Circa il ruolo dei Metropoliti nella Chiesa latina.

696 475 Andrea Drigani
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bonifacio-696x475di Andrea Drigani Il recente Motu Proprio «Vox estis lux mundi», che è stato illustrato da Francesco Romano nel numero di giugno di questa Rivista, attribuisce alcune funzioni agli Arcivescovi Metropoliti in ordine alla repressione di crimini sessuali da parte di sacerdoti e vescovi. Ciò potrebbe essere l’occasione per iniziare una riflessione de iure condendo sul ruolo degli Arcivescovi Metropoliti. Il noto canonista Giorgio Feliciani, nel 1984, osservava: «Attualmente i poteri del metropolita sono pressoché inesistenti». Il riferimento è ai canoni 435-437 del «Codex iuris canonici» del 1983, che però hanno quasi completamente reiterato i canoni 272-279 del «Codex iuris canonici» del 1917. Le affermazioni di Feliciani sono pienamente condivisibili, anche se, come vedremo, la normativa del 1983 potrebbe contenere un’indicazione interessante per ulteriori e proficui sviluppi circa i compiti degli Arcivescovi Metropoliti. Per quanto attiene allo storia di questo ufficio, che è assai antico (Cfr. Willibald M. Plöchl, «Storia del diritto canonico», Milano, 1963, I, 159-162, 356-359; II, 121-124), si può osservare che le diocesi, solitamente di dimensioni piccole, venivano raggruppate in province ecclesiastiche (metropolie) presiedute, appunto, da un arcivescovo metropolita che teneva anche il governo della propria diocesi. Questo è avvenuto sia nella Chiesa latina che nelle Chiesa orientali. Tra i diritti del metropolita si possono rammentare quello di prendere parte all’elezione dei vescovi della provincia (detti suffraganei) e di confermarne l’elezione. Segno di questo ruolo fu l’uso, a cominciare dal VI secolo, del pallio (una benda di lana bianca, contraddistinta da 6 croci di seta nera, girata intorno alle spalle, con due lembi pendenti, l’uno sul petto, l’altro sul dorso) che significava, oltre alla accresciuta potestà, anche il legame col Romano Pontefice. Dopo una parziale decadenza dell’istituzione metropolitana, per le resistenze dei singoli vescovi diocesani nonché per le perplessità circa l’esercizio del primato petrino, sarà il santo vescovo e martire Bonifacio (675-755), l’apostolo della Germania, a rilanciare tale istituto, poiché intendeva unire i benefici di una posizione superiore del metropolita nei riguardi dei vescovi suffraganei, con una maggiore comunione con la Sede Romana, onde evitare il rischio di una pericolosa autonomia. Lo scopo di san Bonifacio era di costituire i metropoliti come una realtà intermedia tra il Vescovo di Roma e i vescovi diocesani; proprio per questo impose il dovere che il pallio doveva essere ricevuto dal Romano Pontefice e di emettere la professione di fede prima di assumere il governo della provincia ecclesiastica. Si può notare che nelle Chiese orientali, che già conoscevano un istituto sovraepiscopale quale il patriarcato, i metropoliti conservavano il loro specifico ruolo. Nella Chiesa latina, invece, nonostante la riforma di Bonifacio, le funzioni degli arcivescovi metropoliti vengono ridimensionate sia per certe pretese «autonomistiche» di alcuni metropoliti, sia per l’intervento delle autorità civili, sia per una certa insofferenza dei vescovi suffraganei nei confronti del metropolita, sia, infine, per le preoccupazioni della Curia Romana affinché l’autorità degli arcivescovi metropoliti non si contrapponesse all’autorità pontificia. Nel Concilio di Trento si canonizza tale ridimensionamento, che viene confermato nel «Codex iuris canonici» del 1917. Come si è già scritto, il vigente «Codex» del 1983, che riporta in gran parte le disposizioni del 1917, attribuisce all’Arcivescovo Metropolita, previo consenso della maggioranza dei vescovi suffraganei, la convocazione del concilio provinciale, compete inoltre all’Arcivescovo metropolita di vigilare, nelle diocesi suffraganee, affinchè la fede e la disciplina ecclesiastica siano accuratamente osservate, e di informare il Romano Pontefice su eventuali abusi. Ha poi l’onere di fare la visita canonica, per una causa precedentemente approvata dalla Santa Sede, se il vescovo suffraganeo l’avesse trascurata. Al Metropolita spetta poi, di procedere alla nomina dell’amministratore diocesano, qualora il collegio dei consultori, durante la sede vacante, non vi provveda. Ma come si è già precedentemente notatoVI-IT-ART-38832-pallio potrebbero aprirsi delle prospettive nuove per i compiti degli arcivescovi metropoliti. Al § 2 del can. 436 si legge: «Ubi adiuncta id postulent, Metropolita ab Apostolica Sede instrui potest peculiaribis muneribus et potestate in iure particulari determinandis» («Dove le circostanze lo richiedono, la Sede Apostolica può conferire al Metropolita funzioni e potestà peculiari da determinare nel diritto particolare»). E’ evidente che proprio da questo paragrafo si sono originate le norme che di cui si è accennato all’inizio di questo articolo. Il governo della Chiesa cattolica, a tenore del can. 204 § 2, è affidato al successore di Pietro e ai vescovi in comunione con lui. Tenendo conto dell’attuale numero di diocesi e di vescovi (oltre 5000), dovuto all’allargata universalità della Chiesa, l’idea di san Bonifacio di creare una realtà intermedia tra il Romano Pontefice e il vescovi diocesani, quale potrebbe essere quella dell’Arcivescovo Metropolita, appare quanto mai interessante. Anche per quanto riguarda la complessa questione dell’accorpamento delle diocesi, una rinnovata potestà dei metropoliti potrebbe essere una soluzione affidando, tra l’altro, alla provincia ecclesiastica alcuni servizi quali i seminari, gli istituti di scienze religiose o i tribunali ecclesiastici. La Sede Apostolica, inoltre, potrebbe, eventualmente, affidare ai metropoliti anche alcune competenze sulla vita del clero e le associazioni laicali. In questa prospettiva può essere di grande l’aiuto l’esperienza giuridica delle Chiese orientali cattoliche.

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