«Placuit Deo»: la forma relazionale ed ecclesiale della salvezza

740 368 Alessandro Clemenzia
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immaginedi Alessandro Clemenzia • Placuit Deo sono le prime parole che danno il nome alla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, indirizzata all’intero corpo episcopale. Esse indicano la direzione verso cui deve essere rivolto lo sguardo quando il discorso verte sul tema della salvezza: l’azione libera di Dio.

La Lettera, a seguito della pubblicazione della Dichiarazione Dominus Iesus (del 2000), non vuole affermare nuovi contenuti di fede, ma «intende mettere in evidenza, nel solco della grande tradizione della fede e con particolare riferimento all’insegnamento di Papa Francesco, alcuni aspetti della salvezza cristiana che possono essere oggi difficili da comprendere a causa delle recenti trasformazioni culturali» (n. 1). La missione ecclesiale di annuncio del vangelo deve costantemente tenere conto, sia del contenuto da comunicare (che si articola a partire dalla definitività della rivelazione di Dio Padre in Cristo), sia dell’interlocutore, inserito in un preciso contesto culturale, contrassegnato da una continua trasformazione.

Le due grandi tentazioni odierne, a proposito della salvezza, sono descritte da Papa Francesco attraverso il recupero di due antiche eresie: il pelagianesimo e lo gnosticismo. La prima, per quell’individualismo che ripiega l’uomo ad accontentarsi di sé, raggiungendo un’autonomia tale da Dio e dai fratelli da credere che la salvezza sia ottenibile attraverso i soli sforzi personali. La seconda tentazione, invece, fa riferimento a quell’accentuazione del sentimentalismo che scaturisce da un’eccessiva attenzione rivolta alle sensazioni intimistiche del proprio io, per cui la salvezza sembra riguardare esclusivamente il mondo dell’interiorità.

Sarebbe sufficiente la formula “placuit Deo” per spezzare dall’interno la forza di queste due tentazioni che albergano nel cuore di ogni uomo. Ogni pretesa di auto-realizzazione (condizione che può riassumere l’intenzionalità a cui portano entrambe le tendenze) deve cedere consapevolmente il posto alla libera e gratuita azione di Dio, che rende possibile all’uomo il raggiungimento della sua pienezza attraverso la comunione con Lui: è nel rapporto col Creatore che la creatura ritrova il suo destino, e cioè il compimento integrale di sé, proprio perché “è da Dio”. Tale offerta di salvezza è avvenuta in particolare con la persona stessa di Gesù, il quale «non si è limitato a mostrarci la via per incontrare Dio, una via che potremmo poi percorrere per conto nostro» (n. 11), ma ha raggiunto l’uomo nella sua condizione mortale per divenire egli stesso la via: “Io sono la via” (Gv 14,6).

In questa prima parte della Lettera della Congregazione viene ribadito, attraverso un esplicito riferimento cristocentrico, il carattere prevalentemente relazionale della salvezza: essa raggiunge l’uomo dal di fuori, come azione preveniente (gratia praeveniens) e proveniente da un Altro. La seconda parte della Lettera, invece, fondandosi su quanto già affermato, recupera il carattere comunitario della salvezza attraverso la mediazione salvifica della Chiesa; quest’ultima «ci assicura che la salvezza non consiste nell’auto-realizzazione dell’individuo isolato, e neppure nella sua fusione interiore con il divino, ma nell’incorporazione in una comunione di persone, che partecipa alla comunione della Trinità» (n. 12). La Chiesa è qui presentata non in senso sociologico, ma come quella realtà che più corrisponde all’essenza di ogni uomo, nella sua dinamica orizzontale (le relazioni interpersonali) e verticale (il suo essere costituito a immagine e somiglianza di Dio).

Senza soffermarsi su quanto la Lettera approfondisce circa l’economia sacramentale attraverso cui Dio risana l’uomo dal peccato (gratia sanans) e lo innesta nelle dinamiche trinitarie (gratia elevans), è interessante rivolgere l’attenzione sulla natura sociale della salvezza: ciò che il Padre, per mezzo di Cristo e nello Spirito Santo, opera verso il singolo, lo fa già in vista della comunità a cui appartiene. È come se la salvezza fosse un dinamismo che, attraverso il suo destinatario, fluisse e si irradiasse nel suo contesto sociale: Dio si dà all’io già, a-priori, in vista del noi. Si può comprendere, a tale proposito, lo statuto ecclesiale (si potrebbe affermare: noi-ale) della salvezza, contrariamente a qualsiasi logica ego-istica che può nascondersi anche nel più innocente desiderio di redenzione.

L’indole relazionale e comunitaria della salvezza spiega chiaramente come il mezzo attraverso cui Dio raggiunge l’umanità assuma la medesima forma del suo mittente, dove la relazione e la comunità condividono il nome proprio di Trinità. L’azione salvifica di Dio, dunque, è il dinamismo con cui Egli va trinitariamente incontro alla sua creatura, trinitizzando, attraverso il singolo, tutte le relazioni interpersonali che lo costituiscono “persona”. La salvezza non è uno stato che si raggiunge alla fine dei tempi, ma è una Presenza che raggiunge l’uomo nell’oggi, dal davanti (per questa ragione si può parlare di memoriale e non soltanto di memoria): l’uomo è chiamato a vivere questa esperienza di grazia con una sempre maggiore consapevolezza, il cui compimento coinciderà con la pienezza della sua vocazione.

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