In preghiera ed altre umanità

512 314 Carlo Nardi
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unnameddi Carlo Nardi • Grazie alla ‘Associazione Giglio Amico’ nelle care persone del presidente Alberto Panizza e di Marco Viani, dotto e semplice, e buono, ho voluto inviare a Il mantello della giustizia in rete alcune mie parole: In preghiera, in Toscanità. A cura di Marco Viani, Angela Manetti, Giovanni Gozzini. Prefazione di Sergio Zavoli, Firenze, appunto ‘Associazione Giglio Amico’, Giunti 2016, e già in stampa fin dall’ottobre (pp. 120-122).

In preghiera.

Mica facile condensare in poche pagine il sentire umano più consono con il divino presente in un popolo, quello toscano, peraltro multiforme quanto a luoghi e tempi! Ed essere consono con il divino vuol dire, in parole povere, che la preghiera è ‘uscio e bottega’ col Padreterno. Metto però le mani avanti: mi raccapezzo un po’ circa la preghiera nel cattolicesimo. Di altre fedi non sono un intenditore sì da parlarne con cognizione di causa. Ma ne sono più che curioso, e sono lieto di essere in compagnia di numerosi oranti.

Per dare il via ai pii toscani passati e presenti, e probabilmente anche futuri, ho richiamato alla mente alcuni proverbi o modi di dire, capaci di esprimere l’ethos di un popolo composto da illustri e sconosciuti, dalla Lunigiana alla Maremma. Parlare di preghiera è cosa seria, molto seria. Nondimeno, in Toscana, si maneggia la preghiera col sorriso sulle labbra: di solito non c’è il ghigno del sarcasmo, ma un’ironia in pelle in pelle. Che sia retaggio dell’ineffabile riso che increspa le tenere guance del sornione Apollo di Veio, plasmato e venerato dai nostri avi etruschi?

A questo proposito c’è un proverbio, schiettamente toscano: I troppi amen o, meglio, àmmene (sic) guastan la messa. È un corollario del più comune Il troppo stroppia, versione del solenne Ne quid nimis, a sua volta da Mēdèn ágan tra il Sette savi dell’antica Grecia. Nel parlar nostrano c’è idiosincrasia per smancerie devote, siano private, semipubbliche o del tutto pubbliche in fatto di allestimenti liturgici ripetitivi e tronfi. Appunto, perché Il troppo stroppia. Certo, questo stato d’animo, palese in un sorriso pungente, non è esclusivo della Toscana. Ricordo il Belli col suo Deus, in adiutorium divenuto Deus, un ajo, un toro, e Meo m’intenne, affibbiato, tra i Sonetti, a L’incoronazzione de Bonaparte; penso al Trilussa nella Riunione clericale con «un Papa in sedia gestatoria / e un Gesucristo in croce in un cantone». Noi abbiamo Dante con uno sghignazzo su una pompa ecclesiastica, sussiegosa e ridicola: «Cuopron d’i manti loro palafreni / sì che due bestie van sott’una pelle» (Paradiso 21,133-134).

La mentalità toscana, anche in fatto di preghiera, ha bisogno di distinguere. Lo fa pensare un detto, grassoccio, ma in tema: Icché centra il culo con le quarantore?! con punto interrogativo, come grammatica comanda, rafforzato dall’esclamativa. A questo proposito il probo lettore si aspetta una delucidazione. Non solo il secondo sostantivo aveva a che fare con una chiesa. Si racconta: in una pieve, tra il pigia pigia dei fedeli accalcati per le funzioni delle quarantore, un focoso pischello allungò una mano a pizzicottare una ragazza «in parte ˗ non s’adonti il poeta ˗ ove non è che luca» (Inferno 4,151): lei, casta Figlia di Maria o risoluta suffragetta, si voltò di scatto stizzita a fulminare il gradasso.

