La parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,1-9): un messaggio attuale, una sfida urgente

300 240 Gianni Cioli
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image_preview-1di Gianni Cioli • «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,1-9).
La parabola dell’amministratore disonesto può suscitare imbarazzo perché a un ascolto superficiale può apparire una sorta di elogio della disonestà o quanto meno dell’astuzia secondo la carne, ovvero, per dirla in termini giornalistici, dei furbetti. A una lettura pedantemente analitica il testo può invece dare l’impressione di un discorso poco logico se non contraddittorio.
In realtà il senso e la profondità del messaggio risultano molto chiari dal contesto che vede la parabola collocata fra l’annuncio della misericordia (cf. Lc 15,1-32) e l’insegnamento sulla fallacia delle ricchezze (cf. Lc 16,10-31). Il brano sintetizza e ricapitola, ricollegandosi sia al filone sapienziale che ha quello profetico, tutto il messaggio biblico sulla precarietà della ricchezza e sul suo possibile uso corretto.
La parabola può essere infatti interpretata secondo la tradizione biblica sapienziale come una metafora amaramente realistica dell’esistenza precaria di ciascuno noi: siamo tutti amministratori provvisori di un patrimonio che non ci appartiene perché i beni di cui siamo attualmente responsabili (e che reputiamo illusoriamente nostri) ci verranno tolti allorquando moriremo. C’è tuttavia un uso lungimirante di questa ricchezza precaria che ce la renderà utile anche quando verrà a mancare: approfittare del tempo che ci rimane per farci degli amici che ci accoglieranno quando non avremo più nulla.
Ma, fuori di metafora, chi sono questi amici che ci accoglieranno (dopo la morte) «nelle dimore eterne»? In linea con la tradizione profetica, e con i suoi numerosi richiami alla misericordia verso i bisognosi, Luca lascia chiaramente intendere che gli amici da farsi oggi, finché si è in tempo, con la ricchezza che altrimenti risulterebbe inesorabilmente «disonesta», non sono altro che i poveri. Ad essi appartiene il regno di Dio (Lc 6,21) e il bene fatto a loro è la chiave che lo apre.
Se ci pensiamo la prospettiva di Luca risulta perfettamente sovrapponibile con quella tracciata da Matteo che, al capitolo 25 del suo Vangelo, delinea la ben nota identificazione del Giudice escatologico con i poveri e i sofferenti ed enuclea quelle che la tradizione della Chiesa riconoscerà come opere di misericordia corporale: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito» (Mt 25,35-36).
Se l’interpretazione è corretta non sembra dunque affatto difficile comprendere il messaggio della parabola. Quello che piuttosto appare difficoltoso è accoglierlo e metterlo pienamente in pratica.
La difficoltà è evidente per almeno tre buoni motivi. Il primo è che a nessuno, e men che mai oggi nella cultura corrente, piace pensare alla propria morte come invece il messaggio della parabola ci richiama a fare. Il secondo motivo è che tutti siamo più o meno fortemente attaccati ai nostri beni e troviamo una naturale difficoltà a separarcene fosse anche per un calcolo lungimirante come quello sapientemente raccomandato dal Vangelo. L’ultimo ma non meno grave motivo sta nel fatto che i poveri ci risultano spesso sgradevoli, se non addirittura un problema da cui difenderci e da tener lontano, come ci confermano le reazioni di buona parte della popolazione e dei governi europei di fronte alla tragica e urgente vicenda dei profughi richiedenti rifugio.
Eppure, ci ammonisce il Vangelo, quei poveri che oggi ci possono apparire (ed obiettivamente anche essere) un problema, un domani, dopo la nostra morte, potrebbero essere una risorsa: la nostra decisiva risorsa se non li avremo rifiutati, disprezzati o ignorati (cf. Lc 16,19-31).

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