«Episcopalis communio»: il recupero di uno stile sinodale

275 183 Alessandro Clemenzia
  • 0

downloaddi Alessandro Clemenzia • Sta tornando in auge nell’odierna riflessione ecclesiologica un’espressione contenuta nel diritto privato giustinianeo e successivamente recuperata da Innocenzo III e Bonifacio VIII: «Quod omnes tangit, debet ab omnibus approbari». Tale assioma ha trovato una grande diffusione nel Medioevo, soprattutto attraverso la Summa decretalium di Bernardo di Pavia, dove si proponeva come regolare alcune questioni di governo diocesano circa il rapporto tra vescovo e capitolo cattedrale: «Sciendum est igitur, quod in his quae a capitulo fieri vel ordinari debent, omnium consensus est requierendus, ut quod omnes tangit ab omnibus comprobetur». Una tale affermazione trovava nella natura collegiale dei capitoli della cattedrale la sua contestualizzazione ed espressione.

Tale assioma, tuttavia, non chiarisce la modalità attuativa del principio che contiene, vale a dire, in primo luogo, in che modo concretamente e con valenza giuridica possa essere espressa la volontà di ciascun membro del collegio, e, in secondo luogo, con quale misura (e cioè che tipo di maggioranza) gli argomenti trattati possano essere approvati.

La medesima formula è stata ripresa in ambito teologico anche da Congar, in un articolo uscito nel 1958 e intitolato: «Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet». Il termine “tractari”, se preso insieme ad “approbari”, non aggiunge alcunché di nuovo, in quanto un tema approvato deve necessariamente essere stato già trattato; se, invece, esso viene preso come modalità di partecipazione a prescindere dall’approvazione, allora viene aggiunto un elemento importante, e cioè la partecipazione consultiva.

Il tema racchiuso nella formula giustinianea, oltre al riferimento di Congar, continua a ricoprire una grande attualità, non tanto in ambito civile, quanto soprattutto in quello ecclesiale. Mentre l’odierna filosofia politica, infatti, dà ormai per scontato l’indiscutibilità del sistema democratico, nonostante ci sia oggi un’attenzione rivolta più sulla procedura che sul valore del bene comune, la Chiesa vive un processo di continua riscoperta della dimensione sinodale, come forma costitutiva del proprio essere.

È uscita di recente la Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, per ripensare questo organismo, nuovo nella sua intuizione, ma antico nella sua ispirazione, alla luce della nuova tappa dell’evangelizzazione in cui viviamo. Questo Documento contiene una densa premessa teologica, seguita dalla normatività canonica: sin dai primi numeri viene ribadito che il Sinodo dei Vescovi, proprio perché istituito da Paolo VI il 15 settembre 1965, è strettamente legato al grande evento conciliare, in cui è stata chiaramente affermata la natura sacramentale e collegiale dell’episcopato.

La sacramentalità chiede di riconoscere una tensione primariamente “relativa” del vescovi, singolarmente presi o in modo collegiale, vale a dire la loro ontologica relazione con ciò che è altro-da-sé. La Costituzione apostolica sottolinea in particolare una duplice relatività: in riferimento al ministero apostolico del Papa e all’intero Popolo di Dio: «È apparso così definitivamente chiaro che ciascun Vescovo possiede simultaneamente e inseparabilmente la responsabilità per la Chiesa particolare affidata alle sue cure pastorali e la sollecitudine per la Chiesa universale» (n. 2). Questa relatività episcopale ha delle importanti implicazioni anche sul Sinodo dei Vescovi. In primo luogo, infatti, questo organismo era stato istituito per offrire al Romano Pontefice dei consigli e delle informazioni su diverse questioni ecclesiali (si può cogliere, dunque, la sua natura consultiva). In secondo luogo, il Sinodo è uno strumento privilegiato per ascoltare e accogliere quanto proviene dal Popolo di Dio, di cui i vescovi sono sia maestri, quando insegnano in comunione con il Papa, sia discepoli, poiché costantemente chiamati, come forma di sequela, a mettersi in ascolto della voce di Cristo che continua a parlare attraverso quel Popolo unto dallo Spirito e reso in tal modo “infallibile in credendo”.

Proprio in virtù di questa duplice relatività, è di fondamentale importanza non solo la rappresentatività del singolo vescovo all’interno di un Sinodo, ma soprattutto la preparazione delle Assemblee sinodali: «In questa prima fase i Vescovi […] sottopongono le questioni da trattare nell’Assemblea sinodale ai Presbiteri, ai Diaconi e ai fedeli laici delle loro Chiese, sia singolarmente sia associati, senza trascurare il prezioso apporto che può venire dai Consacrati e dalle Consacrate» (n. 7). A questa relatività in riferimento al Popolo di Dio si lega anche l’altra, in relazione al Romano Pontefice: «Attenti al sensus fidei del Popolo di Dio […], i Membri dell’Assemblea offrono al Romano Pontefice il loro parere, affinché questo possa essergli di aiuto nel suo ministero di Pastore universale della Chiesa» (n. 7). Il Sinodo, tuttavia, trova il suo punto d’arrivo non nell’aiuto offerto al Papa nel prendere determinate decisioni, ma nell’attuazione di quanto emerso nell’Assemblea (e ratificato dal Romano Pontefice) all’interno del Popolo di Dio, «sul quale devono riversarsi i doni di grazia elargiti dallo Spirito Santo per mezzo del raduno assembleare dei Pastori» (n. 7). Questo, dunque, è il dinamismo che caratterizza il processo sinodale: ascolto, decisione e attuazione.

A questa duplice relatività del Sinodo, se ne aggiunge un’altra di natura più verticale che orizzontale: l’Assemblea sinodale, infatti, non può essere compresa come un raccoglitore ufficiale di questioni provenienti dalle singole Chiese locali, di cui poi si offre una sintesi al Papa, ma, «indipendentemente dalle sue modalità, è un momento importante di ascolto comunitario di ciò che lo Spirito Santo “dice alle sue Chiese” (Ap 2,7)» (n. 8).

La Costituzione apostolica Episcopalis communio, come si è visto, si inserisce pienamente all’interno di quanto il Vaticano II ha affermato circa la natura sacramentale e collegiale dell’Episcopato, in perfetta continuità con quanto ha ribadito il magistero postconciliare degli ultimi decenni.

La grande novità di questo Documento si trova nell’attenzione che viene rivolta alla fase preparatoria del Sinodo, in cui i vescovi sono chiamati, nelle loro Chiese locali, alla consultazione del Popolo di Dio (art. 6), rendendo così de iure ciò che fino ad oggi era una consuetudine unicamente de facto. La stessa Segreteria generale è chiamata ad accompagnare questa fase di “ascolto”, fino a «promuovere la convocazione di una Riunione presinodale con la partecipazione di alcuni fedeli da essa designati, perché anch’essi, nella diversità delle loro condizioni, offrano all’Assemblea del Sinodo il loro contributo» (art. 8 § 1). Un’altra novità risiede nella fase attuativa del Sinodo: non più propositiones, ma l’elaborazione di un Documento finale che, elaborato da una Commissione e approvato dai Membri, «partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato» (art. 18 § 2).

L’Episcopalis communio rappresenta un ulteriore passo per riplasmare le strutture ecclesiali alla luce di quello stile sinodale cui Papa Francesco spesso richiama.

image_pdfimage_print