La «soddisfazione» nel Sacramento della Penitenza. Gli insegnamenti di San Giovanni Paolo II e di Sant’Antonino Pierozzi.

di Gianni Cioli · Mi è capitato, in più di un’occasione, di trovarmi di fronte alla domanda relativa ai criteri che, nell’ambito del sacramento della riconciliazione, i confessori dovrebbero seguire per assegnare la penitenza più adeguata.

Un’autorevole risposta può essere offerta da quanto affermava san Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia del 1984. Secondo il Papa, l’opera penitenziale affidata al penitente dal confessore, detta anche «soddisfazione»: «Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere di penitenza […] vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell’impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un’esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione); includono l’idea che il peccatore è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla Passione di Gesù che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l’assoluzione rimane nel cristiano una zona d’ombra, dovuta alle ferite del peccato, all’imperfezione dell’amore nel pentimento, all’indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza» (n. 31).
Può essere illuminante anche citare l’insegnamento del santo vescovo fiorentino Antonino Pierozzi (+ 1459), che nel suo trattato spirituale Opera a ben vivere, composto in volgare fra 1450 e il 1454, affermava: «La prima cosa che ci bisogna fare, dopo la confessione, a volere pervenire a qualche gusto di Dio, si è di diradicare de’ nostri cuori ogni radice di vizii e di peccati». Il cristiano non può dunque accontentarsi di confessare i «suoi peccati, e dire alcuni paternostri che l’imporrà il confessore, e non istudiarsi di emendare la vita sua» (Opera a ben vivere di santo Antonino arcivescovo di Firenze , Firenze 1858, pp. 34-35). Antonino, richiamandosi all’insegnamento di Raimondo di Peñafort, nella sua opera più importante e impegnativa la Summa Theologiae, scritta in latino fra il 1440 e il 1459, a proposito della penitenza che il confessore deve imporre, offriva anche alcuni criteri precisi su come, a determinati peccati, dovesse corrispondere una certa penitenza: «Soprattutto a questo deve prestare attenzione il confessore, a sradicare le cause e le occasioni dei peccati. […] Ancora, la penitenza deve essere imposta mediante il contrario del male commesso, […] al superbo opere di umiltà, all’avaro opere di elemosina, al goloso un digiuno, perché i contrari vengono curati con i contrari. […]. Allo stesso modo, se qualcuno è negligente nell’ascoltare la parola di Dio, […], gli può essere imposto di ascoltare un certo numero di prediche» (pars. III, tit. 17, cap. 20). Nell’Opera a bene vivere Antonino applicava la medesima logica alla disposizione che il cristiano deve personalmente maturare a combattere i vizi ancora abbarbicati in lui, ovvero le infermità dell’anima: «E a modo che dice Santo Gregorio, che si curano le infermità, dicendo: «Le calde col freddo, e le fredde si curano col calore»; così noi, spiritualmente ci bisogna adoperare le arme contrarie, per istirpare e guarire le infermità dell’anima. Cioè, contra alla superbia, l’umiltà; contra all’invidia, la carità; contra all’iracondia, la mansuetudine; contra alla lussuria, la continenza; contra all’avarizia, la largità. E così ci bisogna combattere, e avvezzarci a poco a poco; tanto che, collo aiuto di Dio, le male consuetudini s’abbattino» (p. 46).

Si può pertanto riconoscere che, per il santo pastore fiorentino, gli atti della penitenza sacramentale sono chiamati a innestarsi nell’esercizio della penitenza come virtù, e viceversa. Quest’ultima si esercita «pigliando sempre le arme contrarie che vorrebbe la nostra sensualità» (p. 45) e, innanzitutto, disponendosi ad affrontare le avversità della vita, anziché fuggirle; ovvero, in termini evangelici, imparando ad abbracciare la croce dietro il Signore e per amore suo. È, dunque, sempre determinante l’amore, «altrimenti, se questo amore noi non avessimo, ogni picciola fatica ci parrebbe impossibile, e mai a nulla perfezione di virtù potremmo pervenire» (p. 43).

Si tratta di considerazioni, a mio avviso, del tutto valide anche per il nostro tempo e che ci fanno comprendere come la penitenza affidata dal confessore al penitente dovrebbe innestarsi in una disposizione del cristiano alla penitenza in quanto virtù, cioè a uno stile di vita permanentemente e sinceramente orientato alla conversione, per scongiurare il rischio di ridurre la confessione a un autoinganno o, magari, a un sollievo psicologico, a un rimedio, insomma, meramente sintomatico che, pur risultando formalmente una celebrazione valida, non perviene alla radice del problema.
Tornando alla questione specifica di una «soddisfazione» congrua ai peccati confessati, e a come si regolino i confessori in merito, direi che purtroppo non sempre è facile per il confessore individuare la penitenza oggettivamente congrua ai peccati e, al tempo stesso, non troppo gravosa e scoraggiante per il penitente. Così, forse, ci si riduce spesso a formule di preghiera standard, per non sbagliare. Una possibile via per far fronte a questo problema la suggerivo, già qualche tempo fa, dalle pagine del settimanale Toscana oggi, quando scrivevo che «il confessore e il penitente potrebbero cercare insieme la giusta penitenza, ovvero potrebbero mettere a fuoco nel dialogo l’itinerario personale più adeguato a un’autentica, piena conversione e il gesto che più realisticamente lo possa esprimere tenendo conto della storia del penitente e delle sue reali forze morali. Sarebbe importante, alla fine di ogni confessione individuare una meta raggiungibile, una via percorribile che conduca alla meta e i mezzi disponibili e più concretamente utili per affrontare la via» (https://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Qual-e-il-criterio-con-cui-il-confessore-assegna-la-penitenza).