La giustizia evangelica e la giustizia legale, sintesi o contrapposizione?

di Francesco Romano • Gesù rivela la nuova giustizia la cui misura è paradigmatica: “Il re dirà loro: tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 5, 17). L’annuncio del nuovo Regno si accompagna, così, alla rivelazione della nuova giustizia dove anche il minimo tra i fratelli, defraudato di ogni diritto naturale, viene investito della stessa dignità regale del Figlio di Dio. La giustizia legale scopre nella giustizia evangelica, cioè nella carità, fino al paradosso dell’amore per i propri nemici, la novità assoluta del superamento della giustizia degli scribi e dei farisei fino ad amare i propri nemici.

La giustizia umana è perfezionata dalla giustizia evangelica nella promozione del prossimo riconosciuto come fratello. Nella logica del Regno la carità non esclude la giustizia: il diritto è alla base dell’uguaglianza, ma solo la carità la perfeziona trasformando l’uguaglianza in fraternità.

La giustizia legale nel dividere in parti opera una riduzione del bene, la giustizia animata dalla carità accresce il bene quanto più è condiviso. La logica del Regno consiste nell’essere disposti a rinunciare ai propri diritti e nel desiderare di “portare i pesi gli uni degli altri”. Anche la giustizia sociale può trovare solo nella carità la risposta più efficace come ha affermato Giovanni Paolo II quando ha dichiarato che solo nell’amore sociale vi sarà la salvezza del mondo.

L’amore sociale promuove la giustizia, rafforzando il rispetto per la persona e salvaguardando i valori autentici dei popoli e delle nazioni. Principio di questo amore sociale è l’ideale dell’amore e si trova in Cristo stesso, come testimoniano gli evangeli. A questo proposito sono illuminanti le parole di Giovanni Paolo II pronunciate il 10 febbraio 1980 alla Pontificia Commissione “Iustitia et Pax”: “È compito vostro cercare di presentare, nelle relazioni sociali, agli uomini del nostro tempo, l’ideale dell’amore. Questo amore sociale deve costituire il contrappeso all’egoismo, allo sfruttamento, alla violenza; deve essere luce di un mondo la cui visione rischia continuamente di essere oscurata da minacce di guerra, dallo sfruttamento economico o sociale, dalla violazione dei diritti umani; deve condurre alla solidarietà attiva con tutti coloro che vogliono promuovere la giustizia e la pace nel mondo”.

Carità e giustizia non si contrappongono, ma si integrano a vicenda. L’amore verso il prossimo si concretizza prima di tutto nel fargli giustizia e nel rispettare i suoi diritti. La carità è il coronamento del diritto e la conoscenza dei veri bisogni altrui come insegna San Paolo: “la carità rifiuta l’ingiustizia, ma si compiace della verità” (1 Cor. 13,6). Nessun diritto può essere negato in nome della carità. Chi vuol essere caritatevole, prima di tutto deve essere giusto. Principio della carità è ciò che il Signore chiama “fame e sete di giustizia” (Mt 5, 6).

Senza l’amore concreto per il prossimo e per la verità, la giustizia rimane una nozione astratta che sconfina nel fariseismo, ma, come scrive S. Giovanni, “non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Gv 4, 18). La carità fa progredire la giustizia perché quando scopre il prossimo che ha reali bisogni, lo soccorre pur senza che questi abbia alcun diritto da reclamare, come insegna la parabola del buon Samaritano.

La carità, tuttavia, non è un modo per rimediare all’ingiustizia né una giustificazione per dispensare dalla giustizia, ma la contiene come sua espressione prima e come suo momento essenziale. In questo senso Pio XII scriveva: “per essere autenticamente vera la carità deve sempre tener conto della giustizia da promuovere e mai contentarsi di mascherare i disordini e le insufficienze di un ingiusto stato di cose”. La carità supera la giustizia solo la suppone e mai sostituendosi a essa. La carità non può essere un alibi per creare o mantenere una condizione di ingiustizia. Il povero deve essere soccorso nel suo bisogno particolare, ma la vera carità è aiutare ad uscire dalle cause che rendono schiavi della povertà perché, come insegna S. Tommaso, “la povertà non è buona per se stessa, ma solo nella misura in cui libera l’uomo da ciò che gli impedisce di attendere alle cose di Dio” (S. TOMMASO, C. Gent. III, 133).

