Papa Francesco, Madre Teresa ed i “Potenti senza aureola”

475 320 Antonio Lovascio
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image014di Antonio Lovascio  Lo hanno sottolineato in pochi, in pratica solo i vaticanisti più attenti, non certo i più qualificati editorialisti. C’è un aspetto della figura di Madre Teresa di Calcutta che non a caso Papa Francesco ha voluto evidenziare nell’omelia durante la cerimonia di canonizzazione in piazza San Pietro, il 4 settembre: «Madre Teresa – ha detto Bergoglio – si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché ammettendo le loro colpe dinanzi ai crimini della povertà creata da loro stessi. La Misericordia è stata per lei il “sale” che dava sapore a ogni sua opera, e la “luce” che rischiarava le tenebre di quanti non avevano più neppure lacrime per piangere>.

Mi ha colpito, lo confesso, l’insistenza del Pontefice sui “crimini della povertà” creati dai “potenti della terra”. Mentre il G20 era riunito in Cina, a Hangzhou, mentre appunto i cosiddetti Grandi discutevano di crescita, immigrazione, della guerra di Siria e di protezionismo, dal cuore della Chiesa universale sì è elevato un inequivocabile  j’accuse contro coloro che non solo lasciano gli sventurati nella loro miseria, ma continuano a compiere “crimini” sfruttando l’indigenza, parlando di pace e favorendo invece la guerra con la vendita di armi.

Come la “suora della sofferenza”, anche Papa Francesco non nega una chance ai “Potenti senza aureola”. La povertà, dice Bergoglio, non è un male inevitabile. E’ un male addirittura iniettato nelle nostre società da chi ha responsabilità nel governo planetario. Basterebbe che, dopo aver recitato un “mea culpa”, cominciassero a tendere una mano agli 800 milioni di persone, in particolare donne e bambini, che patiscono la fame nei Paesi in via di sviluppo. Parole che acquistano maggior forza perché pronunciate nel Giubileo della Misericordia, davanti all’immagine di “Mahatma Gandhi” (così nel 1960 l’arcivescovo di Boston card. Cushing soprannominò quella religiosa minuta, con sandali ai piedi nudi ed una sportina di pezza) che più di ogni altro ha incarnato nel ventesimo secolo la Carità, offrendola non solo all’India ma a tutta l’umanità. Madre Teresa – non c’è bisogno di chiamarla Santa! – è dunque un’icona credibile per un mondo in cui la povertà è stata e viene tuttora “creata”. Perché aveva il coraggio di scuotere i Capi di Stato, di trattare il presidente americano Ronald Reagan come uno studentello: nel 1986 “assediò” la Casa Bianca, fin quando non riuscì a portare aiuti alla città sudanese di Giuba, a maggioranza cristiana, con la popolazione allo stremo che stava morendo di fame. I guerriglieri l’avevano circondata e il governo del Sudan non faceva nulla per liberarla. Grazie all’intervento di Reagan e del suo vice George Bush fu aperto un corridoio umanitario: con un aereo carico di cibo e medicinali atterrò a Giuba.

Oggi non c’è più Madre Teresa e tocca direttamente al Papa strigliare i Potenti. Lo ha fatto ripetutamente in questi mesi, l’ultima volta da Assisi incitando alla fratellanza delle Religioni,condannando il fondamentalismo, ma allo stesso tempo invitando l’Europa e gli altri Continenti alla Cooperazione, per eliminare le diseguaglianze aumentate con la depressione economica. Così come un messaggio indiretto alla coscienza del mondo aveva appunto lanciato in occasione dell’ultimo G20 a presidenza cinese tenutosi a Hangzhou, da molti osservatori commentato per la sua debolezza in termini di accordi vincolanti tra i 20 maggiori Paesi sviluppati e per i contrasti irrisolti tra Russia e Usa. Troppo poco credito si è dato alla decisa spinta cinese, con manifesta aspirazione a leadership, nella diagnosi di una situazione mondiale piena di squilibri e diseguaglianze che richiedono azioni concrete e di lunga durata. Troppi hanno invece considerato questi indirizzi come “genericità” o “parole” quando non addirittura “chiacchiere”. È una visione scettica o rassegnata per non dire cinica, come ha sottolineato Alberto Quadrio Curzio su “Il Sole-24 Ore” dell’8 settembre. Oppure è la convinzione implicita che contano solo le forze prevaricanti, ovvero la violenza purché legalizzata, con questo non riconoscendo quanto hanno fatto nel Novecento per il bene dell’umanità leader pacifici ma forti, visionari ma determinati, idealisti ma concreti. Si pensi a Gandhi per la fine del colonialismo, a Martin Luther King per la fine delle segregazioni razziali in Usa, a Papa Wojtyła per la fine dell’impero sovietico. Personaggi capaci anche di cogliere il momento storico per orientarlo al bene comune. Anche i grandi leader politici, come Roosevelt e Churchill, che dovettero usare la forza delle armi per sconfiggere il nazismo, erano guidati da ideali come lo erano i fondatori della Comunità europea.

Questa capacità di unire valori ed ideali con concrete scelte politiche è un paradigma esemplare che nel ventunesimo secolo può essere praticato non da singoli leader, ma da organismi collegiali sovranazionali (la Ue) e mondiali (il G20 e l’Onu). Purchè non siano aride sigle, ma interpreti dei bisogni reali delle loro Comunità. Forse anche a questo pensava Papa Francesco parlando del rapporto, non certo di sottomissione, tra la “suora tutor del Papato” ed i Potenti della Terra.

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Antonio Lovascio

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