Le sue parole sono un prezioso assioma: distinguendum, «distinzione!» a incominciare da sacro e profano, e prima ancora su che cos’è sacro e cos’è profano e, a ritroso, se c’è un che di sacro e un che di profano. Per cui non bastano istituzioni civili ed ecclesiastiche con le loro pubblicazioni, le quali, se vogliono filosofare o teologizzare a garbo, devono sempre assumere la paziente fatica del discernimento. A qualcuno, illuminato ed entusiasta, parranno un che di prosaico e freddo. Eppure, anche in fatto di preghiera, c’è da discernere. Il che comporta una certa sobrietà mentale e spirituale. A questo proposito una mia confidenza: avevo sentito dire che una cecuziente, a seguito di un pellegrinaggio a Lourdes, aveva recuperato un decimo di vista. Mia mamma: «Ma? Già che la c’era, la Madonna la glieli poteva dare tutt’e dieci»; e poi con compunzione per un ripensamento: «O che ho detto male?» «Tu dici bene anche te», risposi, «da un certo punto di vista».

L’obiezione ricorda chi di toscani s’intendeva alquanto: Curzio Malaparte con un epitaffio in apertura al terzo capitolo di Maledetti Toscani, parole immediate come una fotografa sul «modo d’inginocchiarsi, che è piuttosto uno stare in piedi con le gambe piegate». È una frase da decodificare: si tratta di un rifiuto formale d’un doveroso atto di latria oppure di bisogno di libertà, dono del buon Dio che ci è babbo? O che sia un tentativo un po’ goffo di salvar capra e cavoli? Il fatto è che prima della riforma seguita al Vaticano II si scialava in genuflessioni: anche nel passar davanti alla cattedra episcopale, assente l’inquilino, era prescritto il ginocchio destro a terra in un atto che non era certo di adorazione nel senso teologico del termine.

Non solo. Nel mariolo Malaparte, pratese, mi sembra di annusare effetti toscani della Regolata devozione de’ cristiani di Ludovico Antonio Muratori, libro caldeggiato per il clero toscano dal granduca Pietro Leopoldo, auspice monsignor Scipione de’ Ricci, vescovo di Prato e Pistoia, anno 1787. Difatti è da considerare l’ascetica dello specifico giansenismo toscano: come quella del priore Marchionni di Querceto a Sesto Fiorentino, teologo di fiducia del Ricci, accusato di una mala morte dagli zelanti conservatori e invece morente con parole carpite dalle Scritture secondo i riformatori.

Se nell’Ottocento e nel primo Novecento prevalse una vistosa devozione in compagnie, confraternite e pie unioni, a Firenze l’incisiva figura episcopale del card. Elia Dalla Costa mirava alla sobrietà (1931-1961). Ad un parroco che lo informava di una stillazione sanguinolenta da un’immagine del Sacro Cuore, Dalla Costa avrebbe detto ˗ il condizionale è d’obbligo ˗: «Signor priore, la chiuda in un armadio. Quando vede i rigoli grondare, allora mi chiami». Ci furono fiotti? O no? Per il cardinale era meglio non riconoscere un miracolo vero che riconoscere un miracolo falso.

D’altra parte, nonostante la resistenza dei porporati fiorentini Antonio Bacci e Domenico Bartolucci, la Toscana in generale ha recepito la riforma liturgica conciliare all’insegna della “nobile semplicità” e della massima partecipazione. Già la messa in Santa Maria del Fiore presieduta dal card. Ermenegildo Florit in occasione del Settimo centenario dalla nascita di Dante il 14 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Concilio ecumenico per l’Immacolata, fu una concelebrazione: rispetto alle antifone seguite da un solo versetto del salmo lo si cantò integralmente, in una celebrazione versus populum, già auspicata negli anni trenta dal liturgista del Dalla Costa, il canonico inglese Reginald Pilkington.

Certo, nel Settecento c’erano stati segni di reazione alla regolata devozione con il movimento Viva Maria, come a preparare la restaurazione ottocentesca con superfetazioni curiose, credulone e pompose, talvolta per una iper-identificazione cattolica. Sono atteggiamenti peraltro ricorrenti. A titolo d’esempio ricordo qualche decennio fa la devota trovata del cosiddetto dolce di Padre Pio, probabilmente gradevole davvero, ma confezionato con passaggi rituali che sanno di “vane osservanze”, come si leggerebbe in qualche manuale di teologia morale del tempo che fu. E non è del tutto liscia la coabitazione dei due ordinamenti liturgici nello stesso rito romano. Del quale mi vien da dire pensosamente «mezzo lesso e mezzo arrosto per Christum dominum nostrum», riecheggiando una barzelletta: quella del molto reverendo pievano che si era scordato di dire alla perpetua, prima della messa grande, come cucinare il cappone. La fantesca allora, a messa avanzata fece pervenire il quesito al celebrante tramite un dispaccio bisbigliato da un chierico vispo al pio orecchio sacerdotale. Al che il reverendo avrebbe risposto rimescolando alla bell’e meglio latino e volgare nel prefazio con le parolette di cui sopra, solennemente cantate.

