Circa la validità del Battesimo conferito con la formula «Noi ti battezziamo»

777 500 Alessandro Clemenzia
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250px-Sant'Agostino-d'Ipponadi Alessandro Clemenzia · «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche» (SC 7). Con queste parole, estrapolate dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, viene affermata una verità di fondamentale importanza per l’esperienza cristiana, tanto da innervare l’intera vita liturgico-sacramentale della Chiesa. Tale citazione è stata presa come punto di riferimento anche dal “Responsum” della Congregazione per la Dottrina della Fede per risolvere un dubbio sulla validità del Battesimo conferito con la formula “Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”: si tratta di una nota dottrinale, recentemente uscita (06.08.2020), sulle arbitrarie modifiche delle formule sacramentali stabilite dai testi liturgici della Chiesa, al fine di evitare interpretazioni e prassi disorientanti.

I quesiti posti sono i seguenti. Nel primo ci si chiede se sia valido il Battesimo conferito con la formula: «Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»; nel secondo, ci si domanda se coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula debbono essere battezzati in forma assoluta. Al primo la risposta è negativa; al secondo, invece, è positiva. Ma a chi si riferisce questo fatidico “noi” come soggetto dell’atto sacramentale? La risposta non va ricercata in chissà quale speculazione teologica, ma fa riferimento – come scrive la nota stessa – a un’azione compiuta «a nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità … ».

La modifica della formula tradizionale è sostenuta dall’intenzione di sottolineare il valore comunitario del Battesimo, al contrario da come si potrebbe interpretare quell’ “io ti battezzo”, in cui emergerebbe l’eccessiva importanza conferita al potere sacrale del presbitero a discapito dell’actuosa participatio dei fedeli, tanto auspicata dal Concilio Vaticano II. La sostituzione dell’io con il noi restituirebbe, secondo questa interpretazione pastorale, la giusta collocazione sacramentale degli altri membri della Chiesa.

Prima ancora di entrare nell’argomento propriamente teologico, in cui viene spiegata la natura di quell’io, ci si può domandare quale tentazione può nascondersi dietro tale ingenua preoccupazione pastorale. Viene recuperata una citazione di Romano Guardini, secondo il quale nell’azione liturgica l’orante «deve aprirsi a un altro impulso, di più possente e profonda origine, venuto dal cuore della Chiesa che batte attraverso i secoli. Qui non conta ciò che personalmente gli piace o in quel momento gli sembra desiderabile…» (R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia 2009, p. 196). Proprio nel desiderio di dilatare l’apparente solipsismo dell’io nel noi si nasconde una, seppure inconsapevole, deriva soggettivistica di chi crede di poter manipolare una formula che appartiene alla Tradizione, sostituendola con testi ritenuti più idonei.

Il valore della Tradizione viene affermato, nella nota dottrinale, attraverso un procedimento di ordine metodologico, vale a dire ricorrendo a quello che la Tradizione stessa ha affermato in proposito. Il primo autore ad essere citato è Tommaso d’Aquino, il quale, alla questione «utrum plures possint simul baptizare unum et eundem» (S.Th. III, q. 67, a. 6 c.), risponde in modo negativo. Il secondo è Agostino d’Ippona; di quest’ultimo la nota dottrinale si è servita soprattutto per comprendere la natura di quell’io: non è il presbitero in quanto tale il vero protagonista dell’evento liturgico, ma Cristo stesso (cf. S. Augustinus, In Evangelium Ioannis tractatus, VI, 7), o meglio è la Chiesa che, «quando celebra un Sacramento, agisce come Corpo che opera inseparabilmente dal suo Capo, in quanto è Cristo-Capo che agisce nel Corpo ecclesiale da lui generato nel mistero della Pasqua». A conferma di ciò la nota dottrinale presenta la continuità tra la teologia di Sacrosanctum Concilium e la dottrina dell’istituzione divina dei Sacramenti del Concilio di Trento.battesimo-acqua-fonte-battesimale-CMYK

Proprio in virtù della soggettualità ecclesiale, il celebrante è la Chiesa in quanto Corpo di Cristo che agisce sempre insieme al suo Capo, Cristo stesso, per cui modificare le formule liturgiche «non costituisce un semplice abuso liturgico, come trasgressione di una norma positiva, ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo, che nei casi più gravi rende invalido il Sacramento stesso, perché la natura dell’azione ministeriale esige di trasmettere con fedeltà quello che si è ricevuto (cfr. 1 Cor 15, 3)».

Certamente, il soggetto celebrante non è il presbitero singolarmente preso, ma tutta la comunità dei battezzati; il ministro tuttavia è «segno-presenza di Colui che raduna», e dunque – parole molto forti del documento – egli «è un segno esteriore della sottrazione del Sacramento al nostro disporne e del suo carattere relativo alla Chiesa universale». La ministerialità del presbitero, infatti ha un valore chiaramente relativo a Cristo; e questa verità dottrinale viene confermata da un’altra citazione di Agostino: «Battezzi pure Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; e battezzi anche Giuda, è Cristo che battezza» (S. Augustinus, In Evangelium Ioannis tractatus, VI, 7 ).

Tale relatività del ministro ordinato a Cristo significa che il presbitero agisce non in nome proprio, ma nella persona di Cristo e in nome della Chiesa, e questa dinamica del noi ecclesiale nell’io si esprime proprio «nell’atto esteriore che viene posto, con l’utilizzo della materia e della forma del Sacramento».

La nota dottrinale è chiara: quando lo zelo pastorale porta alla manipolazione di una formula sacramentale non va contro il rubricismo liturgico, ma si imbatte in seri problemi di natura cristologica ed ecclesiologica.

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