine di Gesù. È cioè la strada di carità già percorsa da Giulio Facibeni.
Concludo con le parole di Francesco che ci rafforzano nella nostra speranza di un domani in cui sempre più persone nel loro viaggio terreno sulla strada della santità raggiungano la meta.

[…] esiste una gerarchia delle virtù, che ci invita a cercare l’essenziale […] al centro c’è la carità. San Paolo dice che ciò che conta veramente è «la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). […]Perché «tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso»221 (Gal 5,14). […] in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte. Poiché «che cosa resta, che cosa ha valore nella vita, quali ricchezze non svaniscono? Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Queste due ricchezze non svaniscono!».