Qualcuno mi dirà: È buono il lesso ed è buono l’arrosto? Ma? Il papa, in amabili profondi conversari col direttore della Civiltà Cattolica, il 19 agosto 2014 parlava di «aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità», quella del Vetus ordo, che tradurrei con ‘vecchio ordinamento’, anche se la parola sa un po’ di Ministero della pubblica istruzione o come ora si chiama. Se poi il ‘vecchio’ è anche ‘straordinario’, chi lo sente chiamare così non pensa tanto al significato giuridico della parola: si fa un’idea di fuor dell’usuale, da vip e perciò di sciccoso. Invece, per come ricordo, mi viene in mente: «io c’ho la mi’ biondona, / la un sarà scicche, l’è forse un po’ cialtrona, / ma io l’adoro senza reticenze …»: con Edoardo Spadaro nella Sacra congregazione de’ riti? Tutto pol essere?

C’è anche in Toscana in fatto di pietà un darsi da fare, talora con immaginari guerreschi da Chiesa «oste schierata in campo» (Manzoni). Non vi ho trovato però toni esagerati, quali rilevai nel duomo di Francoforte: una tela, se ben ricordo tardorinascimentale, con un santo che dal cielo faceva piovere monete su gli squattrinati. Tra toscani i quattrini si sapevano maneggiare nel bene e nel male, anche nel molto male; forse però, proprio fra toscani, si sarebbero messi in mano a un santo pronto a donarli «con quel tacer pudico / che accetto il don ti fa» (Manzoni), ma non come quattrini «cascati da Dio» (Giusti) a pioggia su ‘lazzeroni’, anzi ‘lazzaroni’ nella variante napoletana, destinati a restar tali, come il ‘povero Lazzaro’ del Vangelo in questa vita.

Il toscano, certo, è affezionato ai suoi santuari, con gli ex voto ed altre «buone cose di pessimo gusto» (Gozzano): c’è chi ci ha pregato prima d’un difficile esame, c’è la sposa che il dì delle nozze vi ha deposto il bouquet, e chi vi ha fatto una confessione a garbo; e poi per il profumino che sale dai barroccini e sembra dire: “Comprami, comprami”, non foss’altro per il mimmo, tant’è che il rivenditore bandisce ancora con un invito suadente «Piangete, bambini: la mamma la ve lo compra!».

Anche il toscano ha i suoi santi. Eccome! Per questo non ne rammento alcuno. Scrivo da Firenze, dalla dominante del tempo che fu, e se omettessi per dimenticanza santi o santuari, e relativi preti, frati e monache, e zelanti soladizi … ci sarebbe da rischiar grosso. Perché anche in Toscana qualche volta i santi sono tanto potenti da oscurare il Principale. A Castelfiorentino i confessori si sentivano dire: «Qualche resia sì: alla Verdianina mai!». Invece certe beatificazioni devono sortire nel libero popolo di Dio stiracchiate recezioni, se fino a poco tempo fa si udiva: «Priore, qualche piononino in atto di rabbia»: si capisce perché, senza bisogno di ripassare la storia del Risorgimento.