Prima di insegnare ad amare il valore della povertà, bisogna combattere l’ingiustizia che la genera. L’esercizio della carità nella sua espressione più farisaica è accorgersi del povero perché il ricco possa esercitare l’elemosina e le opere di misericordia. A questo proposito S. Agostino, nel commento alla prima lettera di S. Giovanni, scrive: «Noi non dobbiamo certo desiderare che ci siano dei bisognosi per poter così esercitare le opere di misericordia. Tu dai del pane a chi ha fame, ma sarebbe meglio che nessuno avesse fame, anche se in tal modo non si avrebbe nessuno a cui dare. Tu offri dei vestiti a chi è nudo, ma quanto sarebbe meglio se tutti avessero i vestiti e non ci fosse questa indigenza! Tu dai sepoltura a chi è morto, ma quanto sarebbe meglio che giungesse quella vita in cui nessuno più morirà! Tu metti d’accordo i litiganti, voglia il cielo che si stabilisca quella eterna pace di Gerusalemme, dove nessuno potrà litigare! Sono doveri legati a particolari necessità. Elimina i bisognosi, cesseranno le opere di misericordia. Ma se cesseranno le opere di misericordia, si estinguerà forse l’ardore della carità? Più genuino è l’amore che porti verso un uomo che non ha bisogno di nulla, al quale non devi dare nulla; questo amore sarà più puro e più sincero. Se infatti dai in prestito a un miserabile, può capitare che desideri esaltarti di fronte a lui e averlo a te soggetto, lui che ti ha fatto compiere quell’atto benefico. Si trovò nel bisogno e tu l’hai aiutato; sembri essergli superiore, perché hai dato a lui. Desidera che ti sia uguale, affinché ambedue siate soggetti a un solo [Signore], al quale nulla si può dare» (S. AGOSTINO, In I Epist. Ioan., VIII, 5, PL, XXXV, 2038).

La carità non supplisce agli obblighi di giustizia, bensì mi sprona a riconoscere e ad affermare il diritto altrui anche a costo di dover rinunciare volontariamente al mio diritto; nel portare i pesi degli altri per ritrovare nelle mani del fratello l’aiuto a sostenere anche il peso che mi appartiene.

La carità non nega il diritto del prossimo, ma va oltre la stretta giustizia, anzi la perfeziona. Essa inizia là dove la giustizia ha terminato il suo compito. Celebre a tal riguardo è il pensiero del Papa Leone XIII: “questa legge di scambievole carità, che è quasi un perfezionamento di quella di giustizia, non solo impone di dare a ciascuno il suo, e di non osteggiare i diritti di alcuno, ma anche di favorirsi l’un l’altro” (LEONE XIII, Encicl. Graves de communi, 18 gennaio 1901, in I. GIORDANI, Le encicliche sociali dei papi, vol. I, p. 230). L’elemosina non deve essere un alibi per donare al prossimo quanto già gli spetta per giustizia.

Prima opera di carità è imparare a soddisfare gli obblighi naturali di giustizia per poter poi penetrare nella vita del fratello e amarlo come si ama se stessi, pienezza della legge è l’amore. Non ciò che avanza sia oggetto di elemosina, ma ciò che è dentro quella coppa e quel piatto che i farisei puliscono all’esterno, frutto di rapina e iniquità, convinti di essere giusti perché pagano puntualmente la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, ma poi trasgrediscono la giustizia e l’amore di Dio. Perché anche l’interno sia mondo, il Signore dice di dare in elemosina non il superfluo, ma ciò che vi è dentro (Lc 11, 41).

Su questo punto, insegna San Tommaso: «non bastano i precetti della giustizia per conservare la pace e la concordia tra gli uomini, ma bisogna che sia tra essi anche l’amore. La giustizia fa sì che gli uomini non siano d’inciampo l’un l’altro, ma non spinge l’uomo a portare aiuto ai suoi simili in ciò di cui essi abbisognano, appunto perché questi potrebbero aver bisogno di ciò a cui non si è tenuti a dare per giustizia. Fu necessario quindi, perché gli uomini si aiutassero a vicenda, imporre a essi il precetto della mutua carità, per cui si è tenuti ad aiutarsi l’un l’altro anche in quelle cose alle quali non si è tenuti per debito di giustizia» (S. TOMMASO, C. Gent., III, 130).

Per questo la carità non solo presuppone la giustizia, ma anche la integra nel valutare quanto offrire al prossimo per amore di Dio, commisurato sul bisogno altrui e non sul “mio superfluo”. La carità costruisce una più perfetta giustizia.