Quali sono gli ambiti, in cui s’impara a pregare? Ovviamente, la famiglia, ansimante assai, e la parrocchia non di meno, forse un po’ più fantasiosa. Tra i mezzi ci sono i libri pii, da Le massime eterne e le Filotee nel primo e centrale Novecento alla Bibbia e l’ufficio specialmente dopo il Concilio, ed ora anche in bollettini su stampa o nell’etere, espressioni di attrezzati movimenti. E «c’è anche il parroco ˗ delineavo così nel 2001 il profilo di un mio predecessore, don Luigi Franchi, priore di Santa Maria a Quinto in Sesto Fiorentino ˗ il parroco che, per definizione, vuol dire ordinaria amministrazione: non lo specialista, teologo di grido o esorcista potente o maestro di alta spiritualità o prete sulla breccia o reverendissimo monsignore», non il liturgista speciale e riposto, «ma il prete da cui si va per i fogli, come dagl’impiegati del comune, ˗ e se non ci fosse! ˗, e che si tien di riserva quando non s’ha di meglio per le feste comandate o per alleggerire la coscienza, perché il parroco c’è e ci dev’essere, d’ufficio, e un po’ come la mamma».

Progetti per il futuro? Per chi li vuole e per quanto ci capisco, forse basta una parola, ma non guasta anche di più, e spesso e volentieri: la parola è “eccomi”. Chi la dice in bus, al semaforo, in coda alla posta …, la dice a qualcuno, a Qualcuno e, nel dirla, dice e fa, perché, dicendola sul serio, ci si mette in moto. In moto con il padre Abramo, con la Madonna; e, rimescolando Scrittura vecchia e nuova, un Salmo (39,3) e la Lettera agli Ebrei, anche Nostro Signore la disse al Babbo, a quello vero e con la lettera maiuscola, e anche a quello affidatario: anche se, ragazzino, invece di fare il chiasso, aveva già fatto una capatina all’università di Gerusalemme. Ma doveva far così per dire “eccomi” al suddetto Padre con la lettera maiuscola.

Effetti? Sono questioni di cuore su cui non entro o in punta di piedi, facendomi aiutare dal Fucini di cui riporto pari pari una poesia.

Ave!

fucini_renato-221x300Somigliante al ronzìo d’un alveare
Che a sciamar si prepara
Colmo di pace amara,
Giunge al cuor mio, col vento della sera,
Il suon d’una preghiera.
Oh, fortunati voi, voi che pregate!
Quanta pioggia di speme e di conforti
Scende dal Ciel! Van per l’eterna via,
Cinte di stelle alate,
L’ombre de’ nostri morti.
Ave Maria:<
Ave, porta del Ciel, stella del mare …
Oh, fortunati!… Ed io non so pregare! (da Ombre, 33)

Parla di preghiera anche una memoria che devo a una preziosa confidenza del padre Giovanni Roncari, ora vescovo di Sovana Pitigliano e Orbetello: San Piero a Ponti, prima metà del Novecento. Devote persone si affrettano a informare il priore, che la Cesira – mi vien di chiamarla così – l’ha la figliola sopra parto da diverse ore e l’è in chiesa davanti alla Madonna a raccomandarsi e a vociare come una barrocciaia, e a dire alla Madonna certe parole, sor priore, certe parole che son mezzi …, più che mezzi moccoli. «Lasciatela fare, lasciatela dire. Cose tra donne», rispose prontamente il reverendo e sospirando continuò a dire il suo breviario. Tacque e lasciò gridare. E non interruppe quella preghiera, e nemmeno la sua.

Mi pare che non ci sia nulla da aggiungere.

Carlo Nardi

P.S. Difatti nel 6 marzo 2016 mi ero messo di buzzo bono a scrivere, che di solito son piuttosto piaccicone, e invece non mi pareva vero che già nell’8 marzo avessi inviato lo scritto a Marco Viani.

Quando ebbi tra le mani il ponderoso libro, mi trovai un dono che mi fece gioire insieme a tanti incontri, e con amiche e con amici, che mi piace rammentare: Eugenio Giani, Piero Roggi, Marco Giovannoni, padre Fausto Sbaffoni, Marco Vannini, Elena Giannarelli, Carmelo Mezzasalma, Cristina Acidini, Carlo Lapucci, don Sergio Merlini, mons. Timothy Verdon, Giovanni Pallanti. E in primis Mario Luzi (1914-2005), quel ragazzo lungo e pensoso che a Castello abitava sotto il treno (sic) ed andava a scuola a Sesto, come mi diceva il nonno; e per me un compagno di scuola, liceo Dante, l’acuto David Riondino con Pensieri etruschi, che questa sapienza è come un’altra pelle (pp. 303-304